Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14694 del 26/05/2021

Cassazione civile sez. VI, 26/05/2021, (ud. 24/02/2021, dep. 26/05/2021), n.14694

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 38228-2019 proposto da:

B.C., elettivamente domiciliato presso la cancelleria

della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, rappresentato e difeso

dall’Avvocato INNOCENZO D’ANGELO;

– ricorrente –

contro

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI

SCIPIONI, 268, presso lo studio dell’avvocato ANDREA REGGIO D’ACI,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DAVIDE FURLAN;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 145/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 13/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di Consiglio non

partecipata del 24/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. DE FELICE

ALFONSINA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

la Corte d’Appello Venezia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, ha riconosciuto il diritto di R.G., lavoratore alle dipendenze di B.C., al pagamento di retribuzioni arretrate e del t.f.r. (gennaio – maggio 2012), nonchè, contestualmente, il diritto di quest’ultimo al risarcimento dei danni causati dal comportamento negligente posto in essere dal lavoratore ai suoi danni (caduta di una gomma all’interno di un pozzo artesiano in corso di scavo e rottura di sei aste di perforazione finite nel medesimo pozzo), in misura pari a Euro 1.000,00, da compensarsi con il credito vantato dal dipendente a titolo di emolumenti non corrisposti;

la Corte territoriale ha, quindi, revocato il decreto ingiuntivo ottenuto dal datore in sede monitoria, ed ha condannato il lavoratore a risarcire il danno mediante corresponsione del saldo tra quanto a lui spettante a titolo di differenze retributive e t.f.r. (Euro 7.491,38) e quanto dovuto a titolo risarcitorio per il danno causato al datore (Euro 1000), oltre interessi;

la cassazione della sentenza è domandata da B.C. sulla base di sei motivi, illustrati da successiva memoria;

R.G. ha depositato controricorso;

è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di Consiglio.

Diritto

CONSIDERATO

che:

B.C. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., la quale è pervenuta presso la cancelleria di questa Corte oltre il termine di legge;

in conseguenza dell’inammissibilità della memoria depositata tardivamente il contenuto della stessa non può essere preso in considerazione da questo Collegio, non essendo applicabile per analogia l’art. 134 disp. att. c.p.c., comma 5, disposizione che riguarda esclusivamente il ricorso ed il controricorso (Cass. n. 31041 del 2019 e Cass. n. 8216 del 2020);

venendo all’esame del ricorso, col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorrente denuncia “Errata applicazione dell’art. 115 c.p.c. con riferimento al principio di non contestazione”;

la critica si appunta sull’asserzione del giudice dell’appello secondo cui il valore del danno causato, consistente in circa 30 metri di scavo per la realizzazione di un secondo pozzo in luogo di quello danneggiato, avrebbe dovuto essere rapportato al costo aziendale per metro quadro (per un totale di Euro 600,00) – mai contestato dal B. – e non già al costo richiesto dal cliente (Euro 4.600,00);

col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamenta “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in riferimento alla determinazione dei danni conseguenti alla realizzazione di un secondo pozzo”;

il vizio di motivazione denunciato consisterebbe nella erronea quantificazione del risarcimento dovutogli per i lavori di riparazione del pozzo danneggiato;

col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, deduce “Violazione dell’obbligo di motivazione ex art. 132 c.p.c., in riferimento alla determinazione dei danni conseguenti alla realizzazione di un “secondo pozzo”;

l’omessa motivazione si riferisce alla quantificazione del danno in Euro 600,00, e alla mancata considerazione, da parte del giudice d’appello, dell’impossibilità di addebitare al cliente il residuo valore della perdita subita a causa del comportamento negligente del dipendente;

col quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, deduce “Violazione dell’obbligo di motivazione ex art. 132 c.p.c., in riferimento alla determinazione dei danni conseguenti alla perdita delle aste”;

la Corte territoriale avrebbe omesso di motivare circa la riduzione del valore del danno al solo materiale ferroso di cui erano composte le trivelle e le aste perdute;

il quinto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contesta “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in riferimento alla determinazione dei danni conseguenti alla mancata realizzazione di due pozzi nel periodo impiegato a rifare quello danneggiato, per il danno all’immagine e la perdita di chance”;

il giudice d’appello, secondo il ricorrente, avrebbe rigettato la domanda sull’erroneo presupposto della mancata applicazione delle penali, questione mai proposta in giudizio, e non invece sulla circostanza, documentalmente provata, del ritardo nell’esecuzione dei lavori causato dal danneggiamento del pozzo;

col sesto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, deduce “Violazione dell’obbligo di motivazione ex art. 132 c.p.c., in riferimento alla determinazione dei danni conseguenti alla mancata realizzazione di due pozzi nel periodo impiegato a rifare quello danneggiato dal R., per il danno all’immagine la perdita di chance”;

la mancata applicazione delle penali testimoniata dai clienti escussi nel giudizio di merito non varrebbe, secondo parte ricorrente, a ritenere motivate le domande di risarcimento dei danni per perdita di immagine e per perdita di chance;

il primo motivo è inammissibile;

secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. occorre denunziare che il Giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dai poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (ex multis, cfr., Cass. n. 26769 del 2018);

il principio di diritto sopra richiamato va letto in correlazione con l’altro, secondo cui: “In tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 de 2012, art. 54, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012” (Cass. n. 23940 del 2017);

nel caso in esame, appare evidente dalla stessa prospettazione della censura che il ricorrente non intenda contestare una violazione di norme sostanziali o processuali, ma lamenti la quantificazione del danno causato per lo scavo del secondo pozzo, rapportato dal giudice del merito al costo aziendale per metro quadro (Euro 600,00) e non a quello richiesto dal cliente (Euro 4.600,00) secondo la deduzione tipica del vizio di motivazione;

quanto all’asserito errore della pronuncia, riferito alla inferiore quantificazione del danno nonostante il lavoratore non avesse mai contestato il maggiore valore chiesto e documentato dal ricorrente, deve rammentarsi come la non contestazione dei fatti non costituisce prova legale, ma rappresenta un mero elemento di prova;

pertanto, il giudice di appello, qualora nuovamente investito dell’accertamento dei medesimi con specifico motivo d’impugnazione, è chiamato a compiere una valutazione discrezionale della condotta processuale tenuta dal convenuto nel primo grado del giudizio;

secondo il consolidato principio di diritto affermato da questa Corte, “Nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della “relevatio ad onere probandi”, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte” (Così, Cass. n. 3680 del 2019; cfr. anche Cass. n. 27490 del 2019);

il secondo e il quinto motivo, esaminati congiuntamente per evidente connessione, sono inammissibili;

le doglianze, così come prospettate dal ricorrente, si pongono fuori dai parametri indicati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, del codice di rito nella versione attualmente vigente;

le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che “…nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Sez. Un. 8053 del 2014);

le doglianze prospettate nei due motivi in esame, finiscono per denunciare non già l’omesso esame di fatti storici decisivi, bensì la diversa valorizzazione di risultanze istruttorie, che si assumono erroneamente valutate dalla Corte territoriale;

il terzo, il quarto e il sesto motivo, da esaminarsi congiuntamente per evidente connessione, sono infondati;

la censura di violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, che dà luogo a nullità della sentenza, resta circoscritta alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”;

al di fuori di dette ipotesi il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia;

il vizio di omessa motivazione, rimane, in definitiva, circoscritto all’anomalia che non consenta la identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione; detto vizio non è ipotizzabile nel caso in cui la censura denunziata riguardi un contrasto – pur denunciabile sotto altri profili – tra le affermazioni contenute nella sentenza d’appello ed il contenuto di prove e documenti sui quali il giudice del merito abbia fondato la propria valutazione del fatto (da ultimo, cfr. Cass. n. 13248 e Cass. n. 17196 del 2020);

nel caso che ci occupa, la sentenza impugnata si è pronunciata esplicitamente su ciascuna delle circostanze di fatto contestate nelle censure in esame (vedi, specificamente, p. 6 sent.), sicchè non si ravvisano i presupposti dell’omessa pronuncia, nell’accezione intesa dal supremo insegnamento di questa Corte;

in conclusione, il ricorso va rigettato; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;

in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 2.500,00 a titolo di compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’Adunanza camerale, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021

 

 

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