Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14677 del 26/05/2021

Cassazione civile sez. lav., 26/05/2021, (ud. 13/01/2021, dep. 26/05/2021), n.14677

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23666-2019 proposto da:

C.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIUSEPPE

MAZZINI 123, presso lo studio dell’avvocato BENEDETTO SPINOSA, che

la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

ALMAVIVA CONTACT S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI DUE MACELLI 66,

presso lo studio dell’avvocato GIAMPIERO FALASCA, che la rappresenta

e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2287/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/05/2019 R.G.N. 3744/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/01/2021 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ Stefano, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato BENEDETTO SPINOSA;

udito l’Avvocato GIAMPIERO FALASCA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Roma confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva respinto la domanda proposta da C.R. nei confronti di Almaviva Contact s.p.a. volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento collettivo intimato in data 22/12/2016.

Nel pervenire a tale convincimento la Corte di merito osservava, in via di premessa, che in ragione della grave crisi di mercato, del calo del fatturato e dell’incremento delle perdite, Almaviva Contact s.p.a. aveva avviato una prima procedura di riduzione del personale in data 21/3/2016 per circa tremila lavoratori dislocati presso le sedi di Roma, Napoli e Palermo, successivamente revocata con accordo sindacale del 31/5/2016.

Con comunicazione del 5/10/2016, in ragione del complessivo aggravamento della situazione di crisi aziendale, la società aveva avviato una ulteriore procedura di licenziamento collettivo ex L. n. 223 del 1991 che contemplava un rinnovato progetto di ristrutturazione che prevedeva la chiusura dal dicembre 2016, dopo la scadenza del contratto di solidarietà attivato a maggio, delle Divisioni 1 e 2 del sito di Roma (con conservazione della Business Unit “ricerche di mercato”) e dell’intera unità produttiva di Napoli, considerato che queste sedi riportavano in media, perdite mensili pari, rispettivamente, ad Euro 785.000 ed Euro 288.000.

La successiva trattativa sindacale aveva condotto ad un accordo in data 22/12/2016 che prevedeva un rinvio del licenziamento sino al 31/1/2017 per l’unità di Napoli, ed il recesso immediato per gli addetti alla sede romana. Si trattava di accordo sottoscritto da tutte le parti sociali, con esclusione soltanto delle RSU di Roma, il cui atteggiamento contrario all’accordo non era tuttavia ostativo, per la rappresentatività garantita dai firmatari di tutti i lavoratori interessati.

Avuto riguardo alla critica formulata dalla lavoratrice con riferimento alla violazione dei criteri di scelta di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1 per avere l’azienda delimitato il bacino di comparazione dei dipendenti da licenziare alla sola sede di Roma, pur sussistendo fungibilità di mansioni con i lavoratori addetti ad altre sedi, il giudice del gravame osservava che l’accertato raggiungimento dell’accordo sindacale aveva comportato, in coerenza coi dettami di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5 comma 1, la legittima determinazione dei criteri di scelta diversi da quelli stabiliti per legge.

In coerenza con la previsione normativa, era da reputarsi legittimo il rilievo conferito dalla parte datoriale alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative per la concentrazione della scelta del personale in esubero presso le sedi indicate che, sotto altro versante, si sottraeva alle critiche di parte attrice in base ai principi invalsi nella giurisprudenza di legittimità alla cui stregua qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad una unità produttiva o ad uno specifico settore aziendale, la comparazione fra i lavoratori non deve interessare l’intera azienda ma può avvenire anche nel solo settore interessato alla ristrutturazione, purchè le ragioni siano enunciate nella comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 3, così come verificatosi nella specie.

La Corte distrettuale rimarcava, poi, che la distanza fra le unità soppresse o ridotte e quelle non interessate dal processo di riorganizzazione (ubicazione ad almeno 500 km di distanza delle sedi non interessate: Rende, Milano, Palermo e Catania) assumeva rilievo, in base ai dicta della Suprema Corte secondo cui la rilevante distanza geografica fra le unità produttive costituisce un indice di infungibilità delle posizioni lavorative, era tale da legittimare la scelta di delimitare l’ambito di selezione alla sola unità produttiva soppressa.

Ribadiva, quindi, la specificità del contenuto della comunicazione iniziale della procedura, osservando che la vacanza di ulteriori 75 posti presso altre sedi aziendali – della quale si lamentava l’omessa enunciazione da parte aziendale – era stata invece considerata dalla società nella comunicazione del 5/10/2016 che aveva rimesso all’esame congiunto con le parti sociali l’adozione di eventuali trasferimenti.

Con riferimento alla comunicazione conclusiva, il giudice del gravame ne rilevava la conformità a diritto, giacchè l’ambito della platea del personale in esubero era stato circoscritto, in coerenza con la comunicazione di avvio della procedura, a tutti i dipendenti della sede di Roma che operavano in modalità inbound presso le Divisioni 1 e 2; nell’ottica descritta nessuna comparazione doveva essere elaborata con gli altri collaboratori in servizio in modalità outbound presso la Business Unit “Ricerche di mercato” e presso la Direzione Centrale, i quali fra l’altro, espletavano mansioni obiettivamente infungibili con quelle del personale esodato.

Insufficiente a dimostrare la fungibilità con gli operatori inbound era la prospettazione di parte appellante che non consentiva di superare la diversità e non omogeneità del servizio reso rispetto a quello fornito in modalità outbound attestata anche dalle deposizioni testimoniali acquisite; nè la reclamante aveva specificamente dedotto che le modalità di esecuzione erano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi dei singoli collaboratori.

In tale prospettiva non poteva avere rilievo la mancata comparazione con i lavoratori co.co.co. addetti alla struttura Business Unit, deputata alle ricerche di mercato e indagini statistiche outbound, rimasta estranea ai dichiarati esuberi, stante la diversità e non omogeneità del servizio reso inbound rispetto a quello outbound.

Avverso tale decisione C.R. interpone ricorso per cassazione sostenuto da quattro motivi.

Resiste con controricorso la società intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo si denuncia violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia e nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato.

Si deduce che in sede di reclamo si era sottolineato come la società, nella comunicazione di avvio della procedura, non avesse esplicitato il criterio delle esigenze tecnico produttive, comunicando solo i punteggi di anzianità di servizio e carichi familiari per i lavoratori che aveva deciso di licenziare in anticipo, senza evidenziare il confronto dei licenziati con i 75 non licenziati sul sito di Roma. La pronuncia al riguardo sarebbe stata “assente in violazione del principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato”.

2. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 13 e violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3.

Si critica la pronuncia per non aver rilevato l’omessa informazione su trasferimenti e strumenti di integrazione salariale in relazione alla possibilità di trasferimento di 75 lavoratori, comunicata dalla società soltanto con la lettera di licenziamento.

Nel ritenere che gli eventuali trasferimenti volontari a sedi non colpite da esubero presupponevano proprio l’intervenuto licenziamento, che sarebbe stato revocato solo successivamente in sede protetta ed a fronte di una conciliazione, si deduce che la Corte di merito avrebbe confuso una logica ex ante – secondo cui “i trasferimenti devono essere dichiarati esplicitamente come mezzo di riduzione del numero dei licenziamenti, anche se condizionati ad esigenze aziendali ma non ad una conciliazione tombale” – con una logica di controllo sul nesso causale che è funzionalmente ex post.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3.

Si ribadisce la contraddittorietà della motivazione su trasferimenti e ammortizzatori sociali ritenuti contemporaneamente compatibili o incompatibili con la situazione concreta: mentre per gli ammortizzatori sociali si programmava la prosecuzione per Palermo, per Roma e Napoli se ne deduceva l’insostenibilità.

Si prospetta la incompletezza della lettera di apertura della procedura di licenziamento collettivo per essere state le informazioni fornite da parte aziendale non complete.

4. Con il quarto motivo è denunciata violazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1.

Si stigmatizza la medesima statuizione sotto il profilo della illogicità ed irragionevolezza dei criteri di scelta applicati e della affermata impossibilità di ovviare ai licenziamenti mediante trasferimenti dei lavoratori.

Si lamenta che la Corte di merito abbia considerato effettivamente sussistenti i motivi addotti dalla società per giustificare la delimitazione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta ai soli dipendenti delle sedi coinvolte dalla procedura di licenziamento di cui è causa, non avvedendosi della contraddittorietà delle ragioni addotte da Almaviva Contact onde delimitare l’ambito territoriale dei licenziamenti.

5. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, non sono fondati.

Nella verifica di legittimità del licenziamento collettivo attuato da Almaviva Contact s.p.a., in esito alla comunicazione di apertura del 5 ottobre 2016, con intimazione di recesso ai singoli lavoratori delle Divisioni 1 e 2 di Roma con lettere del 22 dicembre 2016 e decorrenza dal 30 dicembre 2016, ritenuta dalla sentenza della Corte d’appello di Roma ed impugnata in base agli enunciati motivi, giova muovere da un principio orientativo unanimemente condiviso: la cessazione dell’attività è scelta dell’imprenditore, che costituisce esercizio incensurabile della libertà di impresa garantita dall’art. 41 Cost. (Cass. 22 dicembre 2008, n. 29936). Sicchè, la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne derivino, secondo le regole dettate per il collocamento dei lavoratori in mobilità dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, applicabili per effetto dell’art. 24 della stessa legge, ha la sola funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettività di tale scelta (Cass. 22 marzo 2004, n. 5700; Cass. 6 settembre 2019, n. 22366).

E la previsione degli artt. 4 e 5 L. cit. di una puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda; da ciò discende che i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi di riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso): con la conseguente inammissibilità, in sede giudiziaria, di censure intese a contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5, senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, che investano l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (Cass. 6 ottobre 2006, n. 21541; Cass. 3 marzo 2009, n. 5089; Cass. 26 novembre 2018, n. 30550).

7. Sulla base di questa premessa occorre allora scrutinare la legittimità dell’operazione compiuta da Almaviva Contact s.p.a., che, dopo una prima procedura, avviata con la comunicazione del 21 marzo 2016, riguardante 2.988 lavoratori in esubero dislocati presso le sedi di Palermo, Roma e Napoli e revocata per accordo con le organizzazioni sindacali il 31 maggio 2016, ha aperto la procedura in esame, a seguito di un peggioramento della crisi nei siti di Roma e Napoli.

E ciò essa ha disposto con la suddetta comunicazione del 5 ottobre 2016, che ha illustrato le ragioni che rendevano necessario il licenziamento di 1.666 lavoratori delle Divisioni 1 e 2 di Roma e di tutti gli 845 dell’unità produttiva di Napoli, con’ applicazione dei criteri di scelta per comparazione del personale operante con profilo equivalente all’interno di ciascuno dei predetti siti interessati dagli esuberi: così limitandone la platea alle due divisioni romane e all’unità produttiva partenopea e applicando i criteri di scelta per comparazione del personale operante con profilo equivalente all’interno di ciascuno dei siti.

8. Va subito detto che, in applicazione del principio generale suenunciato, le ragioni tecniche, organizzative e produttive, salva la ricorrenza delle ipotesi sopra indicate, non possono essere sindacate nè risulta siano state oggetto di contestazione.

Le questioni che si pongono all’esame di questa Corte attengono allora, in scansione logicamente sequenziale: a) alla completezza informativa della comunicazione di apertura; b) alla legittimità di individuazione della platea degli esuberi limitatamente a singole unità produttive (per quel che qui interessa: le due divisioni romane), anzichè in riferimento all’intero complesso aziendale; c) all’individuazione e applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori, anche in correlazione con la fungibilità o meno delle loro mansioni.

9. Come noto, la comunicazione di apertura della procedura, con la quale l’impresa manifesti la volontà di esercitare la facoltà di procedere ad una riduzione del personale alle organizzazioni sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria (L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 2), deve contenere le indicazioni prescritte dall’art. 4, comma 3 L. cit. E segnatamente: a) i motivi che determinano la situazione di eccedenza; b) i motivi tecnici, organizzativi e produttivi per i quali non risultino possibili rimedi alternativi ai licenziamenti; c) il numero, la collocazione aziendale e i profili professionali del personale eccedente e di quello abitualmente impiegato; d) i tempi di attuazione del programma di riduzione del personale e delle eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale dei licenziamenti.

Essa deve, infatti, adempiere compiutamente l’obbligo di fornire le informazioni specificate dal citato art. 4, comma 3, così da consentire all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero: sicchè, l’inadeguatezza delle informazioni, che abbia potuto condizionare la conclusione dell’accordo tra impresa e organizzazioni sindacali secondo le previsioni del medesimo art. 4, determina l’inefficacia dei licenziamenti per irregolarità della procedura, a norma dell’art. 4, comma 12 (Cass. 16 gennaio 2013, n. 880; Cass. 3 luglio 2015, n. 13794). Ciò che comunque conta, in funzione dell’esercizio del controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa (non più, come detto, esercitato ex post dal giudice, ma) devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, è l’idoneità in concreto della comunicazione a renderle effettivamente edotte degli aspetti individuati nel citato art. 4, comma 3, in modo da escludere maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali (Cass. 18 novembre 2016, n. 23526, con richiamo, tra le altre, di: Cass. 6 ottobre 2006, n. 21541; Cassi 21 febbraio 2012, n. 2516).

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha accertato la completezza della comunicazione di apertura del 5 ottobre 2016, ritenendola esaustiva per la sua ampia articolazione nei punti specificamente enumerati, sulla scorta di argomentazione congrua, a sostegno di un’interpretazione, riservata esclusivamente al giudice di merito, assolutamente plausibile (Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; Cass. 3 settembre 2010, n. 19044), neppure censurata con indicazione dei canoni interpretativi violati, nè tanto meno di specificazione delle ragioni nè del modo in cui si sarebbe realizzata l’asserita violazione (Cass. 14 giugno 2006, n. 13717; Cass. 21 giugno 2017, n. 15350), così censurando il risultato interpretativo in sè (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 26 maggio 2016, n. 10891), pertanto insindacabile in sede di legittimità.

10. In particolare, nella comunicazione in esame, Almaviva Contact s.p.a. ha specificamente circoscritto il progetto di ristrutturazione e ridimensionamento aziendale alle unità produttive di Roma e Napoli, indicando analiticamente le ragioni ostative ad un’estensione della comparazione al personale impiegato presso le unità produttive non toccate da tale progetto (Milano, Palermo, Catania, Rende): con delimitazione pertanto delta platea “al personale operante con profilo equivalente all’interno di ciascuno dei siti produttivi interessati dagli esuberi (Roma e Napoli), in ragione della chiusura totale delle Divisioni 1 e 2 (per quanto riguarda Roma) e dell’intero sito (per quanto riguarda Napoli)”. In particolare, in essa si legge che “la società ritiene incompatibile con l’attuale situazione di grave criticità aziendale l’applicazione dei criteri di scelta all’intero organico aziendale”; e ciò per “la distanza geografica di queste due unità produttive dagli altri siti aziendali”, che renderebbe “insostenibile sul piano economico, produttivo e organizzativo l’applicazione dei criteri di scelta sull’intero organico aziendale, richiedendo tempi di attuazione e delle modifiche organizzative talmente complesse da compromettere il regolare svolgimento dei servizi… finendo per aggravare ulteriormente la situazione di squilibrio strutturale in cui versa l’azienda… “; inoltre, l’impossibilità di una comparazione del personale a livello dell’intera azienda è giustificata dall’avere “ciascun sito produttivo… caratteristiche tali da rendere infungibili le risorse ivi presenti con il personale collocato presso le altre sedi, in quanto le commesse… non possono essere agevolmente spostate da un sito all’altro (e quindi da una popolazione professionale all’altra) senza l’attuazione di interventi formativi, organizzativi e logistici incompatibili con la situazione economica in cui versa l’azienda” (come si legge a pag.9 della sentenza).

E’ noto che l’individuazione dei lavoratori da licenziare debba avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi o con accordi sindacali, ovvero, in mancanza, dei criteri, tra loro concorrenti, dei carichi di famiglia, di anzianità e (nuovamente) delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative (L. n. 223 del 1991, art. 5).

Sicchè, “in via preliminare, la delimitazione del personale “a rischio” si opera in relazione a quelle esigenze tecnico produttive ed organizzative che sono state enunciate dal datore con la comunicazione di cui all’art. 4, comma 3 cit.; è ovvio che, essendo la riduzione di personale conseguente alla scelta del datore sulla dimensione quantitativamente e qualitativamente ottimale dell’impresa per addivenire al suo risanamento, dalla medesima scelta non si può prescindere quando si voglia determinare la platea del personale da selezionare. Ma va attribuito il debito rilievo anche alla previsione testuale della norma secondo cui le medesime esigenze tecnico produttive devono essere riferite al “complesso aziendale”; ciò in forza dell’esigenza di ampliare al massimo l’area in cui operare la scelta, onde approntare idonee garanzie contro il pericolo di discriminazioni a danno del singolo lavoratore, in cui tanto più facilmente si può incorrere quanto più si restringe l’ambito della selezione… La delimitazione dell’ambito di applicazione dei criteri dei lavoratori da porre in mobilità è dunque consentita solo quando dipenda dalle ragioni produttive ed organizzative, che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, comma 3, quando cioè gli esposti motivi dell’esubero, le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito, conducono coerentemente a limitare la platea dei lavoratori oggetto della scelta. Per converso, non si può, invece, riconoscere, in tutti i casi, una necessaria corrispondenza tra il dato relativo alla “collocazione del personale” indicato dal datore nella comunicazione di cui all’art. 4 e la precostituzione dell’area di scelta. Il datore infatti segnala la collocazione del personale da espungere (reparto, settore produttivo…), ma ciò non comporta automaticamente che l’applicazione dei criteri di scelta coincida sempre con il medesimo ambito e che i lavoratori interessati siano sempre esclusi dal concorso con tutti gli altri, giacchè ogni delimitazione dell’area di scelta è soggetta alla verifica giudiziale sulla ricorrenza delle esigenze tecnico produttive ed organizzative che la giustificano…. ove il datore, nella comunicazione di cui all’art. 4, indicasse che tutto il personale in esubero è collocato all’interno di un unico reparto, essendo solo questo oggetto di soppressione o di ristrutturazione, non sarebbe giustificato limitare l’ambito di applicazione dei criteri di scelta a quegli stessi lavoratori nel caso in cui svolgessero mansioni assolutamente identiche a quelle ordinariamente svolte anche in altri reparti, salva la dimostrazione di ulteriori ragioni tecnico-produttive ed organizzative comportanti la limitazione della selezione. Ed ancora, quando la riduzione del personale fosse necessitata dall’esistenza di una crisi che induca alla riduzione, genericamente, dei costi, non vi sarebbe, quanto meno in via teorica, alcun motivo di limitare la scelta ad uno dei settori dell’impresa, e quindi la selezione andrebbe operatà in relazione al complesso aziendale. Con il che si può spiegare, nell’art. 5 citato, la duplicità – altrimenti scarsamente comprensibile – del richiamo alle “esigenze tecnico produttive ed organizzative”, perchè, nella prima parte, esse si riferiscono all’ambito di selezione, mentre, nella seconda parte, le medesime esigenze concorrono poi nel momento successivo, con gli altri criteri… alla individuazione del singolo lavoratore (salvo che non operino altri criteri concordati con i

sindacati)…. pertanto, va dato rilievo non alla categoria di inquadramento, ma al profilo professionale… ” (Cassa 19 maggio 2005, n. 10590, che ha ritenuto corretta la soluzione della Corte di appello di Roma di valorizzazione dell’accordo sindacale nella parte in cui aveva individuato l’ambito dei reparti interessati dall’eccedenza di personale, con accertamento in fatto dell’inesistenza di posizioni lavorative fungibili e conseguente esclusione della possibilità di comparazione anche con gli altri operai, siccome in possesso di una diversa professionalità).

11. Nella prospettiva così prefigurata, questa Corte ha affermato, con indirizzo interpretativo consolidato: a) la legittima delimitazione della platea, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva, ben potendo le esigenze tecnico-produttive ed organizzative costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purchè il datore indichi nella comunicazione prevista dall’art. 4, comma 3 citato sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti (Cass. 9 marzo 2015, n. 4678; Cass. 12 settembre 2018, n. 22178; Cass. 11 dicembre 2019, n. 32387); b) la funzione dell’accordo sindacale (che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentino, senza che occorra l’unanimità) di determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, nella regolamentazione delegata dalla legge (come evidenziato dalla sentenza Corte Cost. 22 giugno 1994, n. 268), dovendo rispettare non solo il principio di non discriminazione (L. n. 300 del 1970, art. 15), ma anche il principio di razionalità, sicchè i criteri concordati devono avere caratteri di obiettività e di generalità, oltre che di coerenza con il fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori (Cass. 20 marzo 2013, n. 6959; Cass. 5 febbraio 2018, n 2694); c) la legittima limitazione della platea dei lavoratori interessati, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore ò dell’azienda, agli addetti ad essi sulla base soltanto di oggettive esigenze aziendali, purchè siano dotati di professionalità specifiche, infungibili rispetto alle atre (Cass. 11 luglio 2013, n. 17177; Cass. 12 gennaio 2015, n. 203; Cass. 1 agosto 2017, n. 19105; Cass. 11 dicembre 2019, n. 32387).

Ebbene, nel caso di specie, la Corte capitolina, con argomentazione congrua, articolata e attenta ad ogni sviluppo della fase negoziale (così risultando la sua interpretazione insindacabile in sede di legittimità, per le ragioni più sopra illustrate in riferimento alla comunicazione di apertura), ha accertato la conclusione di un accordo della società datrice con le organizzazioni sindacali sulla “limitazione di applicazione dei criteri legali alle sole sedi da sopprimere di Roma e di Napoli, meglio specificandolo come legittima determinazione di criteri di scelta diversi da quelli stabiliti per legge, e, in particolare, il legittimo rilievo soltanto alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, senza considerare i criteri del carico di famiglia e dell’anzianità di servizio, così limitando la scelta ad un solo settore o ad una sola o più sedi e non con riferimento a tutti i dipendenti in servizio nell’azienda: in corrispondenza con quanto comunicato nella lettera di apertura (“Si precisa sin d’ora che i criteri di scelta saranno applicati comparando il personale operante con profilo equivalente all’interno di ciascuno dei siti produttivi interessati dagli esuberi (Roma e Napoli), in ragione della chiusura totale delle Divisioni 1 e 2 (per quanto riguarda Roma) e dell’intero sito (per quanto riguarda Napoli”).

E ciò in applicazione del principio, secondo cui il meccanismo previsto dalla L. n. 223 del 1991, artt. 5 e 24 (in base ai quali i criteri di selezione del personale da licenziare, ove non predeterminati secondo uno specifico ordine stabilito da accordi collettivi, devono essere osservati in concorso tra loro), se impone al datore di lavoro una loro valutazione globale, non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale: sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie (Cass. 19 maggio 2006, n. 11886).

Inoltre, la Corte d’appello ha ritenuto che tale accordo non sia discriminatorio, nè contrario a ragionevolezza (Cass. 20 marzo 2013, n. 6959).

Non appare poi corretto il riferimento, pure adombrato, ad una sorta di identificazione “fotografica” dei dipendenti prescelti, posto che essa si configura nell’ipotesi, qui non ricorrente, di una comunicazione datoriale contenente soltanto i nomi dei licenziandi e le relative qualifiche, un semplice cenno a precedenti incontri con le organizzazioni sindacali, solo marginalmente relativi ai motivi tecnici della necessaria riduzione, in violazione delle dettagliate prescrizioni, funzionali alla valutazione da parte sindacale dell’opportunità di chiedere l’esame congiunto della situazione e dei possibili rimedi (Cass. 30 ottobre 1997, n. 10716; Cass. 29 dicembre 2004, n. 24116).

Benchè la questione in esame potesse già ritenersi risolta, la Corte capitolina si è tuttavia onerata di rispondere alla doglianza di non ragionevolezza della limitazione della platea dei lavoratori da licenziare.

E ciò ha fatto, sempre con argomentazioni adeguate e coerenti con la fattispecie in esame e i principi di diritto regolanti la materia, sul ravvisato presupposto della distanza geografica (oltre cinquecento chilometri) di queste due unità produttive dagli altri siti aziendali (criterio ritenuto sufficiente da: Cass. 31 luglio 2012, n. 13705), combinato con quello della infungibilità delle mansioni.

Secondo l’insegnamento giurisprudenziale di legittimità sopra richiamato, qualora la ricorrenza delle effettive ragioni tecnico-produttive e organizzative sia stata giustificata (e comunicata), la delimitazione della platea è legittima, ove appunto non sia trascurato, nella scelta dei lavoratori impiegati nel sito soppresso o ridotto, “il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative” (così: Cass. 11 luglio 2013, n. 17177, in motivazione con ampi richiami di precedenti conformi; cui adde: Cass. 19 maggio 2005, n. 10590; Cass. 9 marzo 2015, n. 4678; Cass. 12 settembre 2018, n. 22178).

Nel caso di specie, l’infungibilità delle mansioni è stata individuata nella peculiarità di ogni sito produttivo, in ragione delle commesse trattate (in particolare: Trenitalia, Eni), ognuna esigente una diversa e specifica formazione: dovendo il personale inbound avere una conoscenza della committente, tale da porlo in grado di rispondere alle domande della clientela telefonica, specificamente calibrate sul servizio reso, nè consistendo l’attività di addetti al settore interno, appunto inbound, in una omogenea e neutrale ricezione di telefonate. E ciò per l’impossibilità di un loro agevole spostamento dall’uno all’altro sito (e quindi da una popolazione professionale all’altra), senza l’attuazione di interventi formativi, organizzativi e logistici incompatibili con la situazione economica dell’azienda, in quanto “insostenibile sul piano economico, produttivo e organizzativo, richiedendo tempi di attuazione e delle modifiche organizzative talmente complesse da compromettere il regolare svolgimento dei servizi… finendo per aggravare ulteriormente la situazione di squilibrio strutturale in cui versa l’azienda… “: per giunta, tra sedi aventi regimi di orario molto diversificati (dal tempo parziale da quattro a sei ore, al tempo pieno).

Occorre poi osservare come l’esigenza formativa di ogni lavoratore, se comporti, da una parte, un costo indubbio per l’azienda, induca, dall’altra, per il primo l’acquisizione di un bagaglio di conoscenze e di esperienze nuovo, che ne diversifica e incrementa la professionalità, così rendendolo idoneo a mansioni che non sono più omogenee alle precedenti svolte. Sicchè, l’equivalenza delle mansioni, tale da configurare un mero passaggio indifferenziato tra lavoratori su diverse commesse, neppure risponde a un dato di realtà.

In ogni caso, esso costituisce accertamento in fatto, che il giudice di merito, cui è riservato in via esclusiva, ha compiuto dandone adeguato conto, in esatta applicazione dei principi di diritto enunciati: pertanto, esso è insindacabile in sede di legittimità.

Infine, neppure calza il riferimento, sempre nel caso in cui sia mancato l’accordo con i sindacati sui criteri di scelta, all’irrilevanza dei costi aggiuntivi connessi al trasferimento del personale già assegnato alle sedi soppresse siccome argomento estraneo al tenore testuale della L. n. 223 del 1991, art. 5 (Cass. 11 luglio 2013, n. 17177; Cass. 11 dicembre 2019, n. 32387).

Nel caso di specie, non si tratta, infatti, di singoli e ben individuati trasferimenti personali, bensì di 1.666 lavoratori, e quindi di un trasferimento collettivo, il quale presuppone una procedura concordata in sede sindacale con formazione di graduatorie redatte in base a criteri predeterminati (Cass. 23 novembre 2010 n. 23675; Cass. 19 marzo 2014 n. 6325); ma le organizzazioni sindacali neppure si sono mostrate interessate alle misure organizzative (anche trasferimenti, se compatibili con le esigenze aziendali), per le quali la società aveva dichiarato la propria disponibilità (al punto V della comunicazione di apertura del 5 ottobre 2016), non raccolta dalle prime.

L’alternativa prospettata (anche se poi non concretamente praticata dai lavoratori neppure nella limitata forma proposta dall’impresa di disponibilità, comunicata con la lettera di recesso, di revocare, in via collaborativa per ridurre sia pure minimamente l’impatto sociale, fino a settantacinque licenziamenti nei confronti dei lavoratori richiedenti per iscritto di essere trasferiti presso i siti di Catania, di Rende o di Milano: risultati soltanto diciassette).è stata rappresentata, per l’entità della sua dimensione, fin dalla comunicazione di apertura della procedura, come insostenibile sul piano economico, produttivo e organizzativo, siccome esigente tempi di attuazione e modifiche organizzative talmente complesse da compromettere il regolare svolgimento dei servizi, con aggravamento ulteriormente della situazione di squilibrio strutturale dell’azienda.

Sicchè, di fronte ad una situazione, comunicata in modo esplicito ed esauriente alle organizzazioni sindacali e con le stesse negoziata, talmente grave da pregiudicare la stessa sostenibilità dell’attività d’impresa e quindi da comportarne la cessazione, qualora diversamente affrontata, risulta inammissibile (come anticipato all’esordio del ragionamento motivo) ogni censura intesa ad investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (nè tanto meno di ragioni per una diversa allocazione delle commesse nell’ambito della propria organizzazione territoriale), senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e di un’adozione discriminatoria dei lavoratori delle procedure: ciò davvero impingendo direttamente sulla libertà di iniziativa di impresa, garantita dall’art. 41 Cost..

12. Il ragionamento argomentativo svolto ha il suo coerente sviluppo finale nella conclusione di una corretta individuazione ed applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori.

Infatti, la limitazione alla sola platea dei lavoratori inbound delle due divisioni romane, per accordo sindacale e comunque per ragionevole misura in riferimento alla verificata infungibilità delle mansioni svolte dai predetti e con quelle del personale inbound delle altre sedi, ha comportato l’adozione (comunicata sia in sede di apertura che di chiusura della procedura di mobilità, a norma della L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 3 e 9: Cass. 28 ottobre 2009, n. 22825) di un criterio (puntualmente indicato anche nelle modalità applicative, oltre che nell’individuazione dei criteri di selezione del personale, anche nella specificazione del suo concreto modo di operare: Cass. 19 settembre 2016, n. 18306; Cass. 10 ottobre 2018, n. 25100), diverso da quelli legali operanti sull’intero complesso aziendale, consistente nelle esigenze tecnico-produttive e organizzative (legittimo, ancorchè difforme da quelli, perchè rispondente a requisiti di obiettività e razionalità: Cass. 20 febbraio 2013, n. 4186; Cass. 28 marzo 2018, n. 7710; Cass. 10 ottobre 2018, n. 25100). Ed esso ne assorbe ogni altro, posto che, per effetto della deliberata chiusura delle due divisioni romane, tutti i lavoratori addetti ad esse sono stati licenziati, ad eccezione di quarantaquattro lavoratrici madri, per il divieto posto dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54.

In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, che assorbono ogni doglianza anche con riferimento alla dedotta violazione della disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 81 del 2015, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 ricorrono le condizioni per dare atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, ove dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021

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