Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14656 del 26/05/2021

Cassazione civile sez. I, 26/05/2021, (ud. 24/02/2021, dep. 26/05/2021), n.14656

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 10550/2019 proposto da:

M.R., rappresentato e difeso dall’Avv. Raffaele Miraglia, come

da procura allegata telematicamente al ricorso per cassazione, con

domicilio in Roma, via Muzio Clementi,n. 51, presso lo studio

dell’Avv. Valerio Santagata;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;

– intimato –

avverso il decreto n. 986/2019 deL Tribunale di BOLOGNA, pubblicato

il 20 febbraio 2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/02/2021 dal consigliere Dott. Lunella Caradonna.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Con decreto del 20 febbraio 2019,il Tribunale di Bologna ha rigettato il ricorso proposto da M.R., cittadino del Bangladesh richiedente asilo, avverso il provvedimento negativo della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.

2. Il richiedente aveva dichiarato: di avere lasciato il proprio paese di origine per i problemi economici che lo affliggevano, in quanto, pur lavorando, i guadagni non gli consentivano di mantenere la famiglia e di curare il padre malato; di essere emigrato per la Libia, grazie a un prestito di 500.000 taka sul quale ogni mese doveva pagare gli interessi; di essere poi venuto in Italia in quanto in Libia il proprio datore di lavoro non lo pagava e, quando lui per questa ragione aveva smesso di lavorare, era andato a cercarlo e lo aveva colpito alla caviglia con un fucile; di temere, in caso di ritorno in patria, di essere incarcerato, picchiato e/o ucciso perchè non in grado di restituire i soldi avuti in prestito.

3. Il Tribunale ha ritenuto che M. non avesse compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; ha in particolare osservato: che non era credibile che in Bangladesh egli potesse correre il pericolo di finire in carcere a causa del debito contratto, atteso che fonti autorevoli, aggiornate al 2018, escludevano che nel Paese l’omessa restituzione del denaro preso in prestito costituiva reato; che dalle sue generiche dichiarazioni non emergevano circostanze dalle quali desumere la concretezza del riferito timore di essere percosso e ucciso; che doveva pure escludersi che il ricorrente, che aveva volontariamente preso in prestito una somma di denaro per pagare il trafficante che lo aveva aiutato a superare i confini nazionali, potesse essere ritenuto una vittima del fenomeno della tratta; che dunque non ricorrevano i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b); il giudice ha pure accertato, alla luce delle fonti internazionali consultate, che in Bangladesh non sussisteva una situazione di violenza generalizzata in situazioni di conflitto armato tale da giustificare la concessione della protezione sussidiaria ai sensi della lett. c) del D.Lgs. n. 251 del 2007; infine, quanto alla protezione umanitaria, ha affermato che M. non versava nella situazione di vulnerabilità prospettata, legata alle sue condizioni di salute, perchè uno dei certificati medici prodotti, risalente al 2017, dava conto di una caviglia dolorante, con assenza di alterazioni a carattere focale della morfostruttura ossea e, l’altro, rilasciato nel 2019, di una bronchite, curabile con i farmaci; che, inoltre, il ricorrente non aveva mai dichiarato di aver assistito in Libia ad un’esplosione che aveva provocato la morte di molte persone, nè aveva dedotto di soffrire per tale ragione dei disturbi psicologici, compatibili con uno stress post- traumatico, attestati nell’allegata relazione psicologica del 23 gennaio 2019; che l’attività lavorativa svolta per un periodo di soli due mesi nel 2018 non era tale da evidenziare il suo radicamento in Italia.

4. M.R. ricorre per la cassazione del decreto con atto affidato a sei motivi.

5. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, “violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 9, comma 2, e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3. Omesso esame e motivazione circa la natura forzata piuttosto che economica della migrazione”. Lamenta che il tribunale abbia respinto la domanda di asilo senza tener conto della natura forzata della sua migrazione, dovuta alla necessità di dover ripagare i debiti contratti per consentire la sopravvivenza alla propria famiglia, nonostante sia ben noto che il Bangladesh è afflitto dalla piaga dell’usura e che i cittadini bengalesi costretti a ricorrere a prestiti non hanno alternative, rispetto alla prospettiva di consegnarsi nelle mani degli usurai, che tentare di trovare lavoro in Europa, non essendo più possibile, dopo la caduta di Gheddafi, trovarlo in Libia.

2. Con il secondo e il terzo motivo il ricorrente, rispettivamente, deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 4 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3. Difetto di motivazione in ordine alla irrilevanza di quanto occorso e dell’attuale situazione del Pese di provenienza (nella specie la Libia), oltre che di origine, interessata da terrorismo e guerra civile, motivo della fuga del ricorrente, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria ovvero umanitaria” e “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. c) e comma 4 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e art. 27 e contraddittorietà della motivazione in relazione al riconoscimento della protezione umanitaria, con riferimento alla situazione in Libia. Violazione dell’obbligo di leale cooperazione”.

In entrambe le censure si sostiene che il tribunale avrebbe errato nel non tener conto delle sofferenze, anche di natura psicologica, patite da M. in Libia, confermate dal referto allegato, addebitandogli ingiustamente insufficienze e ritardi nella produzione della documentazione imputabili al centro di accoglienza ospitante.

3. Il quarto motivo lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, “Violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 3 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 14 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nonchè del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, motivazione illogica e travisamento dei fatti per la mancata concessione della protezione sussidiaria ovvero in subordine della protezione umanitaria con riferimento alla situazione nel Paese di origine (conseguenze della mancata restituzione del debito)”. Secondo il ricorrente, in caso di rientro in Bangladesh, la mancata restituzione del debito lo esporrebbe ad un grave pericolo, attesa la diffusa corruzione delle forze dell’ordine, della magistratura e dei funzionari pubblici del Paese.

4. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4 e comma 5, ed art. 4 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27, con riferimento al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, e comma 3 bis e agli art. 19, comma 1 e art. 5, comma 6, T. U. Immigrazione, in relazione all’art. 10, commi 1 e 3 e art. 117 Cost., comma 1, ed art. 3 CEDU relativamente al riconoscimento del diritto di asilo costituzionale in quanto soggetto vulnerabile”, assumendo che la motivazione del tribunale in ordine al rigetto della domanda di protezione umanitaria era inconciliabile con i principi costituzionali, i principi generali dell’ordinamento giuridico e con le norme suscettibili di applicazione nel caso in esame e che i giudici del merito avrebbero utilizzato standards valutativi soggettivi ed illogici nel ritenere irrilevante la sua condizione psicologica.

5. Con il sesto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. c) e comma 4 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e art. 27, contraddittorietà della motivazione in relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, con riferimento alla situazione in Libia”: il tribunale non avrebbe tenuto conto delle violenze da lui patite in Libia.

6. I motivi, da esaminare congiuntamente, perchè connessi, sono inammissibili per plurime ragioni.

6.1 I motivi sono, innanzi tutto, inammissibili perchè formulati mediante la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, non essendo consentita in sede di legittimità la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (Cass., 13 dicembre 2019, n. 32952; Cass., 4 ottobre 2019, n. 24901; Cass., 23 ottobre 2018, n. 26874).

6.2 I motivi sono pure inammissibili perchè le plurime violazioni di legge oggetto di doglianza sono limitate alla mera enunciazione dei referenti normativi e non sono accompagnate sul piano argomentativo dalla necessaria illustrazione delle ragioni per cui il provvedimento impugnato le avrebbe violate, stante che secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass., 21 agosto 2020, n. 17570; Cass., 5 agosto 2020, n. 16700; Cass., 29 novembre 2016, n. 24298; Cass., 26 giugno 2013, n. 16038).

6.3 I motivi sono pure inammissibili perchè il ricorrente con essi mira a sovvertire l’accertamento in fatto contenuto nel decreto impugnato attraverso censure generiche, che non si confrontano con le motivazioni sulle quali il tribunale ha fondato la decisione e che neppure indicano il fatto decisivo di cui il giudice non avrebbe tenuto conto che, se considerato, avrebbe condotto all’accoglimento delle domande.

6.4 Infine, i motivi non colgono la ratio decidendi in base alla quale il tribunale ha escluso di poter tener conto del certificato attestante il disturbo psicologico da stress da cui il ricorrente sarebbe affetto, costituita dal rilievo che la circostanza tardivamente documentata non era stata dedotta a fondamento della domanda.

7. Il ricorso va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Nulla deve disporsi sulle spese poichè l’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021

 

 

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