Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14653 del 18/07/2016


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Cassazione civile sez. III, 18/07/2016, (ud. 15/04/2016, dep. 18/07/2016), n.14653

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11319/2012 proposto da:

L.A., ((OMISSIS)), quale erede di D.C.S.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA CAMILLUCCIA N. 19,

presso lo studio dell’avvocato GEA CARLONI, rappresentata e difesa

dall’avvocato GIUSEPPE MELAZZO giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

L.R.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 499/2011 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 21/11/2011, R.G.N. 1000/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/04/2016 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito l’Avvocato GIUSEPPE MELAZZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. – Con atto di citazione del settembre 2001, D.C.S. evocò in giudizio L.R.G., al quale essa attrice aveva locato, per uso diverso dall’abitativo, un immobile di sua proprietà, sito in (OMISSIS), per la durata di sei anni, a partire dall’1 gennaio 1996 fino al 31 dicembre 2001. La proprietaria ottenne, all’esito della fase sommaria del procedimento di intimazione di sfratto per morosità, ordinanza di rilascio del bene locato.

Oltre a confermare la suddetta ordinanza, il Tribunale di Messina, con sentenza del febbraio 2006, dichiarò la risoluzione del contratto di locazione per il grave inadempimento del conduttore, condannandolo al pagamento dei canoni non corrisposti (pari ad Euro 24.945,00, oltre accessori) e alle spese di lite.

2. – L.R.G. proponeva appello sostenendo che la sentenza impugnata non aveva considerato che il presunto accordo simulatorio, concluso tra le parti in data 2 gennaio 1996, cioè il giorno successivo alla stipula del contratto di locazione, con il quale era fissato un canone di maggiore entità rispetto a quello stabilito nel contratto stesso, non avesse in realtà mai prodotto effetti, perchè le parti vi avevano sostanzialmente rinunciato.

Nel contraddittorio con L.A. (che nel corso del processo succedeva alla defunta D.C.S.), la Corte di appello di Messina, con sentenza resa pubblica il 21 novembre 2011, accoglieva il gravame e, in totale riforma della sentenza di primo grado, rigettava, “perchè infondate, le domande avanzate da parte attrice in primo grado”, con integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.

2.1. – La Corte territoriale – escluso che la pattuizione del maggior canone fosse affetta da nullità della L. n. 392 del 1978, ex art. 79, dovendosi comunque attribuire effettività all’accordo simulatorio intercorso tra le parti – riteneva sussistente una remissione del debito attraverso comportamenti concludenti del creditore, espressivi di una volontà abdicativa.

A tal riguardo, il giudice di appello osservava che, in base alle quietanze rilasciate dalla locatrice si evinceva in ragione del richiamo operato dalle stesse al contratto del 1 gennaio 1996 e non alla scrittura del giorno successivo che il canone per il mese di riferimento doveva ritenersi saldato con il pagamento dell’importo di Lire 900.000.

Inoltre, soggiungeva la Corte territoriale, pur volendo sostenere la non decisività della prova fornita dalle quietanze, non sarebbe stato possibile spiegare perchè la locatrice “per innumerevoli occasioni”, per oltre sei anni, avesse “ricevuta ed accettata la minor somma senza nulla obiettare”, là dove le asserite “ripetute richieste informali” da parte della D.C. erano rimaste sfornite di riscontro probatorio, salvo una richiesta limitata al solo aggiornamento Istat, senza alcun riferimento al maggior canone.

Il giudice di secondo grado riteneva, quindi, che vi fosse stato un effettivo e concreto abbandono di quella pretesa creditoria, tenuto conto anche della circostanza che la D.C., anzichè contestare al conduttore la morosità, proponeva azione di rilascio dell’immobile per finita locazione.

3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre L.A. in base a tre motivi.

Non ha svolto attività difensiva in questa sede l’intimato L.R.G..

CONSIDERATO IN DIRITTO 1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1236 c.c., nonchè dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di motivazione, “nella parte in cui la Corte d’Appello ha ritenuto che il credito vantato a titolo di maggior canone sia stato rimesso e/o rinunziato dalla locatrice”.

La Corte d’appello, nell’attribuire alla scrittura privata del 2 gennaio 1996 validità ed efficacia ex ante, ma inefficacia in concreto ex post, si sarebbe adagiata sul contenuto letterale delle quietanze di pagamento, erroneamente attribuendo ad esse significato di remissione del debito, anche in violazione dell’art. 1236 c.c..

Inoltre, il giudice di secondo grado, proprio nel dare rilievo soltanto alla formale richiesta, in data 26 ottobre 1999, di adempimento in relazione all’aggiornamento Istat del canone, non avrebbe tenuto adeguatamente conto che detto aggiornamento era previsto soltanto nella scrittura integrativa del 2 gennaio 1996 e, quindi, la richiesta anzidetta doveva intendersi comprensiva anche del pagamento del maggior canone, ciò che, invece, la Corte siciliana avrebbe contraddittoriamente escluso in contrasto con le risultanze documentali.

Il giudice del gravame non avrebbe, poi, considerato le precarie condizioni di salute dell’anziana locatrice, ascrivendo alla sua inerzia, in modo semplicistico, il valore di comportamento concludente espressivo della volontà di rimettere il debito, mancando altresì di dare rilievo alle ripetute richieste di adempimento in via informale, da presumersi in base ai rapporti di cortesia tra il conduttore e la locatrice, da cui anche le concesse dilazioni di pagamento.

1.1. – Il motivo non può trovare accoglimento.

E’ principio consolidato (tra le altre, Cass., 6 gennaio 1982, n. 4; Cass., 18 maggio 2006, n. 11749; Cass., 7 maggio 2007, n. 10293) quello per cui la remissione del debito non richiede una forma solenne, in difetto di un’espressa previsione normativa, e può quindi essere desunta anche da una manifestazione tacita di volontà o da un comportamento concludente, purchè siano tali da manifestare in modo univoco la volontà abdicativa del creditore, in quanto risultino da circostanze logicamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito e la cui valutazione, concretandosi in un giudizio di fatto, sfugge al sindacato di legittimità se sorretta da motivazione esente da vizi di logica e da errori di diritto.

La Corte di appello, con la statuizione impugnata (cfr. sintesi al par. 2.1. del “Ritenuto in fatto” che precede e cui si rinvia) si è, quindi, mossa nell’alveo dell’anzidetto principio di diritto, assumendo l’esistenza di una remissione del debito in forza di una serie complessiva di circostanze di fatto, ritenute plausibilmente esprimenti la volontà abdicativa del creditore, non solo relative alle quietanze di pagamento, ma anche al notevole lasso temporale, di oltre sei anni, di acquiescenza alla corresponsione del minor importo (Euro 900 invece che 1600), alla richiesta formale solo dell’adeguamento del canone (e non dello stesso canone) e all’azione giudiziale di sfratto per finita locazione e non per morosità.

A fronte di siffatta ricostruzicne ed apprezzamento, operati sulla scorta delle risultanze istruttorie, la ricorrente, lungi dall’evidenziare profili di insufficienza e/o di illogicità intrinseci al ragionamento decisorio, propone la propria lettura delle risultanze processuali, così da surrogarsi in modo inammissibile ai poteri esclusivamente riservati al giudice del merito, peraltro contravvenendo palesemente anche ai principi di specificità e di cd. localizzazione, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, mancando di puntualizzare, anche per sintesi, i contenuti degli atti e dei documenti indicati a sostegno delle doglianze e di precisare il quando ed il quomodo del loro riversamento processuale e la sede di attuale collocazione, così da non consentire a questa Corte di verificarne la corrispondenza al dedotto e la decisività.

2. – Con il secondo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 e segg., art. 1587 c.c., comma 1, n. 2 e della L. n. 392 del 1978, art. 5, nonchè dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di motivazione, “nella parte in cui la Corte d’Appello ha rigettato le domande avanzate da parte attrice in primo grado, perchè infondate, inclusa la preliminare domanda di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore”.

La Corte di appello avrebbe rigettato tutte le domande proposte dall’originaria attrice in primo grado e, dunque, anche quella di “risoluzione per inadempimento del sig. L.R. conseguente alla morosità derivante dal mancato pagamento dell’adeguamento Istat” – avanzata in fase di “prosecuzione del giudizio di merito… anche nella memoria conclusiva del 05.02.2004” – con ciò contraddicendo palesemente sia la statuizione sulla validità della scrittura privata del 2 gennaio 1996, che conteneva la clausola di adeguamento del canone agli indici Istat, sia il convincimento sulla remissione del debito, che derivava proprio dalla richiesta di pagamento del predetto adeguamento.

2.1. – Il motivo è inammissibile, prima ancora che infondato.

Le censure, infatti, scno veicolate in violazione palese dei principi di specificità e di cd. localizzazione, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non solo quanto agli atti processuali ed ai documenti che vengono evocati (soltanto per una parte riportati nei contenuti, ma senza alcuna puntuale localizzazione), ma, in particolar modo, in punto di indicazione delle domande proposte tempestivamente nella fase di merito, posto che in ricorso si insiste essenzialmente (e se ne trascrive il contenuto) su quanto richiesto dall’attrice con la memoria “conclusiva” del 5 febbraio 2004 (e, dunque, con atto che non potrebbe introdurre domande nuove), là dove, in ogni caso, nel ricorso sono indicate date tra loro non coincidenti e neppure congruenti rispetto alla complessiva descrizione del procedimento (in particolare, quanto alla ordinanza di rilascio, che nelle conclusioni di cui alla memoria anzidetta è del “12-14.06.2002” e nella narrativa del ricorso e del “06.12.2002), con ciò viepiù facendo risaltare la violazione processuale anzidetta.

Peraltro, anche le conclusioni ivi riportate non sarebbero sufficienti a delineare la portata della domanda di risoluzione, perchè si fa riferimento ai termini indicati “sub 6” e anche di tale richiamo non viene poi data alcuna contezza.

Ciò senza considerare, infine, la coerenza della decisione impugnata (che, pertanto, sfugge comunque alle critiche ad essa mosse), giacchè la domanda, nei termini riportati in ricorso, attiene alla risoluzione per morosità del contratto dell’i gennaio 1996, rivalutato secondo gli indici Istat e la Corte territoriale ha dato atto che vi era stata remissione del debito in ragione dell’accettazione del canone di Euro 900 di cui al contratto del 10 gennaio 1996: dunque, non si era determinata alcuna norosità in tal senso, posto che lo stesso giudice di appello riconosce (p. 6 della sentenza impugnata) – come del resto la medesima ricorrente (p. 8 del ricorso) – che il contratto del 2 gennaio 1996 non prevedeva alcun adeguamento del canone, che invece era pattuizione contenuta nella scrittura del 2 gennaio 1996.

3. – Con il terzo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè dedotto vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La Corte territoriale avrebbe compensato per intero le spese del doppio grado di giudizio in ragione dell’erroneo accoglimento dell’appello.

3.1. – Il motivo è inammissibile, giacchè, per come proposto, il suo esame nel fondo sarebbe stato consentito soltanto in caso di accoglimento di quelli che lo precedono, che, invece, non ha avuto luogo.

6. – Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Nulla è da disporsi in punto di regolamentazione di dette spese nei confronti della parte intimata che non ha svolto attività difensiva in questa sede.

PQM

LA CORTE rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2016

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