Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14645 del 26/05/2021

Cassazione civile sez. I, 26/05/2021, (ud. 16/12/2020, dep. 26/05/2021), n.14645

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 7763/2019 proposto da:

E.C., rappresentato e difeso dall’Avv. Alessandra

Ballerini, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. Emiliano

Benzi, sito in Roma, Viale dell’Università, n. 11, come da procura

a margine del ricorso per cassazione;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di GENOVA n. 227/2019, pubblicato il

23 gennaio 2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/12/2020 dal consigliere Dott. Lunella Caradonna.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Con decreto del 23 gennaio 2019, il Tribunale di Genova ha rigettato il ricorso proposto da E.C., cittadino nato in Nigeria, avverso il provvedimento negativo della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.

2. Il richiedente aveva dichiarato di avere lasciato il paese di origine il 4 marzo 2014, giungendo in Italia un anno dopo, per paura di essere ucciso essendo stato ingiustamente accusato di avere tentato di violentare la moglie dello zio; che era stato condannato a morte dal capo degli anziani della comunità, ma il giorno prima dell’esecuzione la donna che lo aveva ingiustamente accusato si era pentita e lo aveva liberato, consegnandoli 120.000 naira per farlo scappare.

3. Il Tribunale ha ritenuto che i fatti esposti, anche ove corrispondenti al vero, non integravano una persecuzione personale dovuti a motivi di discriminazione, poichè il ricorrente stesso aveva prospettato timori legati alla condanna inflitta dal capo villaggio; che in ogni caso il racconto non era credibile con specifico riferimento alle ragioni della fuga ed era poco circostanziato e non riscontrato documentalmente, oltre che contraddittorio con riferimento alle ragioni per cui era stato falsamente accusato dalla moglie dello zio e al fatto che non era stato creduto; che non sussistevano nemmeno i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria tenuto conto della zona di provenienza del richiedente ((OMISSIS)); che non sussistevano le condizioni di vulnerabilità1stante l’inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente che escludeva la credibilità dei motivi del suo allontanamento e che era stato raggiunto un livello di integrazione molto modesto tenuto conto della relazione del Cas di riferimento che segnalava difficoltà di adattamento e di orientamento.

4. E.C. ricorre per la cassazione del decreto con atto affidato a due motivi.

5. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. In via preliminare, sull’affermata applicabilità al presente ricorso della previgente formulazione degli artt. 5 e 6 T.U. Immigrazione, oggetto di riforma con il D.L. n. 113 del 20018, dedotta a pag. 23 del ricorso per cassazione, giova ricordare che secondo la recente sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte del 13 novembre 2019, n. 29460, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile, con il conseguente corollario che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito dalla L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge.

Tali domande saranno, pertanto, vagliate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito dalla L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9 suddetto D.L..

2. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2 Cost. e dell’art. 11 del Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 (ratificato con la L. n. 881/1977), in relazione, in particolare, all’art. 5, comma 6 T.U. immigrazione; la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32; la violazione dell’art. 19 T.U. immigrazione.

3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 CEDU in particolare in relazione all’art. 6 T. U. immigrazione e la violazione e falsa applicazione dell’art. 19 T.U. Immigrazione.

Il ricorrente, in particolare, censura il mancato riconoscimento della protezione umanitaria, assumendo che il Tribunale non avrebbe correttamente inquadrato l’istituto, il quale, secondo la lettura offerta dalla giurisprudenza di legittimità, concerner un catalogo aperto di situazioni soggettive (come i motivi di salute, di età, familiari), oppure oggettive, relative al Paese di provenienza, come grave instabilità politica ed economica, violenza, insufficiente rispetto dei diritti umani, carestie, disastri naturali, povertà estrema.

Il ricorrente, inoltre, si duole del fatto che il Tribunale avrebbe omesso di considerare la situazione di oggettiva vulnerabilità dovuta all’attuale realtà politica, economica e sociale del suo Paese di origine.

3.1 Le esposte doglianze, da esaminarsi congiuntamente in quanto strettamente correlate, sono infondate.

3.2 E’ utile, invero, premettere che, come ribadito anche di recente da questa Corte, la protezione umanitaria è una misura atipica e residuale, nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass., 5 aprile 2019, n. 9651). A tal fine, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio e non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, dovendo il riconoscimento di tale diritto allo straniero fondarsi su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Cass. 15 maggio 2019, n. 13079).

Con specifico riferimento, poi, al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455). Ed infatti, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Così facendo, infatti, si prenderebbe altrimenti in considerazione, piuttosto che la situazione particolare del singolo soggetto, quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali e astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass., 3 aprile 2019, n. 9304; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

3.3 Nel caso concreto, il Tribunale, premessa la ritenuta non credibilità del racconto del richiedente (e sul punto la decisione non è stata specificamente ed efficacemente impugnata secondo quanto, in proposito, precisato da Cass., 5 febbraio 2019, n. 3340), ha escluso l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento, oltre che della protezione internazionale e sussidiaria, anche della invocata protezione umanitaria, considerando che era stato raggiunto un livello di integrazione molto modesto tenuto conto della relazione del Cas di riferimento che aveva segnalato difficoltà di adattamento e di orientamento.

3.4 Il ricorrente insiste, nel motivo di ricorso in esame, sulla specifica situazione del Paese di provenienza, descritto come in condizioni di grave ed oggettiva difficoltà economica, dove il 60% delle persone vive al di sotto della soglia di povertà, sicchè un suo rimpatrio ivi gli pregiudicherebbe la possibilità di esercitare i diritti fondamentali.

Egli, tuttavia, non ha dedotto alcunchè quanto alla specifica lesione della sfera dei propri diritti personalissimi, limitandosi ad affermazioni del tutto generiche e ad un richiamo, altrettanto laconico, al rischio di subire nuove violenze (profilo, quest’ultimo, rispetto al quale risulterebbe comunque insuperabile l’accertamento del giudice di merito, il quale ha motivatamente escluso la credibilità della narrazione del richiedente circa le asserite ragioni di pericolo da lui denunciate).

Sul punto, peraltro, il Tribunale ha evidenziato, alla stregua delle acquisite informazioni (pagg. 5 e 6), l’assenza di criticità nel Paese di provenienza del richiedente situato nel lontano Sud della Nigeria ((OMISSIS)) ed ha escluso sue situazioni di vulnerabilità soggettiva derivante da grave violazione dei diritti umani subita nel Paese di provenienza, in conformità del disposto degli artt. 2, 3 e 4 CEDU (cfr. Cass., 5 aprile 2019, n. 9651).

3.5 Il ricorrente, inoltre, assume che, nella valutazione delle condizioni di vulnerabilità, non potrebbe mancare anche un’attenta considerazione delle sofferenze e dei traumi da lui patiti in Libia, Paese in cui era transitato prima di giungere in Italia.

In proposito, va evidenziato che l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide, potendo il paese di transito rilevare, ai sensi dell’art. 3 della Direttiva UE n. 115/2008, solo nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass., 6 dicembre 2018, n. 31676).

3.6 E’ infondata anche la censura che richiama il principio di non refoulement previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 oltre che dalla direttiva 2008/115/CE.

Al riguardo va precisato che l’istituto del divieto di espulsione o di respingimento previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, in cui si declina il più generale principio di non refoulement, resta in ogni caso inserito nel diverso contesto dell’opposizione alla misura espulsiva, che impone al richiedente di prospettare il concreto pericolo di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rimpatrio nel paese di origine, mentre la disciplina della protezione internazionale introduce una misura umanitaria, che conferisce al beneficiario il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, qualora tale condizione venga positivamente accertata dal giudice (Cass., 8 aprile 2019, n. 9762; Cass., 17 febbraio 2011 n. 3898).

4. Il ricorso va, conclusivamente, rigettato.

Nulla deve disporsi sulle spese poichè l’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021

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