Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14640 del 18/07/2016


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Cassazione civile sez. lav., 18/07/2016, (ud. 04/05/2016, dep. 18/07/2016), n.14640

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18856/2014 proposto da:

S.A., C.F. (OMISSIS), S.V. C.F. (OMISSIS),

nella qualità di eredi di SI.VI., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA COSSERIA 2, presso lo studio dell’avvocato

PLACIDI ALFREDO, rappresentati e difesi dall’avvocato GIOVANNI

SALVIA, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA n. 29 presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

avvocati ELISABETTA LANZETTA, CHERUBINA CIRIELLO, GIUSEPPINA

GIANNICO, FRANCESCA FERRAZZOLI e SEBASTIANO CARUSO, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 76/2014 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 27/02/2014, R.G. N. 870/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/05/2016 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato SEBASTIANO CARUSO per delega orale ELISABETTA

LANZETTA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’Appello di Potenza, con la sentenza n. 76 del 2014, accoglieva l’impugnazione proposta dall’INPS nei confronti di S.A. e S.V., nella qualità di eredi di Si.Vi., avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Potenza, n. 828 dell’8 maggio 2013.

2. Si.Vi., dipendente INPS, addetto all’Ufficio pensioni, assegni familiari lavoratrici domestiche e indennità di disoccupazione a favore dei lavoratori parasubordinati, aveva adito il Tribunale impugnando il licenziamento disciplinare irrogatogli il 12 agosto 2011, a seguito della contestazione di gravi irregolarità ricevuta il 24 marzo 2011, per la violazione degli obblighi previsti dagli artt. 1, comma 1, 2, commi 1 e 2, del Codice di comportamento dell’INPS, nonchè dei doveri di lealtà ed esclusività.

3. Il Tribunale accoglieva la domanda, dopo avere disatteso la deduzione di tardività della contestazione, affermando che attenendo la contestazione ad attività extralavorativa non era stata provata l’interruzione del rapporto fiduciario.

4. La Corte d’Appello, nel riformare la sentenza di primo grado, ha ritenuto che la condotta in questione costituiva giusta causa di licenziamento.

5. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorrono S.A. e S.V., prospettando due motivi di ricorso.

6. Resiste l’INPS con controricorso.

7. Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza pubblica.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La Corte d’Appello premette che a Si.Vi., funzionario INPS livello C3, con lettera del 21 aprile 2011 n. 16418, ricevuta il maggio 2011, venivano contestate diverse “irregolarità comportamentali” emerse nel corso dei vari accessi ispettivi iniziati il 22 marzo 2011 e trasfusi nell’allegato verbale di accertamento n. (OMISSIS).

1.1. La Corte d’Appello ricorda che, con la suddetta lettera, si contestava a Si.Vi. di aver denunciato all’INPS alcune particelle di terreno come coltivate, mentre quelle stesse particelle erano state inserite, prima dalla madre L.A., e poi da esso medesimo, in un piano di aiuti comunitari che prevedeva il ritiro di tali terreni dalla produzione agricola con successivo impianto di colture arboree da legno, e per tale impegno, prima la madre e, poi, in particolare dal 2001, il S. stesso, percepiva gli aiuti economici erogati dall’ALSIA e poi dall’ARBEA, per un valore di Euro 11.139,00 all’anno.

Gli ispettori avevano accertato che nel 2001 il Corpo Forestale dello Stato, a seguito di verifica, aveva confermato a cd. set-aside che detti terreni erano impiegati ad arbicoltura da legno, mentre all’INPS, come detto, venivano denunciate le colture di grano, vite, olivo e bosco.

Veniva ancora contestato al S. che egli aveva denunciato come posseduto al 100%, dal 16 ottobre 2009, un terreno coltivato ad arancio, terreno denunciato contemporaneamente dal figlio A. all’ARBEA per ottenere i contributi comunitari, di avere denunciato altre particelle site in (OMISSIS) quali colture di fico ed, invece, le stesse risultavano essere fabbricati rurali, mentre altra particella sita in (OMISSIS), dichiarata coltivata tutta a grano, dall’aereofotogrammetria eseguita dall’ARBEA, risultava inequivocabilmente di natura non coltivabile (calanchi e macchia mediterranea).

Il S., inoltre, denunciava, al fine dl giustificare l’assunzione di manodopera dipendente, il possesso e la coltivazione di oltre dieci ettari di terreno siti in (OMISSIS), appartenenti effettivamente alla sorella S.P., che confermava di essere la sola proprietaria ed utilizzatrice.

Si contestava, inoltre, che per il 2010 il ricorrente aveva denunciato con modulo DMAG l’impiego di nove dipendenti, compresi i figli A. e V., per 1.383 giornate, con retribuzioni dichiarate corrisposte pari a Euro 111.640,00, e ciò a fronte di un fabbisogno di giornate di lavoro stimato congruo in numero non superiore a 60 giornate nell’anno, e che lo stesso S., sentito dagli ispettori, aveva dichiarato di non aver redatto buste paga, di non avere pagato i lavoratori, utilizzandoli soprattutto in attività di guardiania.

L’INPS, quindi, preso atto delle condotte descritte, come contestate, ritenuta l’inesistenza dell’azienda agricola come datrice di lavoro agricolo, evidenziava come detti comportamenti fossero in contrasto con le previsioni dell’art. 1, comma 1 e art. 2, commi 1 e 2, del Codice di comportamento dei dipendenti delle Pubbliche amministrazioni allegato al Regolamento di disciplina ed, in particolare, dei doveri di lealtà ed esclusività, inquadrandosi la condotta del lavoratore nell’ipotesi tipizzate dal suddetto regolamento.

1.2. Tanto premesso, la Corte d’Appello riteneva, quindi, che le condotte ascritte al lavoratore fossero state adeguatamente provate a seguito delle varie visite ispettive poste in essere dagli ispettori verbalizzanti, le cui conclusioni erano trasfuse nel verbale di accertamento allegato alla lettera di contestazione, tenuto anche conto delle dichiarazioni spontanee rese dal S., il quale nell’ottobre 2010, nella sede INPS di Potenza, affermava di non aver rilasciato buste paga, nè di avere mai pagato i lavoratori, consegnando loro i prodotti della terra per un valore di 60,00 Euro al giorno, e di non aver mai dato la differenza in danaro pari ad Euro 20,00, rispetto alla paga giornaliera stabilita in Euro 80,00 al giorno.

Dalla relazione riservata, inviata dagli ispettori verbalizzanti C.S. e R.G. alle sedi, rispettivamente, provinciale e regionale INPS si leggeva, così come in parte riportato nell’articolato provvedimento di recesso n. 213 del 12 agosto 2011, che nell’accesso ispettivo condotto il 3 ottobre 2010 alla presenza del lavoratore, nell’azienda agricola in agro (OMISSIS), gli stessi ispettori constatavano la presenza di un modesto fabbricato rurale, di un casolare diroccato e sporco, di una piccola struttura adibita a ricovero dei maiali e 20 volatili; era presente un pò di terra coltivata ed ortaggi semi-abbandonati e a fine ciclo produttivo ed una piccola serra con pomodori a fine ciclo produttivo, la maggior parte del terreno presentava una conformazione non regolare, frastagliato in più punti, con giacitura collinare ed in forte pendenza e non venivano notate colture di rilievo economico ed in stato produttivo.

Gli altri terreni visionati si presentavano scoscesi e coperti da colture arboree non da frutto. Le due persone ( R.R. e T.A.) trovate sul fondo, mentre il S. riferiva agli ispettori di essere addette alla guardiania, riferivano, senza voler sottoscrivere le dichiarazioni, di aver lavorato per la raccolta di pomodori cura animali e pulizia stalle.

1.3. La Corte d’Appello escludeva che potesse essere posta a fondamento del licenziamento, in quanto estranea alla lettera di contestazione, la circostanza del mancato rispetto dei principi di incompatibilità tra la qualifica di imprenditore agricolo professionale, qualora il S. l’avesse potuta ricoprire, e il rapporto di lavoro pubblico che lo legava all’INPS. 2. Tanto premesso può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.

2.1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2697, 2097 e 2700 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 420 c.p.c., comma 5 e della L. n. 604 del 1966, art. 5. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

2.2. La doglianza attrice si incentra sulla statuizione relativa alla contestazione relativa alla costituzione di rapporti di lavoro fittizi con i braccianti agricoli impegnati nell’azienda agricola del S., che è censurata per avere ritenuto il giudice di secondo grado che “detta condotta risulta essere adeguatamente provata a seguito delle varie visite ispettive poste in essere dagli ispettori verbalizzanti le cui conclusioni sono trasfuse nel verbale di accertamento allegato alla lettera di contestazione”, nonchè “dalla relazione riservata inviata dagli ispettori alle sedi INPS di Potenza provinciale e regionale”; nè potevano assumere rilievo le dichiarazioni rese da terzi ( R.R. e T.A.). La Corte d’Appello, inoltre, non si era pronunciata sull’ammissibilità e rilevanza della prova chiesta dalla parte ricorrente.

2.3. Il motivo è in parte non fondato ed in parte inammissibile, e deve essere rigettato.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che l’onere della prova del atto contestato al lavoratore, che spetta al datore di lavoro, deve riguardare la sussistenza di una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e in particolare di quello fiduciario (Cass., n. 11206 del 2015). Tuttavia non è necessario che la prova sia acquisita ad iniziativa o per il tramite del datore di lavoro, potendo il giudice porre a fondamento della decisione gli elementi di prova comunque ritualmente acquisiti al processo, anche ad iniziativa di altre parti oppure d’ufficio (Cass., n. 19189 del 2013).

Con riguardo ai verbali ispettivi la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il verbale di accertamento dell’infrazione fa piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento (Cass., n. 23800 del 2014).

2.4. Nella specie, la Corte d’Appello ha fatto corretta e adeguata applicazione dei principi sopra richiamati, atteso che ha, correttamente, posto alla base della propria statuizione i fatti constatati dagli ispettori nelle varie visite ispettive e, in particolare, nell’accesso ispettivo svolto il 3 ottobre 2010 alla presenza del medesimo S. (stato dei luoghi), rilevando che, come affermato dagli ispettori, la realtà aziendale palesava che non vi era stata una produzione agricola.

Quanto alla censura relativa alla mancata statuizione sull’ammissione dei mezzi di prova, la stessa è inammissibile atteso che, da un lato, in relazione alle coltivazioni che sarebbero state effettuate è del tutto generica; dall’altro, con riguardo alla prestazione dell’attività lavorativa, non appare decisiva, atteso che la Corte d’Appello statuiva sulla irrilevanza delle dichiarazioni rilasciate dai lavoratori allegate alla produzione di parte appellata, in quanto non idonee a contrastare gli accertamenti degli ispettori INPS. 3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del regolamento di disciplina di cui al CCNL 2005-2006 dei dipendenti INPS. Assumono i ricorrenti che la Corte d’Appello avrebbe omesso di vagliare la sussistenza della giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c., come avrebbe, invece, dovuto fare, anche in presenza di una disciplina collettiva che preveda la sanzione espulsiva in relazione ad un determinato comportamento, dovendosi verificare se detta previsione fosse conforme alla previsione del citato art. 2119 c.c. e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato fosse di entità tale da legittimare il recesso, tenendo conto dell’elemento intenzionale che aveva sorretto la condotta del lavoratore.

3.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

Occorre considerare che la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.

Ciò, anche se la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso (Cass., n. 16095 del 2013).

Quale comportamento che, per la sua gravità, è suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro, può assumere rilevanza disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (Cass., n. 1978 del 2016, n. 15654 del 2012).

3.2. Il regolamento di disciplina dell’INPS all’art. 1, comma 1, stabilisce che “Il dipendente conforma la propria condotta al dovere di contribuire alla gestione della cosa pubblica con impegno e responsabilità, nel rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa, anteponendo l’osservanza della legge e l’interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui”.

3.3. La Corte d’Appello ha rilevato che la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso veniva applicata, ai sensi del Regolamento di disciplina per violazioni dei doveri di comportamento, anche nei confronti di terzi, di gravità tale da compromettere irreparabilmente il rapporto di fiducia con l’amministrazione e da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro. Nella specie, sussisteva la fattispecie della commissione in genere – anche nei confronti di terzi – di fatti o atti dolosi, che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.

Il giudice di secondo grado ha, quindi, verificato la sussistenza delle condizioni della giusta causa di licenziamento, rilevando che la condotta ascritta al lavoratore era di portata tale, in termini di gravità, da far venire meno il rapporto fiduciario, e quindi la sanzione espulsiva adottata dall’INPS risultava essere adeguata e proporzionata, ponendosi in luce che in relazione alle condotte del Sivollela, sia pure extralavorative, non poteva aprioristicamente escludersi che le stesse fossero state in qualche modo agevolate proprio dalle sue specifiche competenze lavorative e dal ruolo svolto alla sede regionale INPS dal lavoratore, inquadrato nella categoria C3 e, quindi, con specifiche competenze e responsabilità organizzative e di gestione.

4. Il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro cento per esborsi, Euro tremilacinquecento per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2016

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