Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14621 del 18/07/2016


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Cassazione civile sez. lav., 18/07/2016, (ud. 17/03/2016, dep. 18/07/2016), n.14621

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20251-2013 proposto da:

D.L., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliata in ROMA, P.LE CLODIO 56, presso lo studio dell’avvocato

FABRIZIO CASELLA, rappresentata e difesa. dall’avvocato ANGELO

PAGLIARELLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS);

– intimata –

nonchè da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliata in ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio

dell’avvocato FRANCO RAIMONDO BOCCIA, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ADRIANA CALABRESE, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

D.L., C.F. (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 1983/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 04/12/2012 R.G.N. 2864/11;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/03/2016 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRTNO;

udito l’Avvocato GAETANO GIANNI’ per delega verbale Avvocato

CALABRESE ADRIANA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Si controverte del licenziamento per giusta causa intimato il 5/8/2009 dalla società Poste Italiane s.p.a. a D. L. per aver interrotto in data 29/1/2009 il programma riabilitativo intrapreso in comunità per il recupero di tossicodipendenti, per il cui espletamento le era stato concesso un periodo di aspettativa dal 13/10/08 al 13/10/09, abbandonando volontariamente la struttura ove era stata inserita, senza riprendere il lavoro.

Con sentenza del 4/12/2012 – 4/3/2013 la Corte d’appello di Milano ha accolto parzialmente l’impugnazione della D. nel senso che, dopo aver escluso l’irritualità della contestazione disciplinare del 7/7/2009, ha riqualificato il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, riconoscendo, di conseguenza, il diritto dell’appellante all’indennità sostitutiva del preavviso prevista dall’art. 79 del CCNL delle Poste.

Per la cassazione della sentenza ricorre la D. con quattro motivi.

Resiste con controricorso la società Poste Italiane s.p.a. che propone, a sua volta, ricorso incidentale affidato ad un solo motivo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo del ricorso principale la difesa della D. denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e degli artt. 1334 e 1335 cod. civ., dolendosi del fatto che la consegna della lettera di addebito disciplinare ad una terza persona, che si supponeva essere delegata al ritiro della corrispondenza, era inidonea a fondare la presunzione legale della sua conoscenza, atteso che in quel periodo essa ricorrente era ospitata presso una comunità di recupero per tossicodipendenti e, quindi, senza sua colpa non aveva avuto la possibilità di averne conoscenza.

Il motivo è infondato.

Invero, l’art. 1335 cod. civ. stabilisce che la proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta ad una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia.

Tale presunzione è stata correttamente applicata nella fattispecie dalla Corte d’appello la quale ha spiegato che la lettera raccomandata contenente la contestazione disciplinare era stata regolarmente ricevuta da tale signora S. che, secondo quanto dichiarato dalla medesima ricorrente nel corso del suo libero interrogatorio, era persona delegata al ritiro della posta, nè la D. aveva avanzato dubbi in merito alla riconducibilità alla predetta S. della firma apposta sulla ricevuta di ritorno della raccomandata in questione.

La Corte territoriale ha, altresì, chiarito che l’idoneità dell’indirizzo di (OMISSIS), ove era stata ricevuta la predetta raccomandata, trovava conferma nel fatto che solo poche settimane prima la lavoratrice aveva ivi ricevuto personalmente due raccomandate, una con la quale si chiedeva alla Comunità Papa Giovanni XXIII ed alla dipendente l’attestazione della sua permanenza presso la struttura in questione e l’altra con la quale la si informava che, a seguito dell’interruzione in data 29.1.2009 del programma riabilitativo presso quest’ultima, il periodo di aspettativa doveva ritenersi autorizzato fino a tale giorno.

Infine, la Corte ha puntualizzato che non vi era prova in atti che l’appellante avesse mai comunicato alla società datrice di lavoro un indirizzo alternativo al proprio domicilio.

Tra l’altro, questa Corte (Cass. sez. lav. n. 6845 del 24/3/2014) ha avuto anche occasione di statuire che “in materia di licenziamento individuale, qualora il recesso sia comunicato con lettera raccomandata, regolarmente ritirata dalla moglie convivente del lavoratore, opera la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ., sicchè incombe sul lavoratore l’onere della prova dell’impossibilità incolpevole di avere notizia dell’atto recettizio, non essendo sufficiente la semplice prova della mancata conoscenza di esso”.

2. Col secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 47 del ceni di categoria e del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 122 e 124, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Sostiene la D. che non le si poteva imputare un’assenza dal servizio in quanto il suo status giuridico era quello di dipendente in aspettativa, per cui il rapporto di lavoro era a tutti gli effetti sospeso, mancando un preciso obbligo di presenza in servizio. La Corte d’appello era incorsa, altresì, in errore nel ritenere che sussistesse in capo a lei l’obbligo di comunicare alla datrice di lavoro il suo allontanamento dalla Comunità di recupero e di fornire il nuovo indirizzo, mentre, secondo il proprio assunto difensivo, spettava a quest’ultima fornire la suddetta comunicazione, essendo l’amministrazione della Comunità a conoscenza dell’attuazione o meno del programma riabilitativo ed essendo stata a suo tempo invitata dalla datrice di lavoro a confermare periodicamente la permanenza dell’assistita presso la struttura di accoglienza. Inoltre, dalla sentenza impugnata si evinceva che la Corte d’appello aveva preso atto del fatto che essa ricorrente non era in quel periodo in grado di rendersi conto delle proprie azioni in conseguenza dello stato di tossicodipendente sottoposta a programma riabilitativo, per cui sarebbe stato agevole dedurne che non vi era stata una volontà piena di porre in essere un’assenza arbitraria. Nè, tantomeno, il cambiamento di struttura per la prosecuzione di un diverso trattamento di recupero riabilitativo poteva equipararsi alla volontà di interrompere il programma curativo di disintossicazione; nè poteva ignorarsi che le spettava il diritto alla conservazione del posto di lavoro durante il periodo in cui era stata materialmente impedita a rendere la prestazione per seguire il predetto trattamento terapeutico.

Il motivo è infondato.

Osserva la Corte che al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 124 (“testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”), è stabilito, nel comma 1, che “i lavoratori di cui viene accertato lo stato di tossicodipendenza, i quali intendono accedere ai programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi sanitari delle unità sanitarie locali o di altre strutture terapeutico- riabilitative e socio-assistenziali, se assunti a tempo indeterminato, hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro per il tempo in cui la sospensione delle prestazioni lavorative è dovuta all’esecuzione del trattamento riabilitativo e, comunque. per un periodo non superiore a tre anni”.

E’ previsto poi, nel secondo coma, che “l’assenza di lungo periodo per il trattamento terapeutico- riabilitativo è considerata, ai fini normativi, economici e previdenziali, come l’aspettativa senza assegni degli impiegati civili dello Stato e situazioni equiparate”.

La Corte d’appello ha richiamato, altresì, la norma di cui all’art. 47 del CCNL per il personale non dirigente delle Poste Italiane s.p.a. 2007 – 2010 che, in attuazione della L. 26 giugno 1990, n. 162, art. 29 e del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, prevede il diritto dei lavoratori a tempo indeterminato dei quali viene accertato lo stato di tossicodipendenza ad un periodo di aspettativa non retribuito per tutta la durata della terapia e, comunque, non superiore a tre anni.

Ciò premesso, va ritenuto che la riportata norma del comma 1 del citato art. 124 – avente diretta rilevanza nel caso di specie – è stata correttamente interpretata dalla Corte d’appello e del pari correttamente applicata alla fattispecie, unitamente alla citata disposizione collettiva.

Ed infatti, così come univocamente evincibile dal contesto letterale oltre che dalla “ratio” delle suddette disposizioni – che sono finalizzate ad agevolare l’accesso dei lavoratori tossicodipendenti ai programmi di disintossicazione di cui al precedente art. 122, garantendo ad essi il mantenimento del posto già occupato sul presupposto che la concreta esecuzione del trattamento riabilitativo previsto da quei programmi è materialmente incompatibile con l’espletamento dell’attività lavorativa -, deve affermarsi che il diritto alla conservazione del posto di lavoro compete al lavoratore tossicodipendente allorquando (e per il tempo in cui) egli sia materialmente impedito a rendere la prestazione lavorativa per eseguire il trattamento di disintossicazione, attuato secondo le previsioni delle sopra citate disposizioni di legge. Logico corollario di tutto ciò è che, ove il programma terapeutico e riabilitativo sia attuato presso una struttura del servizio pubblico o presso una equivalente idonea struttura riabilitativa (ex cit. art. 122, comma 3), l’abbandono di questa struttura, e il definitivo volontario allontanamento da essa da parte del tossicodipendente fa venir meno il presupposto di fatto costitutivo del diritto alla conservazione del posto ed esclude quindi il diritto del predetto alla conservazione stessa: e ciò, appunto, a causa del venir meno dell’impedimento (a prestare l’attività lavorativa) che legittimava (ex cit. art. 124, comma 1) la sospensione dell’obbligo del lavoratore tossicodipendente di eseguire la prestazione oggetto del rapporto di lavoro. E, con il venir meno del diritto alla conservazione del posto, correlativamente e automaticamente, si ripristina – come è evidente – l’obbligo del lavoratore di riprendere servizio e di eseguire la prestazione cui è contrattualmente tenuto. (v. in tal senso anche Cass. sez. lav. n. 5614 del 4.5.2000).

In linea con tale interpretazione, il giudice d’appello ha correttamente ritenuto che nel caso di specie l’abbandono volontario da parte della D. della comunità terapeutica “Papa Giovanni XXIII” di Rimini, presso la quale veniva attuato il suo programma terapeutico e socio-riabilitativo, determinò il venir meno del suo diritto alla conservazione del posto di lavoro, a nulla rilevando la circostanza che la ricorrente avesse comunque continuato il percorso terapeutico presso il CAD ONLUS di Milano: situazione soggettiva, quest’ultima, non avente invero alcuna incidenza nè rilevanza, ai sensi della esaminata normativa legale, in ordine alla sussistenza del diritto alla conservazione del posto.

3. Col terzo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1455, 2119, 1175, 1375, 2104 e 2106 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7 e degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti. In particolare si imputa alla Corte di merito di non aver valutato la vicenda sotto il profilo soggettivo ed oggettivo ai fini del giudizio di proporzionalità della sanzione irrogata, non considerandosi che la contestazione dell’assenza arbitraria dal lavoro non era stata nemmeno proceduta dalla revoca dell’aspettativa e dall’intimazione a riprendere il servizio.

Inoltre, ci si duole della mancata ammissione dei mezzi istruttori riguardanti la prova delle informative rese dal responsabile sindacale alla datrice di lavoro in ordine alle cure del percorso terapeutico che essa ricorrente aveva seguito e dei luoghi in cui le stesse si erano svolte.

Il motivo è infondato.

Invero, la Corte territoriale si è diffusamente espressa in ordine agli aspetti soggettivi ed oggettivi della vicenda in esame allorquando è pervenuta al convincimento, adeguatamente motivato ed immune da vizi logici e giuridici, di ritenere ravvisabile nella fattispecie un’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo in luogo dell’intimato licenziamento per giusta causa. In effetti, i giudici d’appello hanno evidenziato che anche se la condotta contestata alla lavoratrice non poteva ritenersi sufficiente ai fini dell’adozione della massima sanzione disciplinare in considerazione della particolare situazione personale in cui la medesima si trovava all’epoca dei fatti, stante i disturbi di carattere psichico dai quali era affetta, per cui la stessa poteva essere valutata con minor rigore, tuttavia il comportamento fortemente scorretto della D. rivestiva il carattere di grave negazione degli elementi fondamentali del rapporto fiduciario, idoneo a giustificare il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con conseguente diritto della medesima al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Il motivo denota, invece, un profilo di inammissibilità per quel che concerne il lamentato vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Infatti, con la sentenza n. 8053 del 7/4/2014 delle Sezioni Unite di questa Corte, si è precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Quindi, nel sistema l’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto. Invero, si è affermato (Cass. Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) essersi avuta, con la riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta In violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.

Ma è evidente che nella specie la valutazione della arbitrarietà dell’assenza dal lavoro della D., dovuta al suo allontanamento dalla struttura di riabilitazione ove avrebbe dovuto svolgere il percorso terapeutico riabilitativo per il quale le era stato inizialmente concesso un periodo di aspettativa, non è affetta da alcuna di queste ultime anomalie, avendo il giudice d’appello espresso in modo chiaro e comprensibile i motivi a sostegno del suo convincimento sul venir meno del diritto alla conservazione del posto di lavoro per effetto del volontario abbandono della stessa struttura da parte della lavoratrice.

E’, altresì, inammissibile la doglianza riflettente la mancata ammissione dei mezzi di prova in quanto spetta esclusivamente al giudice di merito valutare la pertinenza dei mezzi istruttori di cui una parte chiede l’ammissione, rientrando nei poteri del giudicante verificarne la rilevanza ai fini della dimostrazione di punti decisivi della controversia. In tal senso si è precisato (Cass. Sez. 3 n. 14611 del 12/7/2005) che il giudice di merito non è tenuto ad ammettere e valutare tutti i mezzi di prova dedotti dalle parti, atteso che qualora ritenga sufficientemente istruito il processo bene può, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, insindacabili in sede di legittimità, non ammettere un mezzo istruttorio, valutandolo, alla stregua di tutte le risultanze processuali, irrilevante o superfluo. Al riguardo, inoltre, l’obbligo di motivazione sul carattere superfluo di tale mezzo istruttorio non esclude che le ragioni del rigetto della richiesta di ammissione possano chiaramente desumersi dalle complessive articolate argomentazioni contenute nella sentenza, in ordine alla sussistenza di sufficienti elementi di prova già raggiunti per fondare la decisione, sì da rendere inutile l’ulteriore istruttoria (Cass. 17/03/2004, n. 5421; Cass. 16/07/1987, n. 6256; Cass. 05/06/1987, n. 4903; Cass. 10/05/1995, n. 5106; Cass. 16/01/2003, n. 559).

Si è anche precisato (Cass. Sez. Lav. n. 15502 del 2/7/2009) che “il giudice di merito non è tenuto a respingere espressamente e motivatamente le richieste di prova avanzate dalla parte ove i fatti risultino già accertati a sufficienza e i mezzi istruttori formulati appaiano, alla luce della stessa prospettazione della parte, inidonei a vanificare, anche solo parzialmente, detto accertamento”.

Orbene, nella fattispecie, dalla lettura della motivazione dell’impugnata sentenza emerge che la Corte territoriale ha lasciato intendere la superfluità dei mezzi istruttori invocati dall’appellante allorquando ha affermato che legittimamente la società aveva valutato il mancato rientro della lavoratrice in servizio, pur a seguito dell’avvenuta regolare comunicazione della revoca dell’aspettativa, quale assenza ingiustificata dal posto di lavoro, a nulla rilevando la circostanza che la D., nel periodo compreso tra il 29.1.2009 ed il 20.4.2009, fosse stata ricoverata presso altra comunità ed avesse continuato il percorso terapeutico presso altra struttura, atteso che la dedotta prosecuzione del percorso terapeutico, avvenuta peraltro solo attraverso sporadici colloqui, non comportava alcun obiettivo impedimento alla ripresa della già sospesa attività lavorativa.

4. Col quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 113 – 115 c.p.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7 e dell’art. 57 del ccnl del luglio 2007, dolendosi del mancato accoglimento dell’eccezione di tardività della contestazione disciplinare, intervenuta circa sette mesi dopo il fatto oggetto d’addebito.

Il motivo denota, anzitutto, un vizio di inammissibilità nella parte in cui fa leva sul richiamo all’asserita violazione dell’art. 57 del ccnl del luglio del 2007, atteso che, in spregio a quanto prescritto dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non viene prodotto il testo del contratto collettivo sulla scorta del quale è lamentata la mancanza di tempestività della contestazione, nè è indicato in quale punto del fascicolo di parte è stato eventualmente prodotto il contratto stesso.

Per il resto il motivo è infondato.

Invero, va premesso che nell’ambito del procedimento disciplinare regolato dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, il requisito della immediatezza deve essere interpretato con ragionevole elasticità, il che comporta che il giudice deve applicare il suddetto principio esaminando il comportamento del datore di lavoro alla stregua degli artt. 1375 e 1175 cod. civ., e può dallo stesso discostarsi eccezionalmente, indicando correttamente le ragioni che lo hanno indotto a non ritenere illegittima una contestazione fatta non a ridosso immediato dell’infrazione (v. in tal senso Cass. Sez. lav. n. 13190 del 9/9/2003 e più di recente Cass. Sez. lav. n. 1248 del 25/1/2016).

Ma anche per quel che concerne il licenziamento per giustificato motivo soggettivo si è osservato che il principio tanto dell’immediatezza della contestazione dell’addebito quanto della tempestività del recesso datoriale, la cui “ratio” riflette l’esigenza di osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, per un’adeguata valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente e della validità o meno delle giustificazioni da lui fornite; l’accertamento al riguardo compiuto dal giudice di merito è insindacabile in cassazione, se congruamente motivato” (v. al riguardo Cass. Sez. lav. n. 9253 del 7/7/2001, nonchè Cass. sez. lav. n. 281 del 12/1/2016).

Si è, altresì, precisato (Cass. sez. lav. n. 23739 del 17/9/2008) che “in tema di procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente di datore di lavoro privato, la regola desumibile dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, secondo cui l’addebito deve essere contestato immediatamente, va intesa in un’accezione relativa, ossia tenendo conto delle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento e valutazione dei fatti contestati (da effettuarsi in modo ponderato e responsabile anche nell’interesse del lavoratore a non vedersi colpito da incolpazioni avventate), soprattutto quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti che, convergendo a comporre un’unica condotta, esigono una valutazione unitaria, sicchè l’intimazione del licenziamento può seguire l’ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale da quelli precedenti.” (conf. a Cass. Sez. Lav. n. 22066 del 22/10/2007).

Orbene, dal controricorso emerge che la società postale ebbe contezza dell’abbandono della terapia solo alla fine del mese di maggio a seguito della ricezione della lettera della Comunità Papa Giovanni XXIII con la quale si dava atto dell’accaduto. Tale deduzione difensiva trova riscontro nella parte della sentenza impugnata in cui si afferma che solo poche settimane prima della comunicazione del 7/7/2009 la lavoratrice aveva ricevuto personalmente due raccomandate, una con la quale si chiedeva alla Comunità Papa Giovanni XXIII ed alla dipendente l’attestazione della sua permanenza presso la struttura in questione e l’altra con la quale la si informava che, a seguito dell’interruzione in data 29.1.2009 del programma riabilitativo presso quest’ultima, il periodo di aspettativa doveva ritenersi autorizzato fino a tale giorno. Dalla stessa sentenza risulta, altresì, che l’intimazione del licenziamento fu effettuata il 5.8.2009 dopo l’avvenuta comunicazione con lettera del 3/6/2009, ricevuta dalla lavoratrice il 12.6.2009, a sua volta richiamata nella lettera di contestazione del 7.7.2009, per cui non sussiste la lamentata tardività di quest’ultimo atto del procedimento disciplinare.

Pertanto, il ricorso principale della lavoratrice è infondato.

Con un solo motivo la società Poste Italiane s.p.a. propone ricorso incidentale lamentando la falsa applicazione delle norme di cui all’art. 56, lett. l) e art. 76, punto e) del CCNL di categoria e all’art. 2119 c.c. ed assumendo che la Corte di merito avrebbe erroneamente qualificato il licenziamento in esame come licenziamento per giustificato motivo soggettivo, atteso che non vi era in atti prova dei disturbi psichici sulla base dei quali era stata motivata la decisione di conversione del titolo del licenziamento, ad onta del fatto che le circostanze della vicenda in esame inducevano alla declaratoria di sussistenza dei requisiti del licenziamento in tronco, dato il particolare rilievo assunto dalla lesione del rapporto fiduciario.

Il motivo è infondato.

Invero, si è statuito (Cass sez lav n 17604 del 10.8.2007) che “la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo del licenziamento costituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’uno con effetto immediato e l’altro con preavviso; ne consegue che deve ritenersi ammissibile, ad opera del giudice istruttore ed anche d’ufficio, la valutazione di un licenziamento intimato per giusta causa come licenziamento per giustificato motivo soggettivo qualora, fermo restando il principio dell’immutabilità della contestazione, e persistendo la volontà del datore di lavoro di risolvere il rapporto, al fatto addebitato al lavoratore venga attribuita la minore gravità propria di quest’ultimo tipo di licenziamento, atteso che la modificazione del titolo di recesso, basata non già sull’istituto della conversione degli atti giuridici nulli di cui all’art. 1424 cod. civ., bensì sul dovere di valutazione, sul piano oggettivo, del dedotto inadempimento colpevole del lavoratore, costituisce soltanto il risultato di una diversa qualificazione della situazione di fatto posta a fondamento del provvedimento espulsivo.” (in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 12884 del 9/6/2014).

Nella fattispecie, come si è avuto occasione di spiegare nel corso della disamina del terzo motivo del ricorso principale, la Corte d’appello ha avuto modo di desumere dagli atti di causa gli elementi sufficienti per procedere ad una diversa qualificazione giuridica degli stessi fatti posti a base del provvedimento risolutorio, per cui la presente censura non scalfisce la validità del ragionamento logico-giuridico seguito dalla Corte di merito nel pervenire alla suddetta decisione.

Ne consegue che anche il ricorso incidentale va rigettato.

La reciproca soccombenza delle parti induce la Corte a ritenere interamente compensate tra le stesse le spese del presente giudizio e a porre a carico di entrambe il pagamento del contributo unificato di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Spese compensate.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale ed incidentale, a norma del comma 1-

bis dello stesso art. 13.

Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2016

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