Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1462 del 23/01/2020

Cassazione civile sez. trib., 23/01/2020, (ud. 03/07/2018, dep. 23/01/2020), n.1462

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angel – Maria –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 26279 del ruolo generale dell’anno 2011

proposto da:

Ministero dell’Economia e delle finanze, in persona del Ministro in

carica, e Agenzia delle Dogane, in persona del direttore pro

tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici ha domicilio in Roma, Via dei Portoghesi,

n. 12;

– ricorrenti –

contro

Trissolbia s.p.a., già Palmera s.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti

Riccardo Carnevali, Luciano Canepa e Sarita de Luca per procura

speciale a margine del controricorso, elettivamente domiciliata in

Roma, Piazza Giovine Italia, n. 7, presso lo studio del primo

difensore;

– controricorrente –

BIPIESSE RISCOSSIONI SPA;

– intimata –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Cagliari,

sezione prima civile, n. 244/2011, depositata il giorno 16 giugno

2011;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3 luglio 2018

dal Consigliere Giancarlo Triscari.

Fatto

RILEVATO

che:

la sentenza impugnata ha esposto, in punto di fatto, che: il Ministero delle Finanze, Dipartimento delle Dogane e Imposte dirette, aveva notificato alla società contribuente un invito al pagamento e una cartella di pagamento relative a dazi doganali su due partite di tonno importate dalla Colombia tramite brokers internazionali in data 11 e 15 gennaio 1992; l’operazione di importazione era stata inizialmente autorizzata in regime preferenziale di esenzione doganale, previa presentazione dei certificati di origine dei prodotto, denominati Form A, che attestavano la provenienza del tonno dal paese d’esportazione e rilasciato al soggetto esportatore, ma, successivamente, a seguito di controlli effettuati dagli organismi comunitari, era emerso che i suddetti certificati Form A, rilasciati dall’Autorità doganale del paese di esportazione, erano inesatti, in quanto le merci non erano state prodotte nel paese di provenienza ma da paesi terzi, sicchè l’Amministrazione finanziaria aveva proceduto a richiedere il pagamento dell’Iva sull’importazione; avverso i suddetti atti impositivi aveva proposto impugnazione la contribuente, citando il Ministero delle Finanze dinanzi al Tribunale di Cagliari che aveva accolto la domanda; avverso la suddetta pronuncia avevano proposto appello il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Dogane, quest’ultima succeduta a titolo particolare nel diritto controverso;

la Corte di appello di Cagliari ha rigettato l’appello;

in particolare, ha ritenuto che: l’interpretazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, che esclude dall’ambito di applicazione del medesimo, sotto il profilo dell’obbligatorietà del contraddittorio, i casi in cui il recupero del dazio doganale originariamente non riscosso si basi sulla contestazione dell’origine della merce, incidente sul regime di importazione, non era conforme alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, applicabile retroattivamente alla fattispecie; la contribuente era stata lesa nel suo diritto di difesa, non essendo stata messa nelle condizioni di contrastare la pretesa impositiva; l’invito al pagamento era atto impugnabile, in quanto suscettibile di arrecare pregiudizio ai diritti soggettivi del contribuente; sussistevano i presupposti per l’applicabilità dell’art. 220 Codice doganale comunitario, comma 2, lett. b), sussistendo l’errore delle autorità competenti che non poteva ragionevolmente essere rilevato dalla contribuente che, nella fattispecie, aveva operato secondo buona fede;

avverso la suddetta pronuncia hanno proposto ricorso dinanzi a questa Corte il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle dogane, affidato a quattro motivi di censura, cui ha resistito la contribuente depositando controricorso;

entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso in riferimento al Ministero dell’Economia e delle Finanze posto che, come questa Corte ha in più occasioni precisato, nei “rapporti giuridici”, “poteri” e “competenze” in materia tributari, al Ministero sono succedute ex lege (D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1, con decorrenza dal 1 gennaio 2001 D.M. 28 dicembre 2000, ex art. 1), le agenzie fiscali, enti dotati di autonoma e distinta soggettività impositiva, nonchè di legittimazione sostanziale e processuale (Cass. civ. 1550/15; Cass. civ. 22992/10; Cass. civ. 6591/08);

1. Con il primo motivo dricorso si censura la sentenza ai sensidell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11, nonchè del Reg. Cee del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, artt. 78 e 242, dei Reg. Cee 20 dicembre 1990, n. 3835 del 1990, e Reg. Cee 3 dicembre 1991, n. 3587 del 1991, nonchè dei principi di cui al Reg. Cee 4 marzo 1988, n. 693 del 1988; in particolare, lamenta la ricorrente che il giudice di appello ha ritenuto applicabile la previsione di cui al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, quando, invece, nella fattispecie non si è in presenza di una revisione dell’accertamento doganale (che sussiste solo nel caso di erroneo o inesatto accertamento della qualità, della quantità o del valore della merce da cui deriva un nuovo accertamento per far valere una pretesa fiscale fondata su una diversa qualificazione della merce importata, da accertarsi quindi in contraddittorio con l’operatore), quanto, piuttosto, di una imposizione suppletiva fondata sulla emersione di un fatto illecito successivo alla prima liquidazione del tributo compiuta sulla base delle indicazioni dell’operatore; pertanto, non si attiverebbe, in questi casi, una ulteriore procedura di verifica e di accertamento sugli obblighi dell’importatore, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11; in ogni caso, l’attivazione del procedimento di cui al suddetto articolo non può dirsi preclusiva in termini assoluti rispetto all’accertamento giudiziale della legittimità della pretesa;

il motivo è inammissibile;

lo stesso, invero, è incentrato sulla non corretta applicazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, in particolare sulla circostanza che, nella fattispecie, non vi sarebbe stata una revisione dell’accertamento doganale, quanto, piuttosto, una imposizione suppletiva fondata sulla emersione di un fatto illecito successivo alla prima liquidazione del tributo compiuta sulla base delle indicazioni dell’operatore e, pertanto, non si attiverebbe una ulteriore procedura di verifica e di accertamento sugli obblighi dell’importatore, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11; e anche quando fa leva (a partire dal punto 6.4 del ricorso) sui richiami contenuti in sentenza alla giurisprudenza interna e unionale sul diritto al contraddittorio, pur sempre li esamina al solo fine di escludere che “la questione oggetto del giudizio…identifica quell’accertamento regolato dall’art. 11…” (pag. 28 del ricorso);

va quindi osservato che il motivo di ricorso in esame, così come sopra delineato, non tiene conto della ratio decidendi della pronuncia del giudice di appello;

in realtà, a prescindere dalla applicabilità o meno della previsione di cui al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, al caso di specie, va evidenziato che la ragione della decisione è incentrata sulla ritenuta violazione del contraddittorio preventivo alla luce della sentenza della Corte di giustizia C-349/07 (Sopropè – Fazenda pubblica) in ipotesi non circoscritte ai soli casi in cui la nuova liquidazione dei diritti doganali sia conseguenza di una differente qualificazione delle merci importate in relazione alla loro intrinseca natura fattuale, ma anche ai casi, come quello in esame, in cui si è proceduto ad una imposizione suppletiva fondata sulla emersione di una non correttezza della certificazione di importazione Form A, ed è addivenuta alla conclusione che, anche in siffatte ipotesi, doveva riconoscersi sussistente il diritto al contraddittorio;

a tal proposito, va precisato che la Corte di giustizia (sentenza 18 dicembre 2008, C-349/07, Sopropè) ha affermato che il rispetto dei diritti della difesa è un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo (punto 36) e che, in virtù di tale principio, i destinatari di decisioni destinate ad incidere sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in ordine agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione (punto 37);

sempre la Corte di giustizia, inoltre, (sentenza 3 luglio 2015, cause riunite C-129/13 e C-130/13 Kamino), ha ulteriormente precisato che le amministrazioni nazionali sono tenute a rispettare i diritti della difesa quando le stesse prendono decisioni che rientrano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione; la stessa, inoltre, ha precisato che l’adozione delle intimazioni di pagamento, sulla base dell’art. 220 codice doganale, paragrafo 1, nonchè art. 221 codice doganale, paragrafo 1, e della procedura amministrativa applicabile in forza di una normativa nazionale come quella in discussione nei procedimenti principali, che dà attuazione all’art. 243 codice doganale, comporta una limitazione al diritto di essere sentiti dei destinatari delle intimazioni di pagamento in parola;

sul versante della giurisprudenza interna, questa Corte ha espresso l’orientamento secondo cui il rispetto del contraddittorio anche nella fase amministrativa, pur non essendo esplicitamente presente nel codice doganale comunitario, costituisce principio generale e fondamentale (Cass. civ., 25 gennaio 2019, n. 2175; Cass. civ., 23 maggio 2018, n. 12832; 15 marzo 2013, n. 6621; Cass. civ, 11 giugno 2010, n. 14105);

infine, le Sezioni unite di questa Corte (9 dicembre 2015, n. 24832), pronunciando in seguito alla sentenza della Corte di giustizia 3 luglio 2015, cit., hanno affermato il principio di diritto secondo cui “In tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”;

dal suddetto quadro giurisprudenziale si evince che, in relazione a tutti gli atti impositivi adottati dall’amministrazione doganale, sussiste sempre l’obbligo del contraddittorio preventivo, costituendo lo stesso espressione di un principio generale posto a tutela del diritto di difesa del contribuente;

di questa linea interpretativa ha, quindi, fatto applicazione la pronuncia censurata, in particolare laddove ha ritenuto che era stato violato il diritto alla previa instaurazione del contraddittorio; inoltre, in questo contesto, la pronuncia censurata ha, altresì, esaminato la questione della prova di resistenza cui è, comunque, tenuto il contribuente che intenda far valere, a proprio favore, la lesione del diritto al contraddittorio;

sotto questo profilo, preme evidenziare che la stessa Corte di giustizia ha chiarito che la regola secondo cui il destinatario di una decisione ad esso lesiva deve essere messo in condizione di far valere le proprie osservazioni prima che la stessa sia adottata ha lo scopo di mettere l’autorità competente in grado di tener conto di tutti gli elementi del caso e, al fine di assicurare una tutela effettiva della persona o dell’impresa coinvolta, la suddetta regola ha in particolare l’obiettivo di consentire a queste ultime di correggere un errore o far valere elementi relativi alla loro situazione personale tali da far sì che la decisione sia adottata o non sia adottata, ovvero abbia un contenuto piuttosto che un altro (Corte di giustizia 18 dicembre 2008, C-349/07, Sopropè, punto 49);

è stato, quindi, precisato che la regola fissata, conformemente alle regole generali anche del diritto interno, non è posta a presidio dell’astratta regolarità del procedimento amministrativo, sebbene della concreta legittimità dell’atto nel quale, in esito al procedimento, si esprime l’azione, derivando ineludibilmente che la denuncia di vizi di attività dell’amministrazione capaci d’infirmare il procedimento è destinata ad acquisire rilevanza soltanto se, ed in quanto, l’inosservanza delle regole abbia, anzitutto, determinato un concreto pregiudizio del diritto di difesa della parte, direttamente dipendente dalla violazione e, poi, si sia riverberata su vizi del provvedimento finale;

sul medesimo versante si è pronunciata questa Corte a sezioni unite (n. 24832/2015, cit.) laddove ha precisato che il diritto al contraddittorio ha un limite nella necessità che in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato;

in relazione a tale ulteriore profilo, va osservato che, nel caso in esame, la pronuncia della Corte di appello ha espressamente tenuto conto dell’assolvimento di tale onere, ritenendo che (vd. pag. 15 della sentenza) sussisteva una concreta lesione del diritto di difesa, essendo emerso che la società avrebbe potuto far valere, ove il contraddittorio fosse stato instaurato, validi argomenti per contrastare la pretesa impositiva;

i profili, quindi, sia della violazione del contraddittorio che della prova di resistenza, che hanno costituito i punti essenziali del percorso motivazionale seguito dal giudice del gravame, non sono stati oggetto di specifica censura da parte della ricorrente, sicchè la questione della effettiva lesione del diritto di difesa, accertata dal giudice del gravame, risulta incontestata e non sindacabile in questa sede;

nè, sotto tale profilo, assume rilevanza quanto osservato dalla ricorrente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., in quanto si è limitata a sostenere la necessità dell’assolvimento dell’onere di prova da parte della contribuente, senza tuttavia, anche in questo caso, tenere in considerazione il passaggio motivazionale della sentenza censurata con cui, invece, è stata accertata la sussistenza della concreta lesione del diritto di difesa della contribuente, secondo quanto sopra evidenziato;

2. Con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, artt. 1 e 2, del Reg. Cee 12 ottobre 1992, n. 2913 del 1992, artt. 201 e 202, e dei principi generali in materia di imposizione fiscale delle importazioni; in particolare, i ricorrenti lamentano che il giudice di appello non ha considerato che, il fatto in sè dell’attraversamento dei confini doganali da parte delle merci, comporta il sorgere dell’obbligazione e che, al fine di fruire del trattamento preferenziale, è necessario che l’effettiva provenienza della merce sia attestata da valido certificato e che, pertanto, l’irregolarità delle certificazioni è sufficiente ad escludere il beneficio ove sia accertato che la merce non provenga dai paesi esportatori;

con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 220 Codice doganale comunitario, e del Reg. Cee n. 2454 del 1993, art. 199 e art. 904, punto c);

in particolare la ricorrente lamenta che la Corte di appello non avrebbe fatto corretta applicazione dell’art. 220 Codice doganale comunitario, in quanto, nella fattispecie, non era riscontrabile un errore attivo delle Autorità doganali, poichè l’errore era stato indotto da dichiarazioni inesatte dell’esportatore, sicchè non avrebbe dovuto trovare applicazione l’esimente della buona fede, in quanto l’importatore non è esonerato da responsabilità per avere presentato una documentazione dell’autorità doganale del paese di origine;

2.2. I motivi, che possono essere esaminati unitamente, in quanto logicamente connessi, sono infondati;

a tal proposito, va detto che il giudice di appello, sulla base della accertata falsa attestazione dell’origine preferenziale della merce, ha tenuto conto di tutti i presupposti previsti dall’art. 220 Codice doganale comunitario, lett. b), argomentando sulla natura dell’errore dell’autorità competente e sulla conseguente sussistenza della buona fede della società contribuente, e, proprio sulla base della ritenuta applicabilità dell’esimente, ha ritenuto non fondata la pretesa al pagamento del dazio sull’importazione;

circa la questione della corretta applicazione della previsione di cui all’art. 220 Codice doganale comunitario, lett. b), va premesso che la Corte di Giustizia (sentenza 16 marzo 2017, n. 47/16), ha precisato che “l’art. 220 codice doganale, , lett. b), paragrafo 2, dev’essere interpretato nel senso che un importatore può invocare il legittimo affidamento, ai sensi di tale disposizione, al fine di opporsi ad una contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione, eccependo la propria buona fede, solo qualora ricorrano tre condizioni cumulative. Occorre, anzitutto, che tali dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti medesime, quindi, che l’errore di cui trattasi sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore in buona fede e, infine, che quest’ultimo abbia rispettato tutte le disposizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana”;

in particolare, la sentenza in esame ha ribadito, con specifico riferimento all’errore attivo dell’autorità competente, che:

– dalla giurisprudenza della Corte risulta che l’art. 220 codice doganale, comma 3, lett. b), paragrafo 2, non può essere interpretato nel senso che il rilascio, da parte delle autorità doganali dello Stato di esportazione, di un certificato di origine “modulo A” inesatto non costituisce un errore commesso dalle autorità “medesime”, qualora tali certificati siano stati redatti sulla base di una presentazione inesatta dei fatti da parte dell’esportatore, a meno che, in particolare, non sia evidente che dette autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere che le merci non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale (v., in tal senso, sentenza dell’8 novembre 2012, Lagura Vermògensverwaltung, C-438/11, EU:C:2012:703, punto 19);

– qualora risulti che l’irregolarità di un certificato di origine “modulo A” derivi da un comportamento illecito dell’esportatore e che le autorità competenti dello Stato di esportazione non avrebbero potuto, nè dovuto, rilevare che le merci non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale, è l’importatore che sopporta le conseguenze della produzione, in occasione di un successivo controllo, di un documento commerciale che si rivela falso, cosicchè tale importatore non può, in un’ipotesi del genere, opporsi al recupero a posteriori dei dazi doganali;

in definitiva, al fine di ritenere sussistente il legittimo affidamento dell’importatore, deve essere accertato che l’errore attivo dell’autorità competente nel rilascio del certificato di origine non sia dipeso da una presentazione errata dei fatti da parte dell’esportatore e, inoltre, che la medesima autorità era nelle condizioni di accertare che le merci non soddisfacevano le condizioni per beneficiare del trattamento preferenziale;

ciò premesso, la pronuncia censurata ha tenuto conto dei diversi presupposti, sopra indicati, al fine di ritenere sussistente, nel caso di specie, l’esimente di cui all’art. 220 Codice doganale comunitario;

in particolare, ha ritenuto che: a) l’errore nel rilascio della certificazione di origine del prodotto Form A era dipeso dalle stesse autorità colombiane che avevano non correttamente interpretato l’esatta estensione delle acque territoriali, ritenendovi ricompreso anche il pesce catturato fuori dalle 12 miglia; b) le autorità colombiane avevano espressamente ammesso l’erronea interpretazione e le irregolarità nel rilascio dei certificati erano ad esse imputabili; c) le autorità colombiane avevano assicurato alle autorità doganali italiane la regolarità dei certificati; d) le autorità colombiane non avevano emesso i certificati di origine in base a una non corretta rappresentazione dei fatti da parte dell’esportatore ma le stesse, pur conoscendo tutti gli elementifattuali, avevano ritenuto di potere emettere i certificati, pur sapendo o potendo ragionevolmente sapere che le merci per le quali li rilasciavano non avevano i requisiti per beneficiare del trattamento preferenziale;

sotto tale profilo, la Corte di appello ha ritenuto che l’errore era derivato da un comportamento attivo dell’autorità doganale colombiana e non da una iniziativa del fornitore della società;

la pronuncia, poi, è altresì passata ad esaminare la sussistenza, nel caso di specie, della buona fede della contribuente ed ha ritenuto che: a) non poteva esigersi dalla contribuente il controllo della corretta interpretazione delle norme sulle acque territoriali proveniente dagli organi competenti dello stato di provenienza; b) non sussisteva una scorretta presentazione da parte dell’importatore dei certificati di provenienza; c) era risultato provato che la Palmera s.p.a. non era un importatore professionista; d) non vi era stata alcuna divulgazione sulla Gazzetta ufficiale Europea che avrebbero dovuto indurre la società contribuente a richiedere specifiche informazioni; e) le autorità colombiane, a seguito di specifica richiesta di quelle italiane, avevano confermato la regolarità dei certificati Form A; f) la Commissione Europea, nella decisione da cui era derivata la verifica della non correttezza delle certificazioni in esame, aveva escluso che gli operatori potessero essere validamente informati delle irregolarità commesse dalle autorità della Colombia nè dei rischi potenziali;

in definitiva, la Corte di appello, tenuto conto dei presupposti di cui all’art. 220 Codice doganale comunitario, ha ritenuto che, nella fattispecie, sussisteva l’esimente da essa configurato in quanto, da un lato, l’errore nel rilascio della certificazione era riconducibile a fatto proprio dell’autorità doganale comunitaria, e, dall’altro, sussisteva la buona fede della società contribuente;

in questo quadro, non è configurabile il ritenuto vizio di violazione di legge, avendo il giudice di appello fatta corretta applicazione della previsione in esame, procedendo, con una valutazione di merito non sindacabile in questa sede, alla verifica della sussistenza dei presupposti previsti dalla medesima;

va precisato, per completezza, che quanto ritenuto con riferimento al motivo di censura in esame non è in contrasto con la pronuncia di questa Corte 4 aprile 2012, n. 5392, resa tra le stesse parti ed avente ad oggetto analoga questione, in quanto la suddetta pronuncia ha ritenuto non sussistenti i presupposti di cui all’art. 220 CDC, in particolare la buona fede della contribuente, “poichè non risulta che nel corso del giudizio la ricorrente abbia fornito prova della propria buona fede, nei sensi ora detti”;

si tratta, quindi, di una decisione resa sulla base delle risultanze degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice del merito, profilo che, invece, nella presente controversia, secondo quanto sopra detto, risulta diversamente accertato dal giudice di appello, con una valutazione non sindacabile in questa sede;

infine, non corretta è la considerazione espressa dalla ricorrente a pag. 43 del ricorso, secondo cui non avrebbe alcuna attinenza al caso di specie la decisione della Commissione Ce n. 1708 del 28 maggio 2003, richiamata dalla Corte di appello nella sua motivazione al fine di configurare l’errore attivo dell’autorità doganale estera e la sussistenza della buona fede della contribuente;

parte ricorrente, in particolare, evidenzia che la suddetta decisione aveva focalizzato il periodo in cui le autorità competenti avevano persistito nel loro comportamento, precisando che nel caso presente la autorità competenti della Colombia hanno rilasciato certificati Form A per merci che non rispondevano alle condizioni richieste per il rilascio di tali certificati, per un periodo, pari a circa 2 anni, coperti dalla missione di controllo di novembre 1994, e, a tal proposito, ha quindi dedotto che i Form A relativi alle dichiarazioni di importazione e alle relative revisioni di accertamento in esame, tutti emessi nei primi mesi del 1992, non rientrerebbero nell’ambito del periodo temporale coperto dalla suddetta decisione;

in realtà, la suddetta considerazione si scontra con l’accertamento in fatto compiuto dal giudice del gravame secondo cui le importazioni di tonno, oggetto della presente controversia, erano avvenute nell’ambito del lungo periodo, pari a circa due anni, coperto dalla missione di controllo del novembre 1994 (vd. pag. 21, sentenza), ed è proprio sulla base di tale circostanza fattuale che, nella motivazione della sentenza, si è fatta discendere la considerazione che era stato accertato che le autorità colombiane avevano espressamente ammesso di avere rilasciato i certificati Form A anche in relazione a pesce catturato fuori dalle 12 miglia a causa di un’erronea interpretazione della nozione di “acque territoriali”, riconoscendo che le irregolarità nel rilascio dei certificati erano imputabili a loro stesse;

3. Con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del Reg. Cee 2 luglio 1993, n. 2454 del 1993, art. 199, per non avere tenuto conto che la previsione impone agli operatori professionali del settore di acquisire le informazioni in merito all’affidabilità degli esportatori che forniscono la merce e quindi di verificare la sussistenza dei requisiti che consentono di godere dei benefici del trattamento preferenziale;

il motivo è inammissibile;

lo stesso, in particolare, non precisa quale punto della decisione è oggetto di specifica censura, limitandosi ad una generica contestazione della violazione della norma in esame;

in ogni caso, ove l’oggetto della censura attenga al seguente passaggio motivazionale: “quanto all’obbligo di fornire agli uffici doganali tutte le informazioni necessarie, secondo la legislazione nazionale e comunitaria attinenti al regime doganale richiesto, esso non può ovviamente comprendere informazioni o esibizione di documenti che l’interessato non possa ragionevolmente conoscere o essere in grado di conoscere” (vd, pag. 24 sentenza), il motivo di ricorso non coglie la ratio della pronuncia in esame, che ha escluso l’applicabilità della previsione proprio a seguito dell’accertata non conoscenza o conoscibilità da parte della contribuente di elementi relativi all’inesattezza delle indicazioni sull’origine della merce;

per quanto sopra esposto, il ricorso è infondato e deve essere rigettato, con compensazione delle spese di lite, tenuto conto dell’evoluzione giurisprudenziale interna e unionale sulla questione in esame successiva alla proposizione del ricorso.

P.Q.M.

La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze, rigetta il ricorse e nella specie compensa le spese di lite.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della quinta sezione civile, il 3 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2020

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