Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14609 del 29/05/2019

Cassazione civile sez. trib., 29/05/2019, (ud. 17/01/2019, dep. 29/05/2019), n.14609

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26496/2012 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12.

– ricorrente –

contro

Fashion Box s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, come da procura

speciale a margine del controricorso, dall’Avv. Dario Stevanato e

dall’Avv. Claudio Lucisano, elettivamente domiciliata presso lo

studio di quest’ultimo, sito in Roma, Via Crescenzio n. 91.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Veneto, n. 59/2012, depositata il 24 luglio 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 gennaio

2019 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti della Fashion box s.p.a., con riferimento all’anno 2004, rettificando i ricavi, tra l’altro, anche per la somma di Euro 988.888,27, relativa ad operazioni di transfer pricing tra la contribuente e le altre società controllate dalla Fashion Box Group s.p.a. con sede in diversi Stati eruropei, con vendita di prodotti per l’infanzia a prezzi di molto inferiori rispetto al valore normale ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 9 e 110. In particolare, l’Agenzia evidenziava che le vendite alle consociate Europee rappresentavano il 95 % di quelle complessive, che, però, gli sconti praticati alle consociate erano del 31% mentre quelli offerti agli operatori italiani erano tra il 2 ed il 2,5%, che i prezzi praticati in Italia, al lordo degli sconti, erano leggermente più bassi di quelli praticati alle consociate Europee, che i prezzi consigliati al pubblico erano inferiori in Italia rispetto all’estero, che, quindi, le consociate potevano godere di una marginalità nettamente superiore, che un operatore italiano aveva un ricarico teorico del 138% mentre quello estero del 233%, che, quindi, era chiara l’esistenza di una politica fiscale interna al gruppo societario rivolta a trasferire ai soggetti esteri del gruppo i ricavi così da sottoporre gli stessi ad una legislazione fiscale “diversa” da quella italiana.

2. La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso.

3. La Commissione tributaria regionale rigettava il gravame proposto dalla Agenzia delle entrate, rilevando che il recupero a tassazione era fondato essenzialmente sulla maggiore entità di sconto di cui godevano le consociate estere nella misura del 31%, senza alcun obbligo di raggiungere una soglia di fatturato, a differenza dei clienti nazionali che godevano di uno sconto di molto inferiore che difficilmente superava il 2,5%, che per l’individuazione del “valore normale” di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, occorreva raffrontare i prezzi dei prodotti “nel medesimo stadio di commercializzazione”, che, al contrario, nella fattispecie in esame, erano stati considerati i prezzi praticati “al dettaglio” nel mercato nazionale, con i prezzi “all’ingrosso” applicati alle consociate estere, che le società estere acquistavano come “grossisti” per rivendere i prodotti ai dettaglianti locali, e non al pubblico, mentre il dettagliante locale acquistava direttamente dalla contribuente ad un prezzo sostanzialmente equivalente a quello che la consociata estera praticava al dettagliante localizzato nel suo paese.

4. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

5. Resisteva con controricorso la contribuente.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Anzitutto, va rigettata l’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dalla controricorrente per la mancata produzione da parte della Agenzia delle entrate della copia autentica della sentenza della Commissione tributaria regionale munita di relata di notificazione.

Infatti, per questa Corte, a sezioni unite, deve escludersi la possibilità di applicazione della sanzione della improcedibilità, ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, al ricorso contro una sentenza notificata di cui il ricorrente non abbia depositato, unitamente al ricorso, la relata di notifica, ove quest’ultima risulti comunque nella disponibilità del giudice perchè prodotta dalla parte controricorrente ovvero acquisita mediante l’istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio (Cass. Civ., Sez. Un., 2 maggio 2017, n. 10648).

Nella specie, la sentenza munita di relata di notificazione è stata prodotta dalla contro ricorrente.

1.1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate evidenzia “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e/o falsa applicazione dell’art. 110, commi 2 e 7, e del Tuir, art. 9, (D.P.R. n. 917 del 1986)”, rilevando che la Commissione regionale ha affermato che, poichè le transazioni riguardavano beni che si trovavano in “diversi stati di commercializzazione” il metodo del confronto “interno” dei prezzi non era possibile, essendo le due situazioni (italiana ed estera) disomogenee. Tuttavia, secondo la ricorrente la Commissione regionale non ha tenuto conto della “controprova” effettuata dalla Agenzia delle entrate, con una “valutazione incrociata”, che ha posto a confronto anche le vendite ed i prezzi praticate alle consorelle Europee con i prezzi praticati ad una società danese, indipendente, quindi estranea al gruppo societario. Secondo la ricorrente della controprova svolta dall’Ufficio “non vi è alcuna traccia nella motivazione della sentenza” (cfr. pagina 14 del ricorso). In particolare, si deduce che, dal confronto con il cliente danese D.L., società indipendente estera, gli sconti sono di circa il 25%, quindi inferiori a quelli praticate alle consorelle Europee nella misura del 31%. Nè è provato che la clausola relativa all’incremento del 10% del quantitativo minimo di prodotti venduti non è stata ratificata nei successi accordi, nè rileva la circostanza che il cliente danese sia un “plurimarca”.

1.2. Tale motivo è inammissibile.

Invero, la ricorrente, pur censurando la decisione della Commissione regionale per violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in realtà si spinge sino alla critica della motivazione della decisione ed alla doglianza in ordine ad elementi non presi in considerazione nella motivazione. In particolare, la ricorrente, pur ammettendo che effettivamente i beni venduti alle consorelle estere e quelli ceduti al mercato italiano, erano in diversi stati di commercializzazione, e quindi del tutto disomogenei, tuttavia, si lamenta della mancata considerazione dell’ulteriore elemento costituito dalla vendita di prodotti anche ad un cliente danese, con sconti anche in questo caso inferiori a quelli concessi alle consociate Europee.

In tal modo, l’Agenzia censura la motivazione della decisione e la mancata valutazione di elementi di fatto presenti negli atti di causa, giungendo a considerare che “di tali profili, e specialmente di quale rilevanza abbia, nel caso concreto, “la controprova” svolta dall’Ufficio, non vi è alcuna traccia nella motivazione della sentenza, benchè su di esso le parti avessero lungamente discusso” (cfr. pagina 14 del ricorso per cassazione). Si ribadisce, poi, nel ricorso (a pagina 16) che “qualora il confronto avvenga nei termini descritti, ma prendendo in considerazione transazioni che si siano svolte a stadi di commercializzazione diversi, tale profilo possa essere superato mediante una controprova della validità del risultato raggiunto da effettuare attraverso l’utilizzazione di un metodo di controllo”. Pertanto, nuovamente la ricorrente, non si limita a dedurre una violazione di legge, ma censura la motivazione della decisione della Commissione regionale.

Costituisce, infatti, causa di inammissibilità del ricorso per cassazione l’erronea sussunzione del vizio che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità nell’una o nell’altra fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., come pure l’incongruenza fra le norme di legge di cui si prospetta la violazione e le argomentazioni di supporto – nella specie, proposto ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente si doleva, in realtà, di un vizio di motivazione della sentenza – (Cass. Civ., 16 settembre 2013, n. 21099).

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: insufficiente motivazione in relazione ad un fatto decisivo e controverso del giudizio”, in quanto la Commissione regionale, pur rilevando che il valore normale di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, si determina tra prodotti venduti che si trovano nel “medesimo stadio di commercializzazione”, sicchè non può operarsi tale raffronto tra vendite ai grossisti stranieri e cessioni ai dettaglianti nazionali, tuttavia non ha tenuto conto della “controprova” fornita dalla Agenzia, che ha utilizzato un metodo di “controllo”, attraverso il confronto tra i prezzi dei prodotti venduti alle consociate estere, con sconti del 31%, e quelli praticati al cliente estero indipendente D.L., con sconti del 25%.

2.1. Tale motivo è infondato.

Invero, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7, dispone che “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società, che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva un aumento del reddito; la stessa disposizione di applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito”.

L’art. 110, comma 2, prevede che “per la determinazione del valore normale dei beni e dei servizi…si applicano…le disp. dell’art. 9”.

Il medesimo D.P.R., art. 9, quindi, dispone che “per valore normale.. si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti…Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso”.

La Commissione regionale ha fornito, sul punto, adeguata e congrua motivazione della decisione cui è pervenuta, evidenziando che gli sconti maggiori praticati alle consociate Europee (31%), rispetto a quelli praticati alle società italiane (2,5%), trovavano giustificazione nel differente stadio di commercializzazione dei prodotti. Infatti, si chiarisce in modo limpido in motivazione il recupero a tassazione operato dall’Ufficio si fonda solo sulla maggiore entità di sconto in favore delle consociate Europee, ma non si tiene in alcuna considerazione la circostanza che, mentre le vendite alla consociate Europee sono all’ingrosso, quelle ai clienti italiani sono “al dettaglio”, quindi tale confronto ha ad oggetto prodotti che non si trovano nel medesimo stadio di commercializzazione., con la conseguente impraticabilità del metodo del “confronto dei prezzi”.

Nè tale motivazione può essere ritenuta insufficiente, soltanto perchè non avrebbe tenuto conto della “controprova” offerta dalla Agenzia delle entrate, che, accortasi del differente stadio di commercializzazione dei prodotti, in caso di confronto dei prezzi tra vendite alle consociate Europee (all’ingrosso) e vendite alle società italiane (al dettaglio), ha posto a comparazione anche i prezzi praticati al cliente danese, indipendente, cui sono stati praticati sconti del 25%.

Invero, a prescindere dalla considerazione che il livello di sconto in tale situazione è molto vicino a quello praticato alle consociate estere (rispettivamente 25% e 31%) e che il cliente danese D.L. non aveva sottoscritto l’obbligo di incrementare il livello di vendite ogni anno ed era un rivenditore “plurimarca”, con un volume di vendite maggiori – sicchè anche in tal caso vi erano delle differenze di assoluto rilievo – si evidenzia che il giudice di merito non deve prendere in considerazione tutti gli elementi presenti in atti, quando fornisce una motivazione adeguata ed analitica del proprio convincimento, fondato su solide basi argomentative.

Il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass.Civ., 2272/2007).

3. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della società le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 9.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e rimborso delle spese generali nella misura forfettaria del 15%.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2019

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