Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14596 del 13/07/2015


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Civile Sent. Sez. 1 Num. 14596 Anno 2015
Presidente: CECCHERINI ALDO
Relatore: FERRO MASSIMO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da:

MA.GLCA s.r.1., in persona del presidente e 1.r.p.t., rappr. e dif. dall’avv. Mauro
Bigi del foro di Perugia, elett. dom. presso il medesimo, in Roma, via Lazio n.9, allo
Studio degli avvocati Cucchiarelli-Melaranci, come da procura a margine dell’atto
-ricorrente Contro .
f

Fallimento MA.GLCA s.r.1., in persona del curatore p.t.
-intimato-

383
`k-557

per la cassazione della sentenza App. Perugia 7.3.2008;
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estensore cons.

Data pubblicazione: 13/07/2015

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 13 maggio 2015
dal Consigliere relatore dott. Massimo Ferro;
udito il P.M. in persona del sostituto procuratore generale dott. Luigi Salvato che ha
concluso per il rigetto del ricorso.

MA.GI.CA s.r.l. impugna la sentenza App. Perugia 7.3.2008 che, nel respingere il
proprio appello avverso la sentenza dichiarativa di fallimento depositata dal Trib.
Perugia il 11.10.2007, ebbe a confermare la correttezza della pronuncia resa dal
primo giudice, in punto di sede nel circondario ai sensi dell’art.9 1.fall., stato di
insolvenza, rilevanza del debito azionato dall’istante, soglie soggettive di fallibilità,
debito minimo esigibile.
Ritenne la corte d’appello che non ostava al fallimento la prospettata unicità e
contestazione dell’unico credito, solo parzialmente sospeso nell’esecutività
provvisoria quanto al relativo titolo e comunque per la differenza non affrontabile
solutoriamente dalla società, non appariva rilevante un presunto vantaggio che
l’istante per il fallimento avrebbe conseguito dalla relativa declaratoria, né poteva
infine la società invocare il trasferimento di sede ovvero il rifiuto di pagamento del
creditore quali improprie forme di autotutela.
Il ricorso è affidato a due motivi.
I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione di legge ai sensi dell’arti 5
1.fall., avendo il tribunale erroneamente dichiarato il fallimento nonostante l’unicità
del credito azionato ed il suo limite inferiore ai 25.000 curo in allora vigenti secondo
l’ultimo co. dell’art.15 cit., nella disciplina ratione temporis, comunque impeditiva di
procedervi per debiti scaduti e non pagati che non superassero tale soglia.
Con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione, strutturato su quattro
subquesiti, avendo trascurato la C.T.R. le forme di autotutela opposte dalla società
per evitare il fallimento, che il fallimento era stato dichiarato solo su un unico debito
accertato e dunque su ptesunzioni, successivamente all’accertamento dell’assenza di
titolo di credito azionabile da parte dell’unico istante ed infine senza che sussistesse
insolvenza.
1. Il primo motivo è inammissibile, laddove il ricorrente omette di esporre se la
contestazione del relativo limite di fallibilità — vigente ai sensi dell’art.15 u.co. 1.fall.,
allora 25.000 curo quanto a debiti scaduti e non pagati – sia stata comunque
ritualmente riportata tra le difese avanzate nel merito e con quale tempestività,
documentandone l’introduzione nel processo con il rispetto del contraddittorio, così
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estensore con

IL PROCESSO

2. Il secondo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato. Con esso la ricorrente
prospettando un vizio di motivazione su quattro questioni ed in primo luogo correlato
ai supposti illegittimi vantaggi conseguibili dall’istante per effetto del fallimento, non
coglie la rado decidendi della pronuncia impugnata che, nel negare esplicitamente ogni
rilevanza dell’invocata “autotutela” della parte per resistere all’iniziativa di fallimento
esercitata dal creditore istante, da un lato semplicemente declinava il possibile scenario
di coltivazione delle pretese della società debitrice da parte de li organi della
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estensor

apparendo ora la questione oltre che nuova (e dunque a questa stregua non
esaminabile), altresì contraddetta dalla duplice affermazione (non avversata dalla
ricorrente) della sentenza impugnata che fa riferimento in primo luogo ad un
ammontare di “passività per oltre curo 160.000” ovvero di “euro 166.000, senza
considerare il debito nei confronti del ricorrente”, richiamando uno specifico
accertamento del tribunale sul punto, quale svolto al momento della dichiarazione di
fallimento. Inoltre, la distinzione netta tra passività così rilevate e ammontare ben
maggiore dei crediti insinuati, da un lato e l’osservazione per cui il precetto notificato
dall’unico istante recava la somma di 86 mila euro, dall’altro, appaiono riscontri
coerenti anche con l’indirizzo assunto da questa Corte allorchè si è ritenuto – con
riguardo al testo del co.9 dell’art.15 I.fall. successivo al d.lgs. n. 169 del 2007, identico
al precedente, salvo il limite innalzato da 25 a 30 mila euro — che l’accertamento della
predetta soglia deve risultare dagli atti dell’istruttoria prefallirnentare, dovendosi
escludere ogni incidenza dei riscontri successivi, per debiti accertati nella verifica dello
stato passivo, semmai utili a ricostruire lo stato d’insolvenza. E se è condivisibile che a
tale interpretazione concorre il significato deflattivo della disposizione, volta ad evitare
l’apertura di fallimenti per i quali sia ragionevole presumere un’eccedenza dei costi
rispetto ai ricavi distribuibili ai creditori (Cass. 15343/2014), occorre aggiungere, in
fatto e con riguardo alla vicenda di causa, che la parziale sospensione di esecutività
applicata — per come riferito – alla condanna emessa dal giudice del lavoro per le
somme maggiori di 10 mila euro, pur se pronunciata dal giudice d’appello ai sensi
degli artt.283 e 431 co.3 cod.proc.civ., ed in data anteriore alla dichiarazione di
fallimento, non ha sottratto qualità di “debito scaduto e non pagato” all’obbligazione
comunque giudizialmente accertata, e sia pur oggetto di pendente contestazione
giudiziale. Per essa, non solo il tribunale — e poi in conferma la corte d’appello hanno incidentalmente ritenuto la legittimazione attiva del ricorrente, ma hanno
evidentemente apprezzato come superata la predetta soglia oggettiva di non fallibilità,
potendosi anche nella presente sede affermare, sulla base della differenza tra
esecutività della pretesa ed esigibilità del credito, che l’unica nozione rilevante ai fini
del limite oggettivo alla fallibilità di cui all’art.15 co.9 1.fall., da verificare d’ufficio, è
che il requisito, quale emersione diretta e agevolmente riscontrabile dallo stato
dell’istruttoria come evoluta — per il concorso dell’iniziativa di parte ovvero dei mezzi
istruttori d’ufficio – fino al momento della decisione, coincida con l’ammontare di
obbligazioni per le quali il pagamento sia dovuto, senza termini o condizioni, sia esso
afferente ai crediti propriamente azionati con il ricorso che a quelli comunque
accertati e già agli atti, come accaduto nella fattispecie.

3. Quanto alla valenza assunta dall’unico debito — all’altezza del secondo e terzo
submotivo – ricordato che in tema di iniziativa per la dichiarazione di fallimento, l’art.
6 legge fall., laddove stabilisce che il fallimento è dichiarato, fra l’altro, su istanza di
uno o più creditori, non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede
giudiziale, né l’esecutività del titolo, essendo viceversa a tal fine sufficiente un
accertamento incidentale da parte del giudice, all’esclusivo scopo di verificare la
legittimazione dell’istante (Cass. s.u. 1521/2013), va aggiunto che la censura incorre in
un limite, che il giudizio di cassazione riserva alla parte che voglia contestare la
motivazione e tuttavia ometta, come nel caso, di indicare tutti i fattori assunti in
istruttoria e determinativi del giudizio espresso dal giudice di merito. L’incompletezza,
come per la censura prima trattata, è evidente ove sia stata del tutto trascurata, come
nella specie, la correlazione fra le vicende degli spostamenti di sede, l’infruttuosità del
pignoramento, l’entità dell’indebitamento complessivo e la formazione anche
esecutiva del credito in capo all’istante.
4. Circa il quarto e ultimo punto del secondo motivo, la censura pecca di genericità
ove avversa il difetto di attività istruttoria ma omette qualsiasi contestazione specifica
sulle sue esplicite risultanze in termini di accertamento del passivo, mentre l’invocata
valenza della “dichiarazione redatta ex arti, comma 248, L. 662/96” dal
commercialista della società non solo risulta dalla sentenza esplicitamente
commentata e destituita di ogni portata anche solo utile all’istruttoria, ma riflette un
ulteriore limite: sia giuridico, avendo omesso il ricorrente di indicare quale portata
fidefaciente o altrimenti probatoria, anche solo indiretta, quella dichiarazione potesse
assumere in concreto o per previsione ordinamentale, nemmeno accennata e sia in
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estensore co

procedura e dall’altro conferiva un significato integrativo e rafforzativo dell’insolvenza
ai mutamenti di sede della debitrice stessa, accompagnati — per il richiamo alla
premessa — all’accesso infruttuoso in sede di pignoramento, al rinvenimento di altri
soggetti alle sedi, al cambio di amministratore. A fronte di tali passaggi argomentativi
inequivoci, il ricorrente ha del tutto omesso in questa sede una puntuale indicazione
del fatto decisivo e controverso in sé (cioè quello la cui Offerente considerazione è idonea a
comportare, con certezza, una decisione diversa, Cass. 18368/2013), errando proprio e già
all’altezza del tipo di censura frapposta alla sentenza, e così mal utilizzando il mezzo
del n.5 del co. 1 dell’art.360 cod.proc.civ. In ogni caso, ed inoltre, per potersi
configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è
necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la
soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se
fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza,
mentre il mancato o non condiviso esame di elementi probatori — che il ricorrente
omette alternativamente di indicare – costituisce vizio di omesso esame di un punto
decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un
giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre
circostanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a
trovarsi priva di base (Cass. 24092/2013). È poi del tutto generica la censura sul
difetto di attività istruttoria, smentita in fatto dalle risultanze sopra citate.

fatto, avendo la stessa società precisato in ricorso che il professionista aveva operato
fino a tutto il 2006, mentre la dichiarazione di fallimento è dell’ottobre 2007 e in tesi
ed al più non avrebbe potuto che dar conto della situazione economico-finanziaria (o
comunque di elementi ad essa collegati) ragguagliata all’attualità della pronuncia
stessa.
Ne consegue il rigetto del ricorso.

La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 ma

015.

P.Q.M.

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