Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14593 del 26/05/2021

Cassazione civile sez. II, 26/05/2021, (ud. 20/01/2021, dep. 26/05/2021), n.14593

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19186-2019 proposto da:

K.S., rappresentato e difeso dall’avv. LUCA SILETTI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS) IN PERSONA DEL MINISTRO

PRO-TEMPORE, PROCURA GENERALE REPUBBLICA CORTE SUPREMA CASSAZIONE;

– intimati –

Avverso la sentenza n. 2140/2018 della Corte d’appello di Torino

depositata il 18/12/2018;

udita la relazione della causa volta nella camera di consiglio del

20/01/2021 dal presidente dottor MANNA Felice.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Dalla narrativa della sentenza impugnata si apprende che K.S., dichiaratosi cittadino (OMISSIS), nato in (OMISSIS) il (OMISSIS), proponeva ricorso innanzi al Tribunale di Torino, avverso la decisione della locale Commissione territoriale, che aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale o umanitaria. A sostegno della domanda, questi deduceva di essere un elettricista professionista e di aver abbondonato il suo Paese per il timore di ritorsioni da parte del partito politico avversario ((OMISSIS)), che lo avrebbe ritenuto responsabile della mancata erogazione dell’energia elettrica nella città di (OMISSIS) mentre era in corso un convegno di detto partito.

Il Tribunale rigettava la domanda.

L’impugnazione proposta dal richiedente era respinta dalla Corte d’appello di Torino con sentenza n. 2140/18, pubblicata il 18.12.2018. Esclusa la protezione internazionale per le contraddizioni e la non plausibilità del racconto fornito, la Corte distrettuale rigettava la domanda anche sotto il profilo della protezione umanitaria, sia per carente allegazione di fatti sussumibili sotto la previsione del T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1 ovvero riconducibili ad altri casi riconosciuti da precedenti di legittimità come legittimanti tale protezione; sia per difetto di radicamento in Italia, atteso che il richiedente svolgeva attività lavorativa e di istruzione nell’ambito del sistema d’accoglienza di cui al D.Lgs. n. 142 del 2015, il cui art. 22 escludeva espressamente che tali attività potessero fondare il riconoscimento d’un titolo di soggiorno.

Avverso tale sentenza propone ricorso, affidato a un unico motivo, K.S., nato in (OMISSIS) il (OMISSIS), assumendo di essere stato erroneamente indicato come K.S. – negli atti di primo e di secondo grado.

Il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Il ricorso è inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, come (re)interpretato da S.U. n. 7155/17.

2. – In disparte che nulla agli atti, se non la mera affermazione di parte ricorrente, accredita il fatto che K.S., nato in (OMISSIS) il (OMISSIS) e K.S., nato in (OMISSIS) il (OMISSIS) siano la stessa persona; ciò a parte, va osservato che l’unico motivo di ricorso, che nel denunciare la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998,

art. 5, comma 6, lamenta la derelizione dei principi espressi da questa Corte con l’ordinanza n. 4455/18 in tema di protezione umanitaria, segnatamente per l’omessa valutazione comparativa tra il grado di integrazione raggiunto in Italia dal richiedente e le ragioni dell’allontanamento di lui dal Paese d’origine, è manifestamente inammissibile.

2.1. – Sostiene, infatti, parte ricorrente, che la Corte territoriale avrebbe dovuto indagare la condizione di vulnerabilità del richiedente in caso di rimpatrio; che tale vulnerabilità “ben potrebbe consistere sia in una deprivazione piena ed effettiva dei diritti umani, sia nella mancanza radicale di condizioni di vita tali da soddisfare i bisogni essenziali dell’individuo” (v. pag. 4 del ricorso); che il relativo accertamento avrebbe dovuto essere operato in maniera rigorosa e pregnante, anche e soprattutto esercitando il potere officioso di cooperazione istruttoria volto a individuare la situazione oggettiva del Paese di provenienza del richiedente; e che, in definitiva, se la Corte distrettuale avesse svolto tali accertamenti ed operato la suddetta valutazione comparativa tra radicamento in Italia e provazione dei diritti, persecuzione e rischio di povertà inemendabile in caso di rimpatrio, la decisione di merito, quantomeno in relazione alla protezione umanitaria, avrebbe dovuto essere diversa.

2.1.1. – Tale doglianza deriva da una non corretta comprensione dei precedenti di questa Corte Suprema.

Ed infatti, il giudizio di comparazione che parte ricorrente lamenta essere mancato nel provvedimento impugnato, presuppone pur sempre la vulnerabilità del richiedente. Questa ricorre in presenza di alcuna delle condizioni di cui al T.U. n. 286 del 1998, art. 19 ovvero nell’ipotesi della c.d. vulnerabilità di ritorno, quale risultato, cioè, di un raggiunto livello di integrazione nel Paese di accoglienza che, rapportato a quello che il richiedente ritroverebbe nel Paese d’origine, faccia prevedere a carico del richiedente la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. n. 4455/18; v. anche e di recente, n.). Solo in presenza di elementi di un’effettiva integrazione tale giudizio comparativo ha ragion d’essere, sicchè correttamente la Corte territoriale, avendo ritenuto che non emergesse nè radicamento nè vulnerabilità, non l’ha operato.

In tema di protezione internazionale, il richiedente ha l’onere di allegare in modo circostanziato i fatti costitutivi del suo diritto circa l’individualizzazione del rischio rispetto alla situazione del paese di provenienza, atteso che l’attenuazione del principio dispositivo, in cui la cooperazione istruttoria consiste, si colloca non sul versante dell’allegazione ma esclusivamente su quello della prova. Ne consegue che solo quando il richiedente abbia adempiuto all’onere di allegazione sorge il potere-dovere del giudice di cooperazione istruttoria, che tuttavia è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente (n. 17185/20).

Infatti, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte (n. 2355/20).

Ne deriva che il richiedente la protezione è o non è vulnerabile in virtù della vicenda personale, che egli ha l’onere di dedurre in maniera ben delineata e circostanziata, e non già del grado di precarietà socio-politica o economica del Paese d’origine, che coinvolge indifferenziatamente chiunque ne provenga.

2.1.2. – Nella specie, non una parola del motivo di ricorso indica se e quali specifici elementi di radicamento in Italia e di vulnerabilità personale siano stati dedotti, nell’erroneo presupposto che valga, per tutto e in sostituzione di qualsivoglia onere deduttivo, il mero raffronto tra la situazione dei due Paesi, quello d’accoglienza e quello d’origine, e la connessa indagine officiosa.

3. – In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile, non offrendo il benchè minimo elemento critico per riconsiderare gli indirizzi giurisprudenziali sopra richiamati.

4. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021

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