Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14593 del 04/07/2011

Cassazione civile sez. VI, 04/07/2011, (ud. 10/06/2011, dep. 04/07/2011), n.14593

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSRZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Luigi – Presidente –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 15105-2010 proposto da:

C.R. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA LUCULLO 3, presso lo studio ADRAGNA – ZAMPONE,

rappresentato dall’avvocato ZAMPONE AUGUSTO giusta procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.G. (OMISSIS), erede universale della sorella

C.I., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato PICONE

GIUSEPPE giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1320/2010 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI del

22/01/10, depositata il 13/04/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/06/2011 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONINO SCALISI;

udito l’Avvocato Zampone Alessandro, delega avvocato Zampone Augusto

difensore del ricorrente che si riporta agli scritti e chiede

l’accoglimento del ricorso;

è presente il P.G. in persona del Dott. UMBERTO APICE che aderisce

alla relazione.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10 giugno 2011 dal Consigliere relatore Dott. A. Scalisi.

Sentito l’avvocato di parte ricorrente;

Sentito il Pubblico Ministero in persona del sostituto del

Procuratore Generale dott. Apice che ha concluso per l'”adesione alla

relazione”.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Rilevato che il Consigliere designato ha depositato in data 3 maggio 2011, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., la seguente proposta di definizione del giudizio:

“Preso atto C.R. in data 12 giugno 2002 conveniva in giudizio C.I. davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per ivi sentire la declaratoria del suo acquisto per usucapione di un fondo rustico in agro – (OMISSIS). Si costituiva C.I. a mezzo della tutrice Co.Io.

che eccepiva che giammai l’attore ha avuto il possesso del bene in questione e quindi mai è cominciato a decorrere per lui il tempo per l’usucapione.

Il Tribunale di Santa Maria C.V. con sentenza n. 90/2006 respingeva la domanda dell’attore perchè non sufficientemente provata.

Proponeva appello C.R..

La Corte di Appello di Napoli con sentenza n. 1320 del 2010, rigettava l’appello e confermava la sentenza di primo grado.Osservava la Corte territoriale che: a) l’attore appellante non aveva provato il suo possesso ad usucapione uti dominus, b) ribadiva – così come aveva dichiarato il Tribunale, l’inammissibilità ed irrilevanza della prova testimoniale dedotta nel primo giudizio.

La cassazione della sentenza della Corte di appello di Napoli è stata chiesta da C.R. con ricorso affidato ad un unico motivo. Ha resistito – C.G. con controricorso.

Considerato che:

1.= Con l’unico motivo C.R. lamenta la violazione e – falsa applicazione degli artt. 1140, 1141, 1158 e 2697 in riferimento all’art. 360 c.p.c. nonchè omessa, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo del processo per avere la Corte di merito ritenuto non provato il possesso ad usucapionem e generici e irrilevanti i capi di prova comunque idonei a dimostrare l’animus possidendi per il possesso ad usucapionem. Avrebbe errato la Corte territoriale secondo il ricorrente: a) nell’aver omesso di valutare che al fine di superare la difficoltà di fornire una prova dell’elemento psicologico qual è l’animus quest’ultimo può essere desunto in via presuntiva dal corpus cioè dal rapporto tra soggetto e cosa concretatosi in attività corrispondenti all’esercizio del diritto di proprietà e del possesso. B) nel non aver escluso che la lunga permanenza sul fondo con l’attività corrispondente all’esercizio di proprietà non poteva essere giustificata da un comportamento di tolleranza sia pure dovuto ai rapporti di parentela; c) per aver ritenuto – e dunque per non aver ammesso – la prova testimoniale richiesta generica e/o irrilevante.

1.1.= Il motivo non merita di essere accolto, perchè al sentenza impugnata ha applicato correttamente la normativa richiamata dalla situazione oggetto di esame e ad un tempo ha adeguatamente indicato le ragioni di fatto e diritto poste a fondamento della decisione adottata;

1.2.= Va qui osservato che il ricorrente evidenzia, correttamente, orientamenti – di questa Corte sia in ordine alla presunzione dell’animus possidendi ove sia dimostrato il corpus e sia in ordine all’esclusione di un possesso legittimato dall’altrui tolleranza nell’ipotesi in cui la situazione possessoria sia prolungata nel tempo.

1.3.= Tuttavia, a parte la considerazione che la valutazione circa la concreta esistenza dei requisiti che rendono il possesso idoneo all’usucapione è riservata al giudice di merito, va qui osservato che la Corte territoriale non ha fondato la sua decisione sugli aspetti della situazione evidenziati dal ricorrente ma sul fatto che il ricorrente non abbia provato il suo possesso ad usucapione uti dominus. D’altra parte, il ricorrente non ha mai indicato l’inizio del suo possesso dato che si è limitato a dichiarare di aver posseduto da oltre vent’anni, ad un tempo non ha dimostrato che il suo potere di fatto sull’immobile in oggetto non fosse legittimato da un comportamento di tolleranza come lascerebbero intendere i rapporti di parentale intercorrenti tra gli stessi. L’espressione di aver posseduto per oltre vent’anni è talmente generica che lascia indeterminati i termini essenziali della fattispecie dell’usucapione, i rapporti di parentela intercorrenti tra gli originari attori e convenuti lasciano ragionevolmente presumere che l’eventuale possesso dichiarato dall’attuale ricorrente fosse esercitato per l’altrui tolleranza anche continuata nel tempo. Era necessaria, insomma, ma non risulta vi sia stata la dimostrazione del come e del quando il ricorrente, originario attore, avesse iniziato a possedere uti dominus non essendo sufficiente a tal fine una semplice dichiarazione di aver posseduto. E’ mancata, in definitiva, la dimostrazione del tempo del possesso e la dimostrazione della qualità di possesso uti dominus di quel potere di fatto che l’attuale ricorrente ha esercitato sull’immobile oggetto del giudizio. D’altra parte è orientamento costante di dottrina e della giurisprudenza anche di questa Corte che il possesso pubblico continuato e indisturbato va dimostrato da chi pretende di aver acquistato il bene per usucapione.

2.2.= Nè la chiesta prova testimoniale nei termini in cui è stata chiesta sarebbe stata idonea a colmare la dimostrazione che il ricorrente era tenuto a dare in ordine al suo possesso uti domini. Il Tribunale prima e la Corte territoriale dopo con motivazione adeguata puntuale e senza alcun vizio logico hanno ritenuto che la prova testimoniale richiesta, per quel che avrebbe potuto offrire alla valutazione del giudice, ammesso pure che avrebbe acclarato quanto il ricorrente si proponeva di acquisire, non sarebbe stata sufficiente a indurre il Giudice ad identificare un possesso uti domino.

Si propone di concludere il presente giudizio di legittimità con ordinanza di rigetto del ricorso perchè infondato”.

Tale relazione veniva comunicata al PM ed ai difensori delle parti costituite.

Letta le memoria del ricorrente.

Il Collegio condivide argomenti e proposte contenute nella relazione ex art. 380 bis c.p.c., non essendo meritevoli di accoglimento le critiche ad essa rivolte dal ricorrente con la memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, e considera;

1.= in via preliminare, infondata l’eccezione di incostituzionalità che il ricorrente ha avanzato con la memoria depositata in prossimità dell’udienza camerale. Secondo il ricorrente gli artt. 375 e 280 bis c.p.c. nella parte in cui prevedono l’avvio del processo alla procedura camerale previa relazione da comunicarsi ai difensori delle parti e al Procuratore Generale, non prevedono che il relatore che, nella relazione abbia già espresso la sua valutazione e preannunciata la sua decisione, si astenga dal far parte del Collegio chiamato alla decisione definitiva, sono costituzionalmente illegittimi perchè in contrasto con l’art. 111 Cost..

1.1= Piuttosto, va qui richiamato e ribadito, per darne continuità, l’orientamento costante di questa Corte espresso in altre occasioni secondo cui “E manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.380-bis c.p.c., comma 1, con riferimento all’art. 52 cod. proc. civ. ed in relazione all’art. 111 Cost., comma 2, nella parte in cui consente che il giudice relatore possa comporre il collegio giudicante, nel giudizio camerale di cassazione. La relazione prevista dall’art. 380-bis cod, proc. civ. si risolve, infatti, in una mera ipotesi di decisione destinata ad essere confermata o meno a seguito del contraddittorio fra le parti e dell’intervento del P.G., sicchè anche in questo caso ricorrono le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nei casi di provvedimento cautelare autorizzato “ante causam” e di successiva cognizione piena di merito (sentenza n. 326 del 1997), di decisione emessa ex art 187-quater cod. proc. civ. (ordinanza n. 168 del 2000), nonchè nel caso di rinvio cosiddetto restitutorio ex art. 354 cod. proc. civ.(sentenza n. 341 del 1998). (vedi Cass. n. 18047 del 2008).

2= Il Collegio, altresì, ad ulteriore chiarimento, specifica che nell’ipotesi in esame il ricorrente non ha dimostrato di aver esercitato rispetto all’immobile in questione un possesso uti dominus, utile all’usucapione del bene oggetto di giudizio. Come lo stesso ricorrente afferma, riportando testualmente per estratto la comparsa di costituzione innanzi al Tribunale, il rapporto di fatto tra il fondo in questione e il ricorrente è sorto e ha continuato nel tempo quale rapporto di affitto. Ammette, pertanto, il ricorrente che in origine il potere di fatto sul fondo in questione esercitato, dal padre prima e dalla madre successivamente, era qualificabile quale detenzione e non già quale possesso uti dominus. Data questa evidenza, per stessa ammissione della parte che chiedeva la dichiarazione dell’avvenuta usucapione, era necessario – ma non è stato detto e soprattutto non è stato dimostrato- da quale tempo e per quale atto o comportamento quella detenzione si fosse trasformata in possesso.

2.1.= Come ha avuto modo di affermare questa Corte in altra occasione (Cass. n. 5551 del 2005) “La presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto non opera, a norma dell’art. 1141c.c., quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione, ma aderivi da un iniziale atto o fatto del proprietario- possessore. Occorre, quindi, per la trasformazione della detenzione in possesso, un mutamento del titolo che non può aver luogo mediante un mero atto di volizione interna, ma deve risultare dal compimento di idonee attività materiali di specifica opposizione al proprietario-possessore, quale, ad esempio, l’arbitrario rifiuto alla restituzione del bene. Non sono, pertanto, sufficienti atti corrispondenti all’esercizio del possesso, che di per sè denunciano unicamente un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene.

2.2.= Così come è orientamento di questa Corte, che qui viene richiamato per darne continuità, quello secondo cui costituisce onere di chi vuoi far valere gli effetti della possessio ad usucapiendum dimostrare l’interversione della detenzione in possesso, essendo all’uopo necessario che il detentore compia degli atti che manifestino inequivocamente al possessore il mutamento del suo anìmus, non essendo pertanto sufficiente la mera prova dell’uso che egli faccia della cosa.

In definitiva il Collegio conferma che il ricorso va rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione così come verranno liquidate con il dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, a favore di C.G., che liquida in Euro 2000,00 oltre Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, nella Camera del consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2011

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