Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14569 del 16/06/2010

Cassazione civile sez. II, 16/06/2010, (ud. 27/04/2010, dep. 16/06/2010), n.14569

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

AZIENDA AGRICOLA PALMA CAMOZZI VERTOVA M.E. & C. s.n.c., in

persona

del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in

forza di procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv. Palma

Domenico e Gabriele Pafundi, selettivamente domiciliata presso lo

studio di quest’ultimo in Roma, viale Giulio Cesare, n. 14-A/4;

– ricorrente –

contro

M.A., M.G., M.E.,

rappresentati e difesi, in forza di procura speciale a margine del

controricorso, dagli Avv. Signorelli Piero e Maurizio Massidda,

selettivamente domiciliati nello studio di quest’ultimo in Roma, via

C. Poma, n. 4, scala E, int. 1;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia n. 992 del 18

novembre 2008;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27 aprile 2010 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti;

sentito, per la ricorrente, l’Avv. Stefano Santarelli, per delega;

sentito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale

dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che il consigliere designato ha depositato, in data 24 febbraio 2010, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ.: “Decidendo la causa promossa dalla Soc. Agricola Palma Camozzi Verteva V.E. contro M.A. per ottenere la condanna alla rimozione, mediante arretramento, della recinzione infissa con calcestruzzo nel canale di irrigazione, nonchè al risarcimento del danno, intervenuti in giudizio M. G. ed E., il Tribunale di Bergamo, sezione di Grumello del Monte, con sentenza in data 5 febbraio 2003, dichiarava la carenza di legittimazione passiva del M. e respingeva le domande dell’attrice, che condannava alle spese di lite e di c.t.u..

La Corte d’appello di Brescia, con sentenza depositata il 13 novembre 2008, ha dichiarato inammissibile per tardività l’appello interposto dalla Azienda Agricola. La Corte territoriale ha premesso che la sentenza di primo grado è stata notificata il 21 maggio 2003 alla parte personalmente (essendosi il procuratore nominato per il primo grado volontariamente cancellato dall’Albo) e che l’atto di gravame è stato notificato il 22 marzo 2004, allorchè era ampiamente spirato il termine di cui all’art. 325 cod. proc. civ.; ed ha precisato che nella relata si legge che l’ufficiale giudiziario da atto di avere notificato la sentenza “All’Azienda Agricola Palma Camozzi Vertova Contessa Maria Edvige & C. s.n.c. in persona del legale rappresentate pro tempore in (OMISSIS) a mani del sig. G.A. incaricato del ritiro delle notifiche esso assente al momento”.

Giudicando sulla validità di detta notifica (avendo l’appellante mosso due contestazioni: che il plico non era stato consegnato presso la sede della società e che il soggetto che l’ha materialmente ricevuto non era incaricato della società per la ricezione della posta), la Corte ha osservato: (a) che l’affermazione dell’ufficiale giudiziario, contenuta nella relata di notifica, di avere consegnato il plico presso la sede della società è esattamente conforme alla realtà degli decadimenti, dovendosi ritenere che il concetto di sede della società non sia limitato ai soli locali in cui si trovano materialmente allocati gli uffici della società stessa ma si estenda – specie laddove la sede coincida, come nella specie, con l’abitazione dell’amministratore e dei soci – anche ai locali alla stessa collegati funzionalmente e nei quali dimorino persone stabilmente addette al servizio della casa; (b) che la mancata assunzione delle prove (per decadenza dalle stesse) dirette a dimostrare che il G. non era addetto alla ricezione della posta non ha consentito di avvalorare l’assunto dell’appellante, sicchè è destinata a rimanere ferma la presunzione di veridicità dell’affermazione dell’ufficiale giudiziario circa la qualità di incaricato del destinatario rivestita dal soggetto cui è stato consegnato il plico.

Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello ha interposto ricorso l’Azienda Agricola, sulla base di un motivo.

Gli intimati hanno resistito con controricorso. L’unico mezzo (violazione e falsa applicazione dell’art. 145 c.p.c., comma 1, nel testo anteriore alla modifica operata dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. c, nn. 1, 2 e 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) si conclude con il seguente quesito di diritto: “agli effetti dell’art. 145 c.p.c., comma 1, nel testo anteriore al 2006, le persone incaricate di ricevere le notificazioni e le persone addette alla sede sociale che possono pure riceverle, debbono essere trovate entro la sede ed il notificatore deve darne atto nella relata di notifica?”.

Il motivo è inammissibile per inidoneità del quesito. E’ noto che, in tema di ricorso per cassazione, la formulazione del quesito prevista dall’art. 366-bis cod. proc. civ. postula l’enunciazione, ad opera del ricorrente, di un principio di diritto diverso da quello posto a base del provvedimento impugnato e perciò tale da implicare un ribaltamento della decisione adottata dal giudice a quo (Cass., Sez. 1, 22 giugno 2007, n. 14682). Ora, il quesito formulato dalla società ricorrente si limita ad affermare che l’art. 145 cod. proc. civ. impone di eseguire le notifiche alle società nel luogo in cui esse hanno la loro sede ed entro la loro sede, ma non coglie, nè tanto meno si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha osservato che la sede della società non è limitata ai soli locali in cui si trovano materialmente allocati gli uffici della stessa, ma si estende – nei casi in cui la sede coincida con l’abitazione dell’amministratore e dei soci -anche ai locali alla stessa collegati funzionalmente e nei quali dimorino persone stabilmente addette al servizio della casa.

Sussistono, pertanto, le condizioni per la trattazione del ricorso in camera di consiglio”.

Letta la memoria di parte ricorrente.

Considerato che il Collegio condivide argomenti e proposte contenuti nella relazione di cui sopra;

che nella memoria – a proposito del requisito di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ. – si rileva che “nel nostro caso il quesito formulato ha scartato la dilatazione di estendere il concetto di sede sociale anche alle abitazioni”;

che, in realtà, dall’espresso tenore del quesito, come sopra riportato, emerge per tabulas che il ricorrente ha posto il seguente interrogativo: se “agli effetti dell’art. 145 c.p.c., comma 1, nel testo anteriore al 2006, le persone incaricate di ricevere le notificazioni e le persone addette alla sede sociale che possono pure riceverle, debbono essere trovate entro la sede ed il notificatore deve darne atto nella relata di notifica”;

che questa Corte ha in più occasioni chiarito che i quesiti di diritto imposti dall’art. 366-bis cod. proc. civ. – introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 secondo una prospettiva volta a riaffermare la cultura del processo di legittimità – rispondono all’esigenza di soddisfare non solo l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata ma, al tempo stesso e con più ampia valenza, anche di enucleare il principio di diritto applicabile alla fattispecie, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione; i quesiti costituiscono, pertanto, il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando, altrimenti, inadeguata e, quindi, non ammissibile l’investitura stessa del giudice di legittimità (tra le tante, Cass., Sez. Un., 6 febbraio 2009, n. 2863; Cass., Sez. Un., 14 febbraio 2008, n. 3519; Cass., Sez. Un., 29 ottobre 2007, n. 22640);

che per questo – la funzione nomofilattica demandata al giudice di legittimità travalicando la risoluzione della singola controversia – il legislatore ha inteso porre a carico del ricorrente l’onere imprescindibile di collaborare ad essa mediante l’individuazione del detto punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del più generale principio giuridico, alla quale il quesito è funzionale, diversamente risultando carente in uno dei suoi elementi costitutivi la stessa devoluzione della controversia ad un giudice di legittimità: donde la comminata inammissibilità del motivo di ricorso che non si concluda con il quesito di diritto o che questo formuli in difformità dai criteri informatori della norma;

che il quesito di diritto non può essere desunto per implicito dalle argomentazioni a sostegno della censura, ma deve essere esplicitamente formulato, diversamente pervenendosi ad una sostanziale abrogazione della norma (Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9153);

che, pertanto, il motivo è inammissibile, perchè non si conclude con un quesito che individui tanto il principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato, quanto, correlativamente, il principio di diritto, diverso dal precedente, la cui auspicata applicazione ad opera della Corte medesima possa condurre ad una decisione di segno inverso rispetto a quella impugnata;

che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

che le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dai controricorrenti in solido, che liquida in complessivi Euro 2.700, di cui Euro 2.500 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2^ Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 27 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2010

 

 

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