Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14563 del 26/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 26/05/2021, (ud. 09/02/2021, dep. 26/05/2021), n.14563

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

Dott. PANDOLFI Catello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25705/2014 R.G. proposto da:

R.S., rappresentato e difeso, giusta mandato a margine

del ricorso, dall’Avv. Zanardini Massimo, elettivamente domiciliato

presso il suo studio in Brescia, via Aurelio Saffi n. 5;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, n. 1021/63/2014, depositata il 2S febbraio 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 febbraio

2021 dal Consigliere D’Orazio Luigi.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1.La Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva l’appello presentato dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Brescia (n. 145/7/2011), che aveva accolto il ricorso presentato da R.S., socio accomandante, contro l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate nei suoi confronti, per l’anno 2005, ai fini Irpef, con cui erano stati qualificati “redditi diversi”, provenienti da atto illecito, quelli relativi all’attribuzione pro quota delle somme distratte dalla società Cotonificio R. sas, di cui era socio al 49,66%, unitamente alla madre ed a suo fratello. In particolare, il giudice d’appello rilevava che vi era stata distrazione di somme dalla cassa della società cotonificio R. s.a.s. per la somma di Euro 5.465.759,00 (attribuite al contribuente per la somma di 2.714.295,00, oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 1.200.920,00), come emergeva inequivocabilmente dalle dichiarazioni di R.F. in ordine ai rapporti con la Bilco s.n. c, dalla comparazione con la documentazione contabile della Officine Valsecchi s.a.s. e dalle osservazioni del curatore del fallimento di quest’ultima società, nonchè dalla relazione redatta dal curatore fallimentare della Cotonificio R. Sas, oltre che dalla sentenza pronunciata dal gip presso il tribunale di Bergamo n. 1152 del 2009, con a quale, in sede di giudizio abbreviato, era stata ritenuta “raggiunta la prova dei fatti distrattivi contestati”, con assoluzione del contribuente con la formula “per non aver commesso il fatto”. La Commissione regionale, però, rilevava che la valutazione del giudice penale non si era incentrata sull’esistenza di un eventuale beneficio derivante da reato di bancarotta fraudolenta commessa dal socio-amministratore. Trattandosi di società costituita da soli tre soci, tutti legati tra loro da uno stretto rapporto familiare (“la madre i suoi due figli”), nella quale R.S. era intestatario di una quota quasi maggioritaria, doveva applicarsi il principio giurisprudenziale in base al quale, nel caso di società di persone nonchè di quelle di capitali a ristretta base azionaria, operava presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili, salva la prova contraria e la dimostrazione che maggiori ricavi erano stati accantonati o reinvestiti. Tale prova non era stata fornita dal contribuente, anzi, non risultava che questi avesse attivato un’azione risarcitoria nei confronti dell’autore della distrazione sicchè doveva ritenersi provato, almeno a livello presuntivo, che di tale distrazione egli avesse usufruito.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente, depositando anche memoria.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1.Con un unico motivo di impugnazione il contribuente deduce la “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 53 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. In particolare, il ricorrente rileva che, qualora sia accertata a carico di una società di persone o di capitali l’esistenza di utili occulti, non si può automaticamente desumere la riscossione degli stessi ad opera dei soci, essendo ipotizzabili con uguale grado di probabilità, conclusioni diverse. Si fa riferimento, per esempio, alla creazione di riserve occulte da destinare agli usi più diversi, l’appropriazione indebita degli utili da parte di amministratori e/o soci disonesti, all’insaputa degli altri soci, o la loro destinazione alla creazione di fondi occulti per il pagamento di poste passive non contabilizzate. L’argomento della ristrettezza della base societaria, quale esclusivo fatto noto, non riveste, quindi, di per sè alcuna valenza probatoria perchè non sempre può assurgere a spia dell’avvenuta distribuzione reale a tutti i soci in proporzione alle loro quote di partecipazione, dei maggiori utili non contabilizzati. Anche il vincolo familiare fra i soci, non può essere elemento dimostrativo dell’esistenza della complicità fra di loro, sulla cui base ritenere, poi, logica la presunzione di distribuzione degli utili occulti è soci. Del resto, la sentenza del gip presso il tribunale di Bergamo, n. 1152 del 2009, divenuta irrevocabile in data 29 dicembre 2009, evidenzia che dalla relazione del curatore non emerge alcuna attività gestatoria dell’imputato, essendo sempre citato quale autore di tutta l’attività sociale il solo R.E., pur risultando formalmente amministratore solo dal 3 febbraio 2004. Deve presumersi, allora, che il ricorrente, ignaro dell’attività svolta dal fratello R.E., non abbia tratto alcun beneficio dalla distrazione di denaro dalle casse sociali. Deve essere, allora, l’Amministrazione finanziaria a fornire la prova della reale percezione del maggior reddito societario da parte dei soci. Non è stato fornito alcun elemento idoneo a dimostrare che R.S. ha ricevuto utili extracontabili e nella esatta proporzione della sua quota di partecipazione. Ne vi è stata una verifica della movimentazione bancaria del contribuente. In assenza di riscontri sulla presunta distribuzione degli utili al socio vi sarebbe anche violazione dell’art. 53 Cost., posto che si viene a sottoporre a tassazione una ricchezza meramente presunta e, in quanto tale priva del requisito di effettività. L’argomento della ristrettezza della base societaria o del vincolo familiare non ha, da solo, valenza probatoria.

1.1. Il motivo è infondato.

1.2.Invero, è pacifico che ci si trovi dinanzi ad una società di persone e non ad una società di capitali a ristretta base societaria.

Pertanto, trova applicazione il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5 in base al quale “i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”, con la precisazione, all’art. 5, comma 2, che “le quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate al valore dei conferimenti dei soci se non risultano determinate diversamente dall’atto pubblico o dalla scrittura privata autenticata di costituzione o da altro atto pubblico o scrittura autenticata di data anteriore all’inizio del periodo di imposta; se il valore dei conferimenti non risulta determinato, le quote si presumono uguali”.

1.3. Tale modalità di tassazione si basa sul principio di “trasparenza”, ossia mediante imputazione diretta dei redditi prodotti dalle società ai propri soci, senza necessità di alcuna delibera di distribuzione degli utili.

I redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 3, sono considerati redditi di impresa, da qualunque fonte provengano e qualsiasi sia l’oggetto sociale, e devono quindi essere unitariamente determinati; ciò a differenza dei redditi della società semplice alle quali è precluso l’esercizio di attività commerciale ed il cui reddito è determinato come sommatoria di tutti i redditi posseduti, come avviene per le persone fisiche, non potendo produrre redditi di impresa.

Le società di persone, residenti in Italia, non sono, quindi, assoggettate ad alcuna imposta sul reddito (Irpef o IRES), mentre lo sono ai fini Irap. Il reddito da esse prodotto è automaticamente ripartito tra i soci, in capo ai quali avviene poi la tassazione. Il principio di trasparenza comporta, allora, che non solo il reddito, ma anche eventuali perdite, ritenute e crediti di imposta, siano imputati ai soci, come se la società non avesse rilevanza ai fini fiscali. Va chiarito, peraltro, che la società deve, in ogni caso, adempiere agli obblighi fiscali relativi alla determinazione del corretto reddito da imputarsi ai propri soci, di cui è autonomamente responsabile.

Il metodo della “trasparenza” indica uno fra i possibili modi per evitare la “doppia imposizione” dei redditi prodotti in forma collettiva. In particolare, esso consiste nel non considerare soggetti passivi dell’imposta personale gli stessi enti collettivi, imputando direttamente ai soci il reddito prodotto.

Il principio di trasparenza non si applica, invece, alle società di persone non residenti nel territorio dello Stato, che sono considerate soggetti passivi dell’IRES, D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 73, comma 1, lett. d, in considerazione della difficoltà per il fisco di reperire i soci di una società non residente.

1.4. La trasparenza delle società di persone costituisce una sorta di presunzione legale di percezione degli utili, che il socio deve evidenziare nella propria dichiarazione. Pertanto, l’eventuale accertamento di un maggiore reddito in capo alla società comporta il diretto trasferimento del rischio fiscale in capo ai soci che, proporzionalmente e per presunzione di legge, sono titolari di tali redditi a prescindere dalla percezione degli stessi.

Del resto, mentre per le società di capitali è necessaria una formale delibera di approvazione del bilancio e di successiva distribuzione degli utili, per le società di persone non è prevista alcuna particolare formalità e ciò consente, anche sotto il profilo costituzionale, di imputare loro direttamente il risultato dell’attività dell’impresa collettiva.

1.5.La Corte costituzionale, sul punto, ha ritenuto che la diretta imputazione del reddito ai soci di società di persone è la conseguenza logica immediata del principio accolto dal legislatore tributario di “immedesimazione” esistente tra società a base personale e singoli soci che la compongono, per cui non è configurabile una soggettività distinta, separata o disgiunta della società rispetto ai soci (Corte Cost., 17 settembre 2020, n. 201). I soci sono chiamati a contribuire alle pubbliche spese in relazione ad un incremento patrimoniale realizzato per effetto dell’attività sociale, rispetto al quale hanno un onere e un potere di controllo, ai sensi degli artt. 2261 e 2320 c.c., che, da un lato, li pone giuridicamente in grado di avere piena conoscenza di tale incremento patrimoniale e, dall’altro, rende irrilevante, a questi fini, la distinzione tra soci amministratori e non amministratori.

Nè vi è violazione dell’art. 53 Cost., ossia del principio di capacità contributiva, in quanto il meccanismo di imputazione per “trasparenza” dei redditi prodotti dalla società di persone non costituisce una contraddizione rispetto alla nozione generale di presupposto di imposta fissata dall’art. 1 TUIR (“possesso di redditi in denaro o in natura”), ma una particolare manifestazione di questo in riferimento a una specifica fattispecie. Deve, quindi, ritenersi che nell’attuale sistema tributario non è arbitrario per il legislatore individuare come indice di capacità contributiva la “relazione” tra il presupposto ed il soggetto passivo, attraverso la diretta imputazione al socio “per trasparenza” del reddito prodotto in forma associata, indipendentemente dalla percezione.

1.6. In giurisprudenza è stato, peraltro, affrontato anche il tema dell’illecito commesso dagli amministratori di società di persone.

Si è affermato, infatti, che il reddito realizzato da una società di persone in conseguenza dell’attività delittuosa di taluni soci va imputato a tutti i soci, in proporzione della rispettiva quota, a nulla rilevando che taluni di essi non abbiano concorso nel reato (Cass. sez. 5, 11 giugno 2007, n. 13575).

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 6 (” dichiarazione delle società semplici, in nome collettivo, in accomandita semplice ed equiparate”) prevede al comma 1 che “le società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice indicate nel testo unico delle imposte sui redditi approvato con D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, le società e le associazioni ad esse equiparate a norma dello stesso articolo devono presentare la dichiarazione agli effetti dell’imposta locale sui redditi da esse dovuta, agli effetti dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche dovute dai soci o dagli associati”. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 40, con riferimento alla rettifica delle dichiarazioni dei soggetti diversi dalle persone fisiche, prevede al comma 2 che “alla rettifica delle dichiarazioni presentate dalle società e associazioni indicate nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, si procede con unico atto ai fini dell’imposta locale sui redditi dovuta dalle società stesse e ai fini delle imposte sul reddito delle persone fisiche o delle persone giuridiche dovute dai singoli soci o associati”.

Si è, dunque, ritenuto che il D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 6 e 40, costituiscono un corollario del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5. Da tali norme si ricava una sorta di automatica correlazione, nella fase della denuncia e dell’accertamento, tra il reddito della società di persone e quello di partecipazione del singolo socio; sicchè la dichiarazione di quest’ultimo, per la sua quota di partecipazione, è conseguenza delle dichiarazioni della società, mentre l’accertamento in rettifica sul reddito societario dispiega direttamente i suoi effetti anche sul rapporto tributario del socio. Ne consegue che è irrilevante che, nell’ambito societario, le attività illecite siano state perpetrate solo da alcuni soci. Infatti, le conseguenze di carattere penale non potranno che essere esclusivamente personali, ma dal punto di vista fiscale ciascun socio deve dichiarare la propria quota di reddito di partecipazione, anche se derivante da attività illecita posta in essere da altro socio (Cass., n. 13575/2007 cit.).

Le società di persone, allora, pur essendo in senso sostanziale prive di soggettività passiva, almeno ai fini delle imposte sui redditi, in quanto le stesse sono dotate di autonoma soggettività passiva ai fini Irap, mantengono tale “soggettività”, dal punto di vista “formale” e “procedimentale”, in quanto permangono in capo alla società tanto gli obblighi strumentali legati alla presentazione della dichiarazione dei redditi, quanto la soggettività passiva ai fini dell’eventuale successivo accertamento.

1.7.Per questa Corte, in tema d’imposte sui redditi delle società di persone, l’imputazione proporzionale dei redditi della società ai singoli soci, prevista dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5, in quanto indipendente dall’effettiva percezione degli utili e dalla stessa partecipazione del socio alla gestione sociale, non è esclusa dal carattere illecito dell’attività posta in essere dall’amministratore della società: lo svolgimento di tale attività in violazione di norme organizzative o di legge non comporta infatti l’interruzione del rapporto organico – sempre che gli atti posti in essere siano comunque pertinenti all’azione della società e rispondano ad un interesse riconducibile, anche indirettamente, all’oggetto sociale -, nè la nullità degli atti compiuti, ma solo l’inefficacia o l’inopponibilità degli stessi ai terzi, che può essere fatta valere solo dalla società, con la conseguenza che, qualora quest’ultima abbia ratificato l’illegittimo operato dell’amministratore, resta irrilevante ogni questione relativa all’estraneità dell’atto all’oggetto sociale (Cass., sez. 5, 4 agosto 2006, n. 17731).

Si è, dunque, in presenza di una presunzione legale di percezione degli utili. Si tratta di una conseguenza logica del principio, accolto dal legislatore tributario, della “immedesimazione” esistente tra società a base personale e singoli soci; rispetto al Fisco, le società di persone si pongono come uno schermo, dietro il quale operano i soci, che hanno poteri di direzione, di gestione e di controllo, anche quando non ne sono amministratori (Cass., sez.un., 8 gennaio 1993, n. 125)

Il presupposto di imposta per la tassazione dei redditi prodotti in forma associata è costituito dal reddito prodotto dalla società; la relativa obbligazione tributaria ricade su ciascun socio, il quale è tenuto al pagamento dell’imposta, non perchè ha percepito la quota di spettanza, ma per il suo status di socio, in quanto beneficia dell’incremento di ricchezza della società (Cass., 2 agosto 2002, n. 11550).

1.8. Peraltro, i soci delle società di persone hanno, comunque, l’obbligo di controllare l’operato degli altri soci che siano anche amministratori. Infatti, per questa Corte, il maggior reddito risultante dalla rettifica operata nei confronti di una società di persone, ed imputato al socio ai fini dell’IRPEF, giusta il D.P.R. n. 597 del 1973, art. 5 (poi sostituito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5), in proporzione della relativa quota di partecipazione, comporta anche l’applicazione allo stesso socio della sanzione per infedele dichiarazione prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 46, la cui irrogazione, non fondandosi solo sull’elemento della volontarietà ma anche su quello della colpevolezza, non si pone in contrasto con il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, consistendo la colpa, per i soci non amministratori, nell’omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo sullo svolgimento degli affari sociali e di consultazione dei documenti contabili nonchè del diritto ad ottenere il rendiconto dell’attività sociale, e, per i soci amministratori, nell’omesso o insufficiente esercizio dei poteri di gestione, direzione e controllo dell’attività sociale (Cass., sez. 6-5, 13 aprile 2017, n. 9637; Cass., sez. 5, 17 novembre 2006, n. 24547).

Il socio di società di persone che non abbia dichiarato, per la parte di sua spettanza, il reddito societario, nella misura risultante dalla rettifica operata dall’amministratore finanziaria a carico della società ai fini ILOR, è tenuto, oltre che al pagamento del supplemento d’imposta, alla pena pecuniaria per infedele dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 46, dovendosi tenere conto che la pena viene applicata per la semplice volontarietà della condotta, indipendentemente dalla sussistenza del dolo, e ciò anche nel caso di società in accomandita, permanendo il diritto di controllo del socio nei confronti dell’operato dell’amministratore, nonchè ovviamente il diritto del socio a contestare il maggior reddito accertato nei confronti della società di cui è partecipe (Cass., sez. 5, 30 agosto 2006, n. 18820; Cass., sez. un., 125/1993; Cass., n. 7549/2004; Cass. N. 3890/95; Cass. N. 2554/97).

9

1.9.Si è precisato che del tutto peculiare è poi il rapporto tra soci nelle società di persone a ristretta base familiare. Infatti, si è ritenuto che, in tema di accertamenti sui redditi di società di persone a ristretta base familiare, l’Ufficio finanziario può legittimamente utilizzare, nell’esercizio dei poteri attribuitigli dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, le risultanze di conti correnti bancari intestati ai soci, riferendo alla società le operazioni ivi riscontrate, perchè la relazione di parentela tra i soci è idonea a far presumere la sostanziale sovrapposizione tra interessi personali e societari, identificandosi gli interessi economici in concreto perseguiti dalla società con quelli propri dei soci, salva la facoltà dell’ente di dimostrare l’estraneità delle singole operazioni alla comune attività d’impresa (Cass., sez. 5, 21 novembre 2018, n. 30098; Cass., sez. 5, 15 marzo 2013, n. 6595).

2.Non è, invece, sorta contestazione alcuna tra le parti in ordine alla avvenuta distrazione delle somme detenute nella cassa della società.

Inoltre, la circostanza che in sede penale sia stato accertato, con sentenza passata in giudicato, in sede di giudizio abbreviato, che il contribuente non ha partecipato al reato da cui è scaturito il maggiore reddito accertato, non esclude ovviamente che tale maggior reddito sia stato percepito dal contribuente. Anzi, proprio il principio di trasparenza di cui al D.P.R. n. 917 1986, art. 5, impone di considerare che tale maggiore reddito sia stato percepito dal R..

3.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza a carico del ricorrente, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 13.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021

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