Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14552 del 12/06/2017

Cassazione civile, sez. un., 12/06/2017, (ud. 06/06/2017, dep.12/06/2017),  n. 14552

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente di Sez. –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al N.R.G. 4847 del 2017 proposto da:

Dott.ssa S.C., rappresentata e difesa dagli Avvocati

Piero Sandulli, Franco Gaetano Scoca e Alberto Biffani, con

domicilio eletto nello studio del primo in Roma, via F. Paulucci Dè

Calboli, n. 9;

– ricorrente –

contro

MINISTRO DELLA GIUSTIZIA, rappresentato e difeso, per legge,

dall’Avvocatura generale dello Stato, e presso gli Uffici di questa

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– resistente –

e contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimato –

avverso la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio

superiore della magistratura n. 2/2017 pronunciata l’8 novembre 2016

e depositata in segreteria in data 16 gennaio 2017.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 6

giugno 2017 dal Consigliere Dott. Alberto Giusti;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati Piero Sandulli e Franco Gaetano Scoca e l’Avvocato

dello Stato Giovanni Palatiello.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – La Dott.ssa S.C. è stata incolpata dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. e), per avere, in violazione del dovere di correttezza, interferito ingiustificatamente nell’attività giudiziaria svolta dalla Dott.ssa D.R.M., componente del collegio del Tribunale del riesame di Perugia, nei procedimenti iscritti ai nn. 28, 29, 31, 32, 38 e 49/2013. In particolare la Dott.ssa S. avrebbe rivolto insistenti e pressanti richieste di informazioni in ordine alla natura della propria posizione processuale a seguito del trasferimento per competenza ex art. 11 c.p.p., del procedimento n. 22644/2009 R.G.N.R. dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia, nonchè in ordine allo status del suo ex compagno R.P., con particolare riferimento alla sua posizione de libertate. Secondo l’addebito disciplinare, l’interferenza era compiuta sia attraverso contatti diretti, sia, in misura maggiore, attraverso l’intercessione di una amica comune, l’arch. C.S., e mirava ad ottenere un alleggerimento, da parte del Tribunale del riesame di Perugia, delle imputazioni mosse nei confronti del R., dal quale la Dott.ssa S. aveva avuto un figlio: un interessamento ed una interferenza che avevano quale fine per un verso le sorti del padre del bambino di appena tre anni, e per l’altro quello di ottenere decisioni favorevoli agli indagati che le avrebbero giovato con riferimento alla sua eventuale posizione processuale di indagata.

2. – Con sentenza n. 2 del 2017, pronunciata l’8 novembre 2016 e depositata il 16 gennaio 2017, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha dichiarato la Dott.ssa S. responsabile dell’illecito disciplinare ascrittole e l’ha condannata alla sanzione della rimozione.

2.1. – Respinta l’eccezione di inutilizzabilità ed incompletezza o inattendibilità del materiale probatorio costituito dalle intercettazioni poste a base dell’incolpazione, il giudice disciplinare ha rilevato che la lettura complessiva delle conversazioni intercettate non lascia dubbi sulla prova dell’esistenza di una articolata condotta di interferenza compiuta dalla Dott.ssa S., giudice del Tribunale di Roma, nell’attività giudiziaria della D.R., giudice del Tribunale di Perugia, competente ex art. 11 c.p.p.. Nel caso di specie – ha affermato la Sezione disciplinare – sono risultati provati chiaramente reiterati interventi concretamente idonei, secondo un giudizio ex ante, a modificare e a turbare il corretto e regolare svolgimento delle decisioni cui la Dott.ssa D.R. doveva contribuire, nella qualità di componente del collegio del Tribunale del riesame di Perugia.

Quanto alla sanzione, la Sezione disciplinare ha motivato l’applicazione di quella massima della rimozione tenendo conto sia della gravità della condotta, reiterata e prolungata nel tempo, sia, in particolar modo, della personalità della incolpata, soprattutto in relazione ai precedenti disciplinari che l’hanno coinvolta, che ne fanno “un soggetto non più meritevole di far parte dell’ordine giudiziario a cui, diversamente, continuerebbe ad apportare discredito, ledendone il complessivo prestigio e pregiudicandone i valori costituzionali di autonomia ed indipendenza”.

3. – Per la cassazione della sentenza della Sezione disciplinare la Dott.ssa S. ha proposto ricorso, sulla base di quattro motivi.

Il Ministro della giustizia ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative in prossimità dell’udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Va preliminarmente rilevato che, per effetto del rigetto, con sentenza pubblicata in data odierna, del ricorso per cassazione iscritto al NRG 5513 del 2017, proposto dalla Dott.ssa S.C., è passata in cosa giudicata la decisione della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura n. 9 del 2017 che, in relazione ad altri illeciti, l’ha condannata alla sanzione della rimozione.

Poichè, tuttavia, la cessazione del rapporto di servizio, determinata dalla irrogazione della sanzione disciplinare massima, presuppone che la rimozione venga attuata mediante decreto del Presidente della Repubblica, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 11, allo stato non si è ancora verificata, in questo procedimento relativo ad altro illecito disciplinare, la condizione comportante la cessazione della materia del contendere e l’inammissibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, del ricorso per cassazione proposto contro la sentenza n. 2 del 2017 della Sezione disciplinare (cfr. Cass., Sez. U., 19 dicembre 2009, n. 26811; Cass., Sez. U., 1 dicembre 2010, n. 24034).

2. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 24 e 111 Cost., art. 101 c.p.c. e artt. 268, 270, 271, 431 e 416 c.p.p., in relazione alla dichiarazione di utilizzazione di brogliacci di intercettazioni telefoniche depositate dal Procuratore generale, non ritenute di interesse nel procedimento penale nel quale l’attività di intercettazione è stata svolta, nonostante (a) la loro incompletezza per deposito (e conseguente acquisizione) solo parziale, (b) il mancato consenso delle parti in ordine alla loro acquisizione, (c) il mancato deposito (e conseguente non acquisizione) agli atti delle bobine o cassette su cui le conversazioni sarebbero state registrate, con violazione del diritto all’ascolto dell’incolpata.

Il secondo mezzo lamenta la mancata assunzione di prova decisiva, espressamente richiesta dall’incolpata, anche nel corso dell’istruzione dibattimentale, relativa all’acquisizione di tutti i brogliacci delle intercettazioni telefoniche disposte e, in subordine, dei brogliacci delle uniche due intercettazioni telefoniche della Dott.ssa S. con la collega D.R..

2.1. – I motivi – che possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro stretta connessione – sono infondati.

Le intercettazioni effettuate in un procedimento penale sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purchè siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p., norma quest’ultima riferibile al solo procedimento penale deputato all’accertamento delle responsabilità penali dell’imputato o dell’indagato, nel quale si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale (Cass., Sez. U., 12 febbraio 2013, n. 3271; Cass., Sez. U., 16 febbraio 2015, n. 3020).

Pertanto, la circostanza che le intercettazioni, legittimamente disposte nel procedimento penale, non siano state ritenute di interesse in quel procedimento ai fini dell’esercizio dell’azione penale o nell’ambito di una specifica contestazione processuale, non ne preclude l’utilizzabilità in sede disciplinare, ben potendo la Sezione disciplinare del CSM porre a base della propria pronuncia anche le risultanze di intercettazioni che, legittimamente autorizzate ed eseguite, siano rimaste nel fascicolo del pubblico ministero senza essere confluite in un processo penale a carico del magistrato medesimo.

Quanto alla mancanza di trascrizioni integrali, alla mancanza di consenso dell’incolpata alla utilizzazione dei brogliacci e alla mancanza in atti delle bobine o cassette su cui le conversazioni sono state registrate, non sono configurabili le violazioni di legge denunciate dalla ricorrente.

Per un verso, infatti, nel procedimento disciplinare a carico del magistrato è utilizzabile anche la documentazione che dia conto sinteticamente del contenuto delle comunicazioni intercettate nell’ambito di un procedimento penale, sempre che non emerga – a seguito di specifica contestazione dell’incolpato che abbia richiesto una verifica in tal senso mettendo in dubbio l’affidabilità della indicazione per sunto – la sussistenza di una qualche difformità della trascrizione riassuntiva rispetto ai relativi supporti audio (bobine o cassette). Ma nella specie, come risulta dalla sentenza impugnata, nessun rilievo è stato operato specificamente, quanto alla affidabilità delle indicazioni in sintesi, dalla difesa dell’incolpata, la quale non ha messo in discussione alcuna intercettazione nè richiesto una verifica sui supporti audio originali; e nel ricorso per cassazione la genuinità dei brogliacci è stata messa in dubbio sotto altro profilo, ossia per il fatto, di per sè non rilevante, che “l’oggetto di questo procedimento disciplinare” non ha avuto uno sbocco in un “processo penale” (v. pag. 8 del ricorso).

Per altro verso, e quanto alla mancata acquisizione di tutte le intercettazioni disposte nel procedimento penale, sul presupposto della incompletezza di quelle presenti nel fascicolo disciplinare, la censura difetta di specificità, perchè non indica quale richiesta mirata, cioè indirizzata verso ben determinate conversazioni intercettate, sia stata esercitata nel giudizio che si è svolto dinanzi alla Sezione disciplinare del CSM, con la deduzione della rilevanza contenutistica, e pertanto della decisività, di dette intercettazioni. Si sottrae, pertanto, ai rilievi mossi con il ricorso la statuizione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui la, non meglio precisata, affermazione della presenza di numerosissime altre intercettazioni senza alcuna specificazione nè richiesta selettiva, non può essere considerata una istanza di integrazione probatoria per la sua genericità e per il mancato rispetto dei canoni della pertinenza e della rilevanza che devono sostenere ogni richiesta probatoria.

3. – Con il terzo motivo (violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. e) la ricorrente deduce che la sentenza impugnata ometterebbe di dare conto che le conversazioni intercettate non intercorrevano tra la Dott.ssa S. e la collega D.R., ma tra l’incolpata e l’arch. C. e che, nelle conversazioni in questione, la Dott.ssa S. non istruiva la comune amica alla formulazione di richieste alla collega magistrato, ma si sfogava con lei lamentandosi di non riuscire a parlare con il proprio avvocato, di non avere contatti neppure con i familiari del suo ex compagno, in sostanza di trovarsi da sola, senza sapere cosa stesse accadendo, con un ragazzo adolescente ed un bambino ancora piccolo, con la “sorpresa” poi di essere destinataria di minacce di morte, che, dopo essere state denunciate in (OMISSIS), si domandava se dovessero essere portate a conoscenza dell’Autorità giudiziaria di Perugia, non potendosi escludere una loro riferibilità ai fatti ivi investigati. Sarebbe stata l’arch. C. a prendere l’iniziativa, turbata dalla disperazione dell’incolpata, di contattare la sua amica D.R., cui peraltro non avrebbe mai richiesto alcunchè, ma solo rappresentato la situazione di disperazione della comune amica. Ad avviso della ricorrente, non vi sarebbe traccia di interferenza nè di ingerenza – neppure in astratto nell’operato della Dott.ssa D.R.. Non vi sarebbe stata alcuna richiesta di indulgenza da parte della Dott.ssa S. nei confronti della collega, e di ciò sarebbero prova gli esiti del processo penale, conclusosi con provvedimenti alla cui redazione la Dott.ssa D.R. neppure ha partecipato, nè nei riguardi della stessa Dott.ssa S. nè degli altri coindagati. Ad avviso della ricorrente, il materiale probatorio posto a fondamento del provvedimento di rimozione sarebbe assolutamente parziale e fuorviante, per come accertato dalla stessa Sezione disciplinare in procedimento analogo, nel quale la Dott.ssa D.R. è stata assolta dall’illecito di divulgazione di notizie riservate.

3.1. – Il motivo è infondato.

La Sezione disciplinare del CSM ha valutato, con approfondita disamina, il compendio probatorio, fornendo una esauriente e convincente motivazione sia sulla pressante richiesta di informazioni, rivolta dall’incolpata, anche tramite l’arch. C., alla collega D.R., sulla propria posizione processuale e su quella di R.P., sia in ordine all’interferenza per ottenere un alleggerimento delle posizioni processuali di quest’ultimo e degli altri coindagati.

Ed invero, la sentenza impugnata ha tratto le proprie argomentate conclusioni dai seguenti elementi:

dal contatto telefonico fra la Dott.ssa S. e l’arch. C., nel corso del quale la prima esplicitamente faceva riferimento al trasferimento del procedimento a Perugia, ed alla necessità che fosse inoltrata alla giudice D.R. un’e-mail esplicativa della vicenda: contatto telefonico ritenuto dalla Sezione disciplinare idoneo ad evidenziare la piena consapevolezza dell’antigiuridicità della condotta da parte del magistrato, che si prefigurava la più utile opportunità di una “triangolazione” che prevedesse che almeno i primi contatti fossero tenuti da un soggetto estraneo all’ordine giudiziario ed in rapporti di maggior confidenza con la destinataria delle richieste di informazione e delle pressioni indebite;

– dagli scambi di e-mail e di messaggi tra la stessa Dott.ssa S. e la Dott.ssa D.R., alcuni dei quali ad orari indicativi di una confidenza stretta tra le due interlocutrici;

– dalla “intensa e frenetica rete di contatti telefonici ed informatici”, intrapresa dalla Dott.ssa S., sia in via diretta che, soprattutto, per interposta persona (la “comune amica” Dott.ssa C.), nei confronti della Dott.ssa D.R., pur con l’adozione di alcune forme di accortezza nelle comunicazioni (come ad es. l’uso del telefono fisso anzichè il cellulare), raccomandate e suggerite anche da parte della stessa giudice D.R.: complesso delle intercettazioni dalle quali emerge “senza ragionevole dubbio” “l’esistenza di contatti fra i due magistrati, diretti e per intercessione della comune amica arch. C., volti a fornire alla S. informazioni indebite sullo stato delle procedure, sulla natura delle contestazioni e sulle specifiche posizioni processuali, nell’ambito di una più ampia condotta di interferenza con l’attività giudiziaria in corso da parte della D.R. e del Tribunale di Perugia più in generale”, le quali “venivano riferite a prescindere dal deposito dei provvedimenti e, dunque della loro pubblicità o conoscibilità, ed avevano ad oggetto anche lo specifico contenuto delle dichiarazioni rese da alcuni dei protagonisti della vicenda”;

ancora, dalle numerose conversazioni di sollecitazione alla giudice D.R., soprattutto tramite la Dott.ssa C., per ottenere un alleggerimento, da parte del Tribunale del riesame di Perugia, delle imputazioni mosse nei confronti del R. (ex compagno della S.) e degli altri coindagati, con l’insistenza della S. – convinta che decisioni “favorevoli” in generale agli indagati le avrebbero giovato direttamente nel sostenere l’erroneità giuridica dell’imputazione di peculato elevata nei loro confronti e l’auspicio, quantomeno, della derubricazione in quella di truffa aggravata, nonchè l’adozione di una misura cautelare gradata nei confronti del R..

Il giudice disciplinare ha ritenuto tali conversazioni “inequivocabili” in ordine alla interferenza posta in essere dalla S. per il tramite della C., addirittura attraverso la sollecitazione a rivalutare la qualificazione giuridica dei fatti, utile, oltre che in relazione alla pena, sia in chiave di possibile futura prescrizione, sia per l’alleggerimento della posizione cautelare del compagno.

In particolare, la Sezione disciplinare ha sottolineato che le discussioni fra l’arch. C. e la giudice D.R. in materia di qualificazione giuridica del fatto sono connotate da un linguaggio e da cognizioni tecniche che, evidentemente, sono state oggetto di previa interlocuzione fra la C. e la S., attesa l’inverosimiglianza che un architetto possa autonomamente intrecciare un dialogo così articolato in materia giuridica, senza averne prima discusso in maniera approfondita con qualcuno che possa averla messa in condizione di sostenere tesi così dettagliate e tecnicamente complesse, tanto più che la stessa C., in sede di testimonianza, ha rappresentato alla Sezione disciplinare del CSM la sua assoluta ignoranza in materia.

Il giudice a quo si è altresì dato carico di evidenziare che – a fronte di dialoghi intercettati che in maniera chiara e priva di qualsiasi incertezza dimostrano l’intervenuta interferenza con l’attività giudiziaria in corso – nessuna plausibile spiegazione alternativa o ricostruzione difensiva convincente è stata formulata nè dall’incolpata, nè dalla sua difesa tecnica.

La ricorrente contesta la conclusione alla quale è pervenuta la Sezione disciplinare, negando che vi sia stata alcuna ingerenza da parte della Dott.ssa S. sulla collega D.R. e sostenendo che il materiale probatorio posto a fondamento della decisione impugnata sarebbe “assolutamente parziale e fuorviante”.

In realtà la censura, pur formalmente prospettando una plurima violazione di legge, non va al di là di una mera doglianza circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice disciplinare agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi dalle aspettative della ricorrente, e si risolve nella pretesa di una lettura del compendio probatorio diversa da quella dal medesimo giudice operata, il che contrasta con i limiti istituzionali del giudizio di legittimità.

Nè, d’altra parte, contrariamente a quanto prospettato dalla ricorrente, la soluzione alla quale è pervenuta la decisione impugnata che ha ritenuto chiaramente provati reiterati interventi della S. concretamente idonei a modificare e turbare il corretto e regolare svolgimento delle decisioni cui la Dott.ssa D.R. doveva contribuire nella qualità di componente del collegio del Tribunale del riesame di Perugia – si pone in contraddizione con l’esito del procedimento disciplinare riguardante la giudice D.R..

Infatti, con la sentenza n. 136 del 2015 della Sezione disciplinare, passata in giudicato, la Dott.ssa D.R., sebbene sia stata assolta dalla fattispecie di divulgazione di notizie riservate, è stata condannata alla sanzione della censura, per gli stessi fatti, qualificati nei suoi confronti come omissione dell’obbligo di comunicazione al dirigente dell’ufficio della condotta di interferenza esercitata dalla collega S. e violazione dell’obbligo di astensione.

D’altra parte, l’illecito disciplinare di ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. e), è integrato quando la condotta del magistrato interferente sia idonea, almeno astrattamente, a mettere in pericolo la libertà di determinazione e la serenità di giudizio del magistrato destinatario dell’interferenza (Cass., Sez. U., 24 giugno 2010, n. 15314; Cass., Sez. U., 26 novembre 2014, n. 25136).

La previsione disciplinare mira infatti ad offrire una tutela anticipata del bene dell’indipendenza interna del magistrato dal rischio di sviamento che può derivare da ogni azione o iniziativa di intromissione o inframmettenza, diretta ad influire sulla sua autonoma potestà decisionale.

E non v’è dubbio che la richiesta, rivolta dall’incolpata ad un altro magistrato investito di funzioni di giudice del tribunale del riesame, di informazioni sulla propria posizione nell’ambito di un procedimento penale e su quella del suo ex compagno, accompagnata dalla sollecitazione di una particolare benevolenza nei confronti di quest’ultimo e degli altri coindagati, rappresenta un attentato ai valori di correttezza ed ai criteri di trasparenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale, a prescindere dall’avvenuta influenza in concreto sull’esito della decisione giudiziaria e, prima ancora, dall’effettivo ottenimento di notizie riservate da parte del collega interferito.

4. – Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione dei principi di ragionevolezza e di graduazione delle sanzioni. La sanzione sarebbe stata irrogata senza alcun accertamento della gravità nei fatti contestati. Mancherebbe inoltre l’apprezzamento della capacità professionale della Dott.ssa S. nell’esercizio delle sue funzioni, attestata anche dalle lettere di encomio rilasciate dal Presidente del Tribunale di Roma: il che avrebbe dovuto condurre alla scelta della sanzione più equa da infliggere. D’altra parte, nel determinare la sanzione, la Sezione disciplinare avrebbe dovuto considerare che la Dott.ssa D.R. era stata assolta dalla stessa Sezione disciplinare dalla fattispecie di divulgazione di notizie riservate e condannata alla sanzione, assai più modesta, della censura, per gli stessi fatti, qualificati nei suoi confronti come omissione dell’obbligo di comunicazione, al dirigente dell’ufficio, della condotta di interferenza della Dott.ssa S. e violazione dell’obbligo di astensione.

4.1. – Il motivo è infondato.

La rimozione disciplinare del magistrato è ammessa non solo nei casi previsti dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, nei quali essa è obbligatoria, ma anche ogni qual volta l’illecito abbia compromesso irrimediabilmente i valori connessi alla funzione giudiziaria e al prestigio personale del magistrato; l’adeguatezza della sanzione della rimozione rientra nell’apprezzamento di merito della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, immune da vizi logico-giuridici (Cass., Sez. U., 6 novembre 2014, n. 23677).

Nella specie la sentenza impugnata contiene un’ampia argomentazione a sostegno della scelta della sanzione massima della rimozione dall’ordine giudiziario.

La Sezione disciplinare ha dato rilievo alla gravità della condotta, reiterata e prolungata nel tempo, non limitata alla richiesta di informazioni riservate, ma anche estrinsecatasi in una attività di sollecitazione per ottenere un alleggerimento delle posizioni nell’ambito di un procedimento penale; e ha posto l’accento sulla personalità della Dott.ssa S., soprattutto in relazione ai suoi precedenti disciplinari.

Sotto quest’ultimo profilo, il giudice a quo ha sottolineato infatti che dalla complessa posizione disciplinare emergono: una condanna, passata in giudicato, alla perdita di anzianità sei mesi con sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio nel procedimento n. 82/2010; una condanna in primo grado alla rimozione disposta con sentenza della Sezione disciplinare del 12 luglio 2016 nel procedimento n. 95/2014; la attuale pendenza del proc. n. 66/2013 e n. 79/2013 con la misura cautelare della sospensione e conseguente collocamento fuori ruolo e successiva sospensione del procedimento per pregiudizialità penale disposto il 17 maggio 2016; ancora, la attuale pendenza di procedimenti n. 91/2015 e n. 2/2016 sospesi per pregiudizialità penale.

La valutazione di merito operata con riguardo al trattamento sanzionatorio, essendo supportata da una motivazione pertinente e logica, si sottrae a un rinnovato sindacato in sede di legittimità.

La scelta della sanzione da applicare è stata infatti effettuata, da parte della Sezione disciplinare del CSM, secondo il fondamentale criterio della proporzionalità, intesa come adeguatezza alla concreta fattispecie disciplinare ed espressione della razionalità che fonda il principio di eguaglianza. Del pari, hanno formato oggetto di valutazione la gravità dei fatti in rapporto alla loro portata oggettiva e i precedenti disciplinari (cfr. Cass., Sez. U., 24 novembre 2010, n. 23778; Cass., Sez. U., 4 luglio 2012, n. 11137).

5. – Il Collegio rileva che non è ostativa alla conferma nel presente giudizio di cassazione della sanzione della rimozione la circostanza che già con sentenza in pari data di queste Sezioni Unite è stato rigettato – come ricordato al punto 1 delle Ragioni della decisione – il ricorso (iscritto al N.R.G. 5513 del 2017) avverso altra condanna della Dott.ssa S. alla sanzione della rimozione per altre violazioni disciplinari.

Invero, dal rigetto dell’uno e dell’altro ricorso per cassazione deriva che ciascuno dei due titoli (la sentenza della Sezione disciplinare del CSM n. 9 del 2017 e la sentenza della Sezione disciplinare del CSM n. 2 del 2017) determina autonomamente la cessazione del rapporto di servizio conseguente alla irrogata – e qui confermata – sanzione espulsiva per gli illeciti disciplinari acclarati in esito a separati procedimenti disciplinari; fermo restando che, poichè la cessazione del rapporto di servizio può essere attuata una sola volta, è nella sede, appunto, dell’attuazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 11, che si avrà un naturale “cumulo esecutivo” di pronunce convergenti nel medesimo, e unico, risultato effettuale sanzionatorio.

6. – Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione sostenute dal Ministero della giustizia, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dal Ministero della giustizia, liquidate in Euro 5.000, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2017

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