Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14547 del 15/07/2016

Cassazione civile sez. II, 15/07/2016, (ud. 19/04/2016, dep. 15/07/2016), n.14547

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28626-2013 proposto da:

M.M.D., C.F. (OMISSIS); elettivamente domiciliato in

Roma, Viale Santa Teresa 23, presso lo studio dell’avvocato PAOLO

GRIMALDI, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO GRECO, come

da procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro

pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi

12, presso AVVOCATURA DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1609/2012 della CORTE D’APPELLO DI PALERMO,

depositata il 15/11/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/04/2016 dal Consigliere Dott. PARZIALE Ippolisto;

udito l’Avvocato Greco, si riporta agli atti e alle conclusioni

assunte;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che conclude per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Così la sentenza impugnata riassume la vicenda processuale.

“Con sentenza n. 3/07 il Tribunale di Palermo – sezione distaccata di Bagheria ha, in accoglimento dell’opposizione proposta dal M., annullato l’ordinanza ingiunzione pos. (OMISSIS), D.M. Economia e Finanze 16 luglio 2003, n. 50427, con compensazione delle spese. Tale sentenza ha accolto l’opposizione nel merito, previo rigetto dei motivi preliminari di opposizione. Avverso tale sentenza ha proposto appello il Ministero dell’Economia e delle Finanze, censurando le valutazioni effettuate da parte del giudice di primo grado relativamente alle operazioni bancarie e all’elemento soggettivo dell’illecito. Alla prima udienza si è costituito il M., sostenendo l’inammissibilità dell’appello e comunque chiedendo il suo rigetto, proponendo in ogni caso i motivi di opposizione rigettati in primo grado”.

2. La Corte di appello ha accolto l’appello del Ministero dell’Economia, così rigettando “l’opposizione proposta dal M. avverso l’ordinanza ingiunzione pos. (OMISSIS), D.M. Economia e Finante 16 luglio 2003, n. 50427”.

3. Impugna tale decisione il signor M. che formula cinque motivi. Resiste con controricorso la parte intimata.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi del ricorso.

1.1 – Col primo motivo si deduce: violazione o falsa applicazione L. n. 689 del 1981, art. 14, per l’intervenuta decadenza dell’Amministrazione per non avere notificato l’atto di contestazione nei termini previsti. Rileva il ricorrente che “in data 14.4.2000 la Guardia di Finanza ha contestato personalmente al sig. M. la violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 3, comma 1, per avere omesso segnalazioni di operazioni sospette per un importo complessivo pari a Lire 1.649.600.000. Aggiunge di aver prontamente esposto le sue ragioni con lo scritto difensivo del 12.5.2000 (pervenuto alla Direzione Valutario Antiriciclaggio ed Antiusura del Ministero il 15.5.2000) e chiarisce che “successivamente, solo in data 17.10.2000, il Ministero del Tesoro… ha provveduto a notificare la lettera di contestazione di infrazione del D.L. n. 14 del 1991”. Tale lettera è pervenuta quando “ormai il termine di decadenza previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 14, era ormai ampiamente decorso”. Rileva il ricorrente che tale motivo di opposizione è stato ritenuto infondato con la seguente motivazione “Nel caso di mancata contestazione immediata della violazione, il momento dell’accertamento, in relazione al quale collocare il dies a quo del termine prescritto dalla L. n. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2, per la notifica degli estremi di essa, non coincide con la conoscenza dei fatti nella loro materialità da parte dell’autorità alla quale è stato trasmesso il rapporto, ma va individuato in quello in cui l’autorità alla quale è stato trasmesso il rapporto abbia acquisito e valutato tutti i dati indispensabili ai fini della verifica dell’esistenza della violazione segnalata ovvero in quello in cui il tempo decorso, pur tenendo conto della complessità della fattispecie non risulti giustificato dalla necessità di detta acquisizione e valutazione OMISSIS… Considerato che il verbale della Guardia di Finanza, notificato al M. in data 24.5.00, è stato comunicato al Ministero del Tesoro in data 8.8.00, deve ritenersi tempestiva la notifica della lettera contestazione e effettuata in data 17.10.00. Condivisibile è poi l’assunto del giudice di primo grado secondo cui, anche a ritenere in modo unitario tutta l’attività di indagine, il periodo intercorso tra la data di notificazione del verbale ad opera della Guardia di Finanza (24 maggio 2000) e la notifica della lettera di contestazione il 17.10.00 appare congruo al fine di una compiuta istruttoria, trattandosi di esaminare una molteplicità di operazioni bancarie, e considerata la decorrenza del termine dal momento in cui sono stati acquisiti gli elementi soggettivi ed oggettivi della contestazione”. Osserva al riguardo il ricorrente che “il contenuto del verbale del 14.4.2000 è del tutto identico a mano riportato nella lettera-contestazione del 17.10.2000 Prot. (OMISSIS) a firma del Dirigente Generale del Ministero del Tesoro” e di conseguenza, stante “l’identità di contenuto tra il verbale di accertamento e la lettera di contestazione”, non poteva che concludersi che “nessun accertamento ulteriore è stato posto in essere dal Ministero”. Inoltre, la contestazione neppure si fa carico delle osservazioni svolte nelle deduzioni difensive del 12 maggio 2000.

1.2 – Col secondo motivo si deduce: “violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3” in ordine agli elementi costitutivi del verbale di contestazione. La contestazione ha operato un mero richiamo “per relationem” al contenuto del verbale della Guardia di Finanza.

1.3 – Col terzo motivo si deduce: “violazione o falsa applicazione L. n. 689 del 1981, art. 28” in ordine all’avvenuta prescrizione. Nessuna contestazione poteva essere mossa su presunte violazioni commesse nel quinquennio anteriore al 25.9.1998, attesa l’intervenuta prescrizione L. n. 689 del 1981, ex art. 28. Sul punto la Corte di Appello ha motivato: “infondata è in ogni caso l’eccepita prescrizione ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 28, attesa la notifica dell’ordinanza-ingiunzione in data 25.9.03 e l’interruzione del termine di prescrizione con la notifica della lettera-contestazione del 17.10.00. Essendo la notifica della contestazione un atto tipico con il quale l’amministrazione manifesta la volontà di riscuotere la sanzione, essa interrompe la prescrizione. D’altronde anche la notifica del verbale di accertamento della Guardia di Finanza, quale atto tipico, ha natura interruttiva della prescrizione (cfr. Cass. n. 17054/05 n. 3124/05”. Tale conclusione, secondo il ricorrente, non è condivisibile, perchè “il verbale della Guardia di Finanza non è idoneo ad interrompere la prescrizione in quanto non proviene dall’organo investito del potere di contestare la violazione ed irrogare la sanzione”. Quanto “alla lettera di contestazione, questa non può valere quale atto di messa in mora posto che non esplicita la prestazione dovuta dal soggetto obbligato, ma si limiterebbe ad ammonire il pagamento di una somma non quantificata che verrà calcolata dall’Amministrazione in tempi non precisati”. Osserva ancora che “entrambi gli atti contengono l’invito ad inviare deduzioni difensive e pertanto non possono manifestare la pretesa sanzionatoria dell’Amministrazione, posto che quest’ultima accogliendo le difese dell’interessato potrebbe desistere dall’irrogare la sanzione”.

1.4 – Col quarto motivo si deduce: “art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame cuna un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, quanto all’elemento soggettivo della colpa o dolo in capo al ricorrente, che osserva come “l’obbligo di comunicazione per il responsabile della dipendenza operi solo in presenza di circostanze che in base agli elementi a disposizione, tenendo conto anche della attività e della capacità economica del soggetto che effettua l’operazione, lo inducano a ritenere che il danaro o le altre provviste utilizzate siano di provenienza illecita”. Si trattava quindi di verificare in concreto una ipotesi complessa, che trova il suo presupposto in un insieme di aspetti, di elementi, di circostanze, di valutazioni tutti concorrenti fra loro, che fanno scattare l’obbligo, per il responsabile della dipendenza, di effettuare la comunicazione al titolare dell’attività o al legale rappresentante o ad un suo delegato”. All’esito della CTU svolta in primo grado era emerso che “la CIPO, che aveva un numero svariato di soci ed operava dal 1986 nel campo agrumicolo, intratteneva rapporti con Banca Monte dei Paschi di Siena dal 1997, a seguito di una iniziativa di sviluppo indirizzata alle cooperative aderenti alle diverse associazioni agricole presenti nel territorio siciliano. Il rapporto bancario con detta cooperativa era stato assistito nel tempo da una apertura di credito di Lire 100.000.000 e da crediti agrari di esercizio che, alle scadenze, erano sempre stati regolarmente pagati, a fronte di affidamenti complessivi da parte di tutto il sistema bancario che si aggiravano tra Lire 1.000.000.000 e Lire 1.350.000.000. Sul conto corrente i prelevamenti erano sempre stati effettuati dalla società cooperativa a mezzo di assegni o di mandati di pagamento, mentre i versamenti nano sempre avvenuti a mezzo bonifici da parte delle associazione di appartenenza. L’andamento del conto corrente era sempre stato normale ed i prelevamenti erano stati eseguiti sempre nell’ambito delle disponibilità liquide e comunque entro i fidi accordati. Le operazioni di prelevamento effettuate con assegni e che sono state contestate nel processo verbale redatto dalla Guardia di Finanza (da cui è scaturito il Decreto-ingiunzione impugnato) erano state e effettuate su più sportelli (n. 3) e da più operatori, i quali non avevano mai segnalato al Direttore M. come “sospette” le operazioni della Cooperativa (come accertato in primo grado, attraverso le testimonianze)”. Era stato anche evidenziato “come la CIPO, avendo un elevato numero di rapporti con clienti e fornitori, nel tempo aveva effettuato moltissime operazioni, circostanze tutte che conducevano alla legittimità del suo comportamento e alla considerazione del Direttore M. (conoscendo bene la cliente CIPO e la sua capacità economica ed attività), in base agli elementi a sua disposizione, che il denaro, i beni o le utilità oggetto della pluralità di operazioni poste in essere dalla CIPO non provenissero dai delitti previsti dagli artt. 648 bis e 648 ter c.p.”. A fronte tali circostanze, osserva il ricorrente che la Corte di appello attraverso un “ragionamento apodittico ed errato” è giunta ad “una conclusione opposta” affermando che “l’analisi condotta dal Tribunale, invero, trascura un dato di fondo che assume un’invincibile significatività, rappresentato dal fatto che la società CIPO ha emesso un numero rilevante di assegni per prelevamenti in contanti – 82 -, ciascuno di Lire 19.500.000, nel complesso portanti la somma di Lire 1.649.600.000, a fronte di soli 7 assegni di importo diverso (per prelevamento in contanti) per complessivamente Lire 132.200.000… OMISSIS… il legale rappresentante della società CIPO, anzichè emettere assegni di importo pari alle variabili necessità di denaro della società,… ricorreva sistematicamente alla emissione di diversi assegni di importo leggermente inferiore ai 20 milioni di Lire, con ciò manifestando un ben preciso intento elusivo… In presenza di un sì evidente e ripetuto comportamento evasivo, che peraltro denotava la conoscenza da parte del cliente della normativa in questione e la precisa finalità di evitare la segnalazione prevista della L. n. 197 del 1991, art. 3”. Osserva il ricorrente invece che proprio tale comportamento evidenzia come la CIPO non fosse a “conoscenza della normativa antidcidaggio, in quanto se la CIPO l’avesse conosciuta avrebbe saputo che le operazioni poste in essere in un periodo ristretto si sommano ai lini della valutazione per l’antiriciclaggio” con la conseguenza che “se la CIPO non conosceva la normativa antiriciclaggio il suo intento non poteva essere elusivo della stessa”. Osserva, inoltre, il ricorrente che tali operazioni erano state intervallate a numerose altre in un contesto in cui “per l’anno 1997, erano stati eseguiti e registrati sul conto corrente n. (OMISSIS) movimenti, di cui 256 inerenti ad addebiti: di questi soltanto n. 27 movimenti erano stati segnalati dalla Guardia di Finalizza (nel detto periodo i ricavi delle vendite erano stati Lire 5.835.000.000)”, mentre “nell’anno 1998 erano stati eseguiti e registrati sul conto corrente della cooperativa n. 352 movimenti, di cui n. 316 inerenti ad addebiti, e tra questi solo n. 18 erano stati segnalati dalla Guardia di Finanza (nel detto periodo i ricavi della Cooperativa erano stati Lire 4.486.000.000)”; ed ancora “nel 1999 erano stati registrati sul conto corrente della cooperativa n. 269 movimenti, di cui 248 inerenti ad addebiti, e tra questi solo n. 41 sono stati segnalati dalla Guardia di Finanza (nel detto periodo i ricavi della Cooperativa erano stati Lire 4.720.000.000)”. Osserva, quindi, conclusivamente il ricorrente che “nel periodo 1997 – 1999 erano state effettuate sul conto corrente della CIPO n. 910 operazioni, di cui n. 820 per addebiti e tra questi solo n. 92 erano stati considerati dalla Guardia di Finalizza come operazioni “sospette””. Inoltre, era stato evidenziato dalla CTU in primo grado che il sistema G.I.AN.O.S. – Generatore indici di Anomalia Operazioni Sospette – (della Banca, ndr) non aveva operato alcuna segnalazione sulle operazioni di cui agli estratti conto relativi al periodo in considerazione”.

1.5 – Col quinto motivo si deduce: “art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione D.L. n. 143 del 1991, art. 3, letto in combinato disposto con la L. n. 689 del 1981, artt. 3 e 23, violazione o falsa applicazione D.L. n. 143 del 1991” relativamente all’affermazione della responsabilità per culpa in vigilando.

La relativa indagine deve essere effettuata in concreto, e, per quanto esposto, “tutti i fatti e le circostante (le caratteristiche del cliente CIPO, le provviste finanziarie pubbliche e tracciabili, il tipo di attività della CIPO, l’assenza di segnalazione da parte del Gianos e l’assenta di segnalazione da parte degli addetti allo sportello) portavano coerentemente all’assenza di “sospettabilità” dei prelevamenti del cliente CIPO”, posto che si trattava “di prelevamenti delle provviste finanziarie tracciate e non di versamenti in contanti, che invece avrebbero potuto far insorgere il dubbio sulla illiceità del reperimento di tali somme”.

Al riguardo, la Corte locale aveva affermato che “l’assunto del giudice di primo grado secondo cui il responsabile dell’ente creditizio non avesse a disposizione, nonostante la possibile anomalia delle operazioni, un quadro indiziario che gli consentisse di presumere la provenienza illecita del denaro, non pare condivisibile, atteso che operazioni quasi solo anomale sono di per sè sospette, essendo qualsiasi ulteriore indagine demandata alle autorità competenti”. Osserva il ricorrente, invece, che “la segnalazione delle operazioni invece, non può dissociarsi dalla valutazione di una componente personalistica e soggettiva essenziale nella valutazione dell’operazione”, altrimenti si finirebbe per assistere al “moltiplicarsi indiscriminato delle segnalazioni (al fine di sottrarsi ad ogni ipotesi di responsabilità) anche di quelle non rientranti tra gli “indici di anomalia” predisposti dalla Banca d’Italia, con ciò violando oltrechè vanificando il disposto D.L. n. 143 del 1991, art. 3″.

2. Il ricorso è infondato e va rigettato.

2.1 – Il primo motivo è infondato. E’ proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, ma il ricorrente, più che prospettare vizio interpretativo del dettato dalla L. n. 289 del 1981, art. 14, lamenta l’errata valutazione delle risultanze istruttorie riflettenti la congruità del tempo di valutazione dei dati acquisiti operata dall’autorità, che solo in data 17 ottobre 2000 avrebbe “inviato” (o meglio notificato) la lettera di contestazione. Posta in questi termini la censura finisce col riguardare la completezza o meno del percorso argomentativo, ma in tal caso il vizio motivazionale doveva essere correlato e rimodulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che limita la censura ad una motivazione meramente apparente o oggettivamente incomprensibile.

In ogni caso, la Corte d’appello distrettuale reputa congruo il tempo occorso per la valutazione dei dati trasmessi dalla Guardia di Finanza l’8 agosto 2008 (anche volendo retrodatare al 24 maggio 2000 il completamento dell’accertamento eseguito dalla Guardia di Finanza), tenuto conto della molteplicità delle operazioni bancarie e della verifica delle condizioni oggettive e soggettive dell’infrazione.

Si tratta di apprezzamenti di fatto, sorretti da adeguata motivazione, alla quale, in ogni caso, non si può più censurare il profilo della sufficienza.

2.2 – Anche il secondo motivo va rigettato.

Anche in questo caso più che vizio interpretativo della L. n. 241 del 1990, art. 3, si censura la valutazione di idoneità del “contenuto” della lettera di contestazione, lettera neppure trascritta, in violazione del principio di autosufficienza. In ogni caso, la Corte distrettuale ha argomentativamente sostenuto che il verbale di contestazione conteneva elementi sufficienti ad individuare il fatto addebitato, anche attraverso il richiamo di documentazione conosciuta o conoscibile dal destinatario.

1.3 – Va rigettato anche il terzo motivo. Non solo non vengono trascritti gli atti concernenti l’interruzione della prescrizione dei quali si lamenta l’erroneo scrutinio, ma la censura poggia sull’erronea assimilazione dell’atto di messa in mora all’atto d’interruzione prescrizione, che ha contenuto più ampio del primo come riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte.

1.4 – Va rigettato anche il quarto motivo. La censura finisce con il prospettare una questione di merito, sollecitando un nuovo accertamento dei fatti e delle prove (documentali e logico-inferenziali) per dedurne la insussistenza delle stesse “ragioni di sospetto”, necessarie per innescare le doverose verifiche della pubblica amministrazione.

La diversa valutazione delle risultanze istruttorie, oltre che inammissibile già nel previgente art. 360 c.p.c., n. 5, risulta del tutto incomprensibile a fronte del nuovo testo di tale norma.

1.5 – Infine, va rigettato anche il quinto motivo. Anche in tal caso più che di vizio di interpretazione delle norme indicate, il ricorrente lamenta un’errata valutazione delle risultanze istruttorie, che, rettamente intese, avrebbero evidenziato l’insussistenza di ogni ragione di sospetto. Viene sollecitato un nuovo esame dei cosiddetti “indici di anomalia”, prospettandosi una motivazione alternativa o, se si vuole, addirittura più appagante, relativa al coordinamento dci dati istruttori raccolti, verifica che non si può inscrivere nel dettato dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (come dedotto), nè in quello dell’art. 360 c.p.c., n. 5, neppure ante riforma del 2012.

2. Le spese seguono la soccombenza. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in Euro 3.500,00 (tremilacinquccento) per compensi, oltre a spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2016

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