Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14534 del 04/07/2011

Cassazione civile sez. I, 04/07/2011, (ud. 02/03/2011, dep. 04/07/2011), n.14534

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso n. 16704 dell’anno 2009 proposto da:

M.G. elett. dom.to in Roma, Piazza Randaccio, n. 1,

nello studio dell’Avv. MORCELLA Manlio, che lo rappresenta e difende,

giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE rappresentato e difeso

dall’Avvocatura Generale dello Stato, nei cui uffici in Roma, via dei

Portoghesi, 12, è per legge domiciliato;

avverso il decreto della Corte di Appello di Roma, emesso nel

procedimento n. 58075/2007, depositato in data 25 febbraio 2009;

sentita la relazione all’udienza del 2 marzo 2011 del consigliere

Dott. Pietro Campanile;

Sentito l’Avv. Morcella, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del Sostituto

Dott.ssa Immacolata Zeno, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Il Dott. M.G. proponeva domanda di equa riparazione relativamente alla durata non ragionevole di un procedimento disciplinare al quale era stato sottoposto, in qualità di magistrato ordinario, davanti alla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, che aveva avuto inizio il 29 luglio 1998 e si era concluso, dopo varie pronunce elle Sezioni Unite della Corte di cassazione e un periodo di sospensione per rimessione alla Corte costituzionale di una questione di legittimità, con sentenza del 10 luglio 2007.

1.1 – La Corte di appello di Roma, con il decreto indicato in epigrafe, affermata preliminarmente la natura giurisdizionale del giudizio disciplinare svoltosi nei confronti di magistrati, rilevava che lo stesso trova una specifica disciplina, quanto alla durata, nelle disposizioni appositamente dettate in relazione ai termini di decadenza per l’inizio e la definizione del procedimento. Osservava quindi che, in considerazione di tale aspetto, la valutazione della durata ragionevole del processo fosse già insita nelle previsioni normative relative alla durata del procedimento disciplinare. Sulla base di tali considerazioni si perveniva a un giudizio di congruità dei gradi e delle fasi del procedimento disciplinare, tenuto conto dei periodi di sospensione determinati dall’attesa di definizione del giudizio penale, della rimessione alla Corte costituzionale, e dei ricorsi alle Sezioni unite della Corte di cassazione.

1.2 – Avverso tale decisione propone ricorso il Dott. M., chiedendone la cassazione sulla base di tre motivi, illustrati con memoria.

Resiste l’amministrazione con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2 – Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 4, nonchè dell’art. 6 della C.E.D.U., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la Corte territoriale omesso di considerare la durata del procedimento all’esito di una sua valutazione unitaria e sintetica, procedendo, al contrario, ad una sua inammissibile frammentazione.

Viene, in proposito, formulato il seguente quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.: “Costituendo il giudizio in Cassazione e quello di rinvio, gradi e fasi organiche del procedimento disciplinare a carico di magistrati innanzi al CSM, dica l’Ecc.ma Suprema Corte se incorra nella violazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2-4 e art. 6, par. 1, CEDU, il decreto della Corte di appello che dichiari non applicabili gli standard di durata previsti per il procedimento disciplinare a carico di magistrati ai gradi di impugnazione innanzi alla Corte di Cassazione e ai conseguenti giudizi di rinvio”.

2.1 – Con il secondo motivo si deduce la violazione e la falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, artt. 1 e 2, nonchè, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contraddittorietà della motivazione, per aver la Corte territoriale omesso di considerare i tempi occorsi per il ritardo delle decisioni, nonchè per i rinvii disposti d’ufficio, tali da determinare un ritardo complessivo di anni due, mesi cinque e giorni 25.

2.2 – Con il terzo motivo il ricorrente censura la decisione impugnata sotto il profilo della violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, denunciando altresì illogicità della motivazione, ponendo in evidenza come il caso non presentasse aspetti di particolare difficoltà, sia in considerazione dell’assoluzione in sede penale del Dott. M. per insussistenza del fatto, sia in relazione alla modestia dell’attività istruttoria.

Viene in proposito formulato il seguente questo di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di cassazione se, premessa l’identità unitaria dei procedimenti avanti la Sezione disciplinare del CSM, nell’ipotesi di giudizio scevro di elementi di particolare complessità e di comportamenti delle parti tesi a dilatare i tempi processuali, non debba rientrare nella valutazione della irragionevole durata del processo il lasso di tempo necessario a consentire il corretto esercizio dei diritti della parti”.

2.3 – Deve preliminarmente rilevarsi l’inammissibilità, per come formulati, del secondo e, in parte, del terzo motivo.

Premesso, invero, che il decreto impugnato risulta depositato in data 25 febbraio 2008, debbono trovare applicazione le disposizioni del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (in vigore dal 2.3.2006 sino al 4.7.2009), con particolare riferimento all’art. 6, che ha introdotto l’art. 366 bis nel codice di procedura civile. Alla stregua di tali disposizioni – la cui peculiarità rispetto alla già esistente prescrizione della indicazione nei motivi di ricorso della violazione denunciata consiste nella imposizione di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto al fine del miglior esercizio della funzione nomofilattica – l’illustrazione dei motivi di ricorso, nei casi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1-2-3- 4, deve concludersi, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto che, riassunti gli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito e indicata sinteticamente la regola di diritto applicata da quel giudice, enunci la diversa regola di diritto che ad avviso del ricorrente si sarebbe dovuta applicare nel caso di specie, in termini tali che per cui dalla risposta che da esso discenda in modo univoco l’accoglimento o il rigetto del gravame. Analogamente, nei casi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illustrazione del motivo deve contenere (cfr. ex multis:

Cass. Sez. Un. n. 20603/2007; Cass. n. 16002/2007; Cass. n. 8897/2008) un momento di sintesi – omologo del quesito di diritto – che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità.

Nel caso di specie, con riferimento al secondo motivo e al dedotto vizio motivazionale del terzo mezzo, tale formulazione è assolutamente carente.

2.4 – Le censure non interessate dalla evidenziata inammissibilità, stante la loro intima connessione, possono essere congiuntamente esaminate. A giudizio della Corte il decreto impugnato, a prescindere da determinati aspetti contenuti nella parte motiva, che saranno integrati e corretti nei termini appresso specificati, si rivela meritevole di conferma.

2.5 – Come ripetutamente affermato da questa Corte, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, pur essendo possibile individuare degli “standard” di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, così come accade1 nell’ipotesi in cui il giudizio si svolga in primo grado, in appello, in cassazione ed in sede di rinvio, agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali occorre – secondo quanto già enunciato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dall’introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva del processo anzidetto, alla maniera in cui si è concretamente articolato (per gradi e fasi appunto), così da sommare globalmente tutte le durate, atteso che queste ineriscono all’unico processo da considerare, secondo quanto induce a ritenere il fatto che, a norma dell’art. 4 della citata legge, ferma restando la possibilità di proporre la domanda di riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, tale domanda deve essere avanzata, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il procedimento stesso, è divenuta definitiva (Cass., 18 febbraio 2004, n. 3143; Cass., 29 dicembre 2005, n. 28864; Cass., 13 aprile 2006, n. 8717).

Naturalmente, essendo ormai del tutto pacifico il principio secondo cui la durata ragionevole del processo non può essere stabilita secondo un giudizio rigido e predeterminato (cfr., per tutte, Cass., 13 gennaio 2010, n. 401), dovendosi tener conto degli elementi previsti dalla citata L. n. 89 del 2001, art. 2, come la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti, del giudice del procedimento, nonchè di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, la suindicata valutazione complessiva della durata del giudizio non può non essere preceduta da una considerazione analitica di quegli elementi che, anche singolarmente apprezzati, possono aver concorso ad accrescere la complessità del caso, così rendendo ragionevole, in concreto, la durata dell’intero procedimento.

Nella fattispecie in esame, per il vero non priva di vicissitudini, si è determinato inizialmente un periodo di sospensione in attesa della definizione del giudizio penale inerente agli stessi fatti per i quali era stata proposta l’azione disciplinare: tale evenienza, secondo l’insegnamento di questa Corte, concorre sicuramente a determinare una maggiore complessità del caso (Cass., 26 maggio 2010, n. 12867; Cass., 9 settembre 2005, n. 16065). Del pari rilevante al fine di determinare un periodo di durata maggiore, tuttavia, non irragionevole, è l’ipotesi della sospensione del giudizio per la rimessione alla Corte costituzionale di una questione di legittimità (Cass., 15 gennaio 2007, n. 23632; Cass., 6 novembre 2007, n. 23099). Nel caso di specie, poi, l’elemento assume maggiore spessore, essendosi accolta l’eccezione di incostituzionalità con riferimento alla medesima composizione della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura in sede di rinvio: appare evidente come l’ultimo giudizio di rinvio sia in qualche modo caudatario della decisione del giudice delle leggi.

2.6 – La Corte territoriale, prescindendo dal rilievo attribuito alle cadenze stabilite dalla normativa specifica in merito al giudizio disciplinare, non si è nella sostanza sottratta alla necessità di compiere una valutazione di sintesi dell’intera durata del procedimento, giudicata congrua, conclusivamente, sulla base “delle date di scansione come sopra riportate, della sospensione determinata dalla definizione del processo penale e dalla rimessione alla Corte Costituzionale nonchè del ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione per ben due volte proposto dall’incolpato”. Appare evidente come non risultano violati i parametri normativi evocati dal ricorrente (il quale, per altro, ha dedotto una violazione dei termini di ragionevole durata prescindendo da una virtuale durata complessiva, ma richiamando segmenti della procedura, alla stregua del metodo criticato), venendo in considerazione unicamente gli aspetti della motivazione inerenti alla ritenuta congruità della durata complessiva del procedimento, che, in considerazione dell’inammissibilità – in parte qua – dei motivi, per omessa formulazione del c.d. “momento di sintesi”, non possono essere valutati.

2.7 – Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente alla rifusione,in favore della controparte, delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore dell’Amministrazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 900,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 2 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2011

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