Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14533 del 15/07/2016


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Cassazione civile sez. I, 15/07/2016, (ud. 09/06/2016, dep. 15/07/2016), n.14533

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERNABAI Renato – Presidente –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17337/2013 proposto da:

COOPERATIVA EDILIZIA CASALE DELLA CECCHINA, (c.f. (OMISSIS)), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI BETTOLO 17, presso l’avvocato

CLAUDIO MONTEFALCONE, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GIOVANNI GIACOBBE, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

S.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CARSO 77,

presso l’avvocato EDOARDO PONTECORVO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato LUCIANO ALBERINI, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 909/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 14/02/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2016 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;

uditi, per la ricorrente, gli Avvocati C. MONTEFALCONE G. GIACOBBE

che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato L. ALBERINI che si riporta

per il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Roma con sentenza del 14 febbraio 2013 ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa citta’ del 19 giugno 2008, la quale – decidendo su tre giudizi riuniti – ha dichiarato che al 31 dicembre 2002 S.E. non aveva debiti verso la cooperativa, ha revocato il decreto ingiuntivo con il quale egli e’ stato condannato a pagare la somma di Euro 18.592,43 sulla base di sei assegni bancari a firma del medesimo ed ha annullato la deliberazione del 23 marzo 2000 di esclusione dalla societa’.

La corte territoriale ha ritenuto che la lettera datata 24 marzo 1998, con la quale la legale rappresentante della societa’ dell’epoca, So.Si., ha affermato l’esistenza di un debito residuo del socio pari solo a Lire 75.000.000, costituisse confessione stragiudiziale, ai sensi dell’art. 2735 c.c., integrante prova legale dell’importo dovuto.

Avverso questa sentenza propone ricorso la cooperativa soccombente, sulla base di cinque motivi. Resiste con controricorso l’intimato. Le parti hanno anche depositato le memorie di cui all’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., perche’ la corte del merito ha omesso del tutto di motivare con riguardo ai documenti in atti ed alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, nulla esponendo circa l’opposizione proposta dal socio alla deliberazione di esclusione, la domanda di pagamento della somma di Euro 18.592,43 oggetto del ricorso monitorio, il debito del socio dal 21 febbraio 2000 al 31 dicembre 2002, come richiesto dalla cooperativa.

Con il secondo motivo, lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sulle predette domande.

Con il terzo motivo, deduce ancora la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per ultrapetizione, avendo il socio prodotto la ricordata dichiarazione del 24 marzo 1998 quale negozio di accertamento, laddove la corte del merito ha autonomamente attribuito ad essa la natura di confessione.

Con il quarto motivo, deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2730, 2731, 2733 e 2734 c.c., in quanto la dichiarazione della So. non costituiva confessione: infatti, essa si e’ limitata a rilasciare la lettera, affermando “la sottoscritta… certifica che il Sig. S.E. ha versato ad oggi l’importo di L e sono da versare per il saldo dell’unita’ immobiliare prenotata L. il cui importo potra’ accollarsi quale quota di mutuo”. Ma la presidente non poteva disporre di somme della societa’, posto che non rientrava, per statuto, nelle attribuzioni del medesimo defalcare debiti al singolo socio e disporre di crediti della societa’ verso terzi, in mancanza di una deliberazione assembleare al riguardo; difetta, inoltre, l’animus confitendi, quale consapevolezza e volonta’ di riconoscere un fatto a se’ sfavorevole, con pregiudizio economico per la cooperativa.

Con il quinto motivo, deduce l’omesso esame di fatto decisivo, non avendo il giudice del merito neppure esaminato la consulenza tecnica d’ufficio, che dava conto dell’intero dovuto, in particolare per debiti sorti dopo la dichiarazione del 24 marzo 1998.

2. – I primi due motivi, da trattare congiuntamente per la loro intima connessione, sono infondati.

Invero, come questa Corte ha piu’ volte affermato (cfr. Cass. 14 gennaio 2015, n. 452; 4 agosto 2014, n. 17580), non vi e’ vizio di omessa pronuncia quando una domanda, pur non espressamente esaminata, debba ritenersi anche con pronuncia implicita – rigettata perche’ indissolubilmente avvinta ad altra, che ne costituisce il presupposto e il necessario antecedente logico-giuridico, decisa e rigettata dal giudice, o comunque allorche’ il giudice fondi la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda stessa.

Le domande di condanna e di accertamento della legittimita’ dell’esclusione del socio sono, nella specie, da ritenere respinte implicitamente, allorche’ la sentenza impugnata motiva circa il valore confessorio della menzionata dichiarazione della presidente della societa’ in data 24 marzo 1998, da essa ritenuta comprovante l’assenza di debiti in capo al socio.

3. – Il terzo motivo e’ infondato, posto che la valutazione dell’efficacia giuridica dell’atto privato compete al giudice.

Si intende, invero, ribadire il principio (sul quale v., fra le altre, Cass. 13 dicembre 2010, n. 25140 e 24 giugno 2003, n. 10009) secondo cui, in materia di procedimento civile, sussiste vizio di ultra o extra petizione ex art. 112 c.p.c., quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato; tale principio va peraltro posto in immediata correlazione con il principio iura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, rimanendo pertanto sempre salva la possibilita’ per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonche’ all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti.

4. – Il quarto e quinto motivo, da trattare congiuntamente in quanto connessi, sono fondati, nei limiti di seguito esposti.

4.1. – Non coglie nel segno il quarto motivo, laddove pretende di negare il potere dispositivo in capo al presidente e legale rappresentante della cooperativa ricorrente.

Invero, ai sensi dell’art. 2384 c.c., applicabile alle cooperative in virtu’ del rinvio di cui all’art. 2516 c.c. – entrambi nel testo anteriore alla riforma del diritto societario introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003 – la societa’ non puo’ opporre ai terzi le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto, sebbene pubblicate mediante iscrizione nel registro delle imprese, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della societa’.

Ma di tale elemento soggettivo, che e’ costitutivo dell’opponibilita’ a terzi, la ricorrente non fa parola, ne’ di esso risulta mai essersi neppure discusso nei gradi di merito, con conseguente infondatezza dell’assunto.

4.2. – E’, invece, fondato il motivo, laddove nega che la dichiarazione in oggetto costituisca una confessione, con il conseguente dovere del giudice di esaminare le altre risultanze probatorie, postulato dal quinto motivo.

Questa Corte ha invero gia’ avuto occasione di chiarire che la dichiarazione relativa all’importo dell’altrui debito non costituisce una confessione, in quanto essa contiene un riferimento non a fatti materiali, ma a valutazioni giuridiche, trattandosi piuttosto di un atto da cui discendono gli effetti previsti dall’art. 1988 c.c.: “non vi e’ ragione per non applicare la disposizione del codice civile dettata per la ricognizione di debito al caso inverso della dichiarazione di inesistenza del credito, in relazione al principio dell’uguale situazione fra le parti del rapporto obbligatorio” (Cass. 25 marzo 1999, n. 2819, sia pure in un obiter, richiamando ivi Cass. 24 maggio 1955, n. 1535).

Il Collegio reputa di dare continuita’ a tale orientamento, dovendosi dunque affermare che la dichiarazione del creditore, la quale non precisi il fatto giuridico dei pagamenti effettuati o da effettuare, e, percio’, non consideri la ricognizione di situazioni di fatto o di situazioni giuridiche considerate pero’ sub specie facti, ma unicamente il conseguente effetto giuridico della sussistenza di un determinato proprio debito, riconducibile ad un fatto giuridico che rimane indeterminato, non integra una confessione, ma un negozio unilaterale recettizio da cui derivano, a favore del debitore destinatario della dichiarazione, effetti analoghi a quelli previsti dall’art. 1988 c.c., dispensando colui a favore del quale e’ fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale, la cui esistenza di questo si presume fino a prova contraria.

Tale negozio non costituisce, pertanto, una fonte autonoma di obbligazioni, spiegando invece soltanto l’effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, producendo il mero effetto dell’astrazione processuale dalla causa debendi.

E, come la ricognizione di debito e la promessa di pagamento hanno il solo effetto di sollevare il promissorio dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (e multis, Cass. 16 settembre 2013, n. 21098; 9 maggio 2007, n. 10574), cosi’ la cd. “ricognizione di (minor) debito altrui” ha l’effetto di invertire l’onere della prova circa l’entita’ di quell’obbligazione in capo al debitore, il quale potra’ avvalersi della limitazione dell’importo in essa riconosciuto come dovuto: ne consegue che tale dichiarazione, non avendo contenuto dispositivo o di prova legale, diviene priva di effetto, se si accerti giudizialmente un diverso ammontare della somma dovuta.

4.3. – Proprio questa risulta la fattispecie in esame, in cui la sentenza impugnata enfatizza la dichiarazione della presidente della cooperativa “nella quale la stessa attestava un debito residuo di 75 milioni di Lire, laddove secondo l’allegazione della Cooperativa ed alla luce della consulenza espletata in primo grado si e’ accertato che, dalle scritture contabili della societa’, emergeva un debito consistentemente superiore”.

Non, quindi, una prova legale sull’importo del debito residuo in capo alla socia preclusiva di qualunque prova contraria e di ulteriore indagine, ma mera efficacia processuale di quella dichiarazione quale indizio della entita’ dell’obbligazione, avverso il quale ogni mezzo di prova in contrario e’ ammesso.

5. – In conclusione, la sentenza va cassata, in accoglimento di suddetti motivi, con rinvio per nuovo esame alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, cui si demanda pure la liquidazione delle spese del giudizio di legittimita’.

PQM

La Corte accoglie il quarto ed il quinto motivo, respinti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa innanzi alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di legittimita’.

Cosi’ deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2016

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