Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14533 del 10/06/2013


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 14533 Anno 2013
Presidente: BERRUTI GIUSEPPE MARIA
Relatore: CIRILLO FRANCESCO MARIA

SENTENZA
sul ricorso 23864-2007 proposto da:
RTI RETI TELEVISIVE ITALIANE S.P.A. 03976881007, in
persona del procuratore speciale, avv. STEFANO
LONGHINI, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
CICERONE 60, presso lo studio dell’avvocato PREVITI
STEFANO, che la rappresenta e difende unitamente
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2013

all’avvocato PREVITI CARLA giusta delega in atti;
– ricorrente –

966
contro

PUNTURIERI MARINA, elettivamente domiciliata in ROMA,
VIA D. CHELINI 5, presso lo studio dell’avvocato

1

Data pubblicazione: 10/06/2013

BERLIRI FABRIZIO, che la rappresenta e difende giusta
delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n.

4254/2006

D’APPELLO di ROMA, depositata

della CORTE

il 09/10/2006

R.G.N.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del

24/04/2013

dal Consigliere Dott.

FRANCESCO MARIA CIRILLO;
udito l’Avvocato CARLA PREVITI;
udito l’Avvocato FABRIZIO BERLIRI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. AURELIO GOLIA che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

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7155/2003;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Marina Punturieri, coniugata Ripa Di Meana, conveniva
in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, la s.p.a. RTI Reti Televisive Italiane, osservando che in data 21 ottobre
avvicinata,

stata

abitazione, da una

troupe

all’uscita

della propria

televisiva composta da Stefano

Salvi, collaboratore del programma Striscia la notizia,
un cameraman; in particolare,
aggredita
ingiuriose,

con

l’intervistatore l’aveva

tendenziose,

domande

provocatorie

la possibilità di

senza darle

e da

ed

sottrarsi

all’intervista. Poiché il filmato era stato messo in onda più
volte sulla rete

Canale

5, l’attrice chiedeva la condanna

della convenuta al risarcimento dei danni conseguenti al
carattere gravemente diffamatorio della vicenda.
Costituitasi la società convenuta, il Tribunale di Roma,
con sentenza del 20 gennaio 2003, accoglieva in parte la
domanda e condannava la s.p.a. RTI al pagamento della somma
di euro 22.500, oltre interessi legali e con il carico delle
spese.
2. Avverso la sentenza di primo grado proponevano appello
principale la società soccombente ed appello incidentale la
Punturieri.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 9 ottobre
2006, rigettava entrambi gli appelli e, dopo aver compensato
per metà le spese del grado, poneva l’ulteriore metà a carico
dell’appellante principale.

3

era

1994

Osservava

la

Corte

territoriale,

in

riferimento

all’appello principale, che dalla visione della registrazione
della trasmissione era emerso che il giornalista non aveva
alcuna intenzione di realizzare un servizio finalizzato ad
evidenziare presunti comportamenti politici non corretti

realizzare un piccolo

show,

incentrato sulla provocazione

violenta e gratuita dell’attrice e sulla conseguente reazione
della medesima». L’intervistatore Salvi, infatti, pur avendo
la donna tentato gentilmente di sottrarsi all’intervista,
l’aveva immediatamente attaccata con comportamenti
aggressivi, rivolgendole epiteti diffamatori quale vigliacca,
ed accusandola di aver mangiato per anni con i socialisti. Il
tutto mentre alla Punturieri non era consentito neppure
«rispondere alle presunte domande con frasi minimamente
articolate».
Ciò posto,

la Corte romana rilevava che simili

comportamenti sono del tutto incompatibili con il diritto di
cronaca e di critica, in quanto l’art. 21 della Costituzione
non tutela la libertà di provocazione. Allo stesso modo, poi,
non era ipotizzabile neppure il diritto di satira, perché
esso – diretto a suscitare ilarità nello spettatore e spesso
rivolto a porre in ridicolo singoli personaggi noti del mondo
della politica – non può comunque essere asservito, per
costante giurisprudenza, ad un fine meramente denigratorio,

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della Punturieri, ma aveva «sin dall’inizio mirato a

né risolversi in forme di puro dileggio, sicché la satira non
può sfuggire al limite della correttezza.
In ordine all’appello incidentale della Punturieri, la
quale lamentava l’esiguità del risarcimento, la Corte
d’appello ribadiva che non c’era prova della sussistenza di

compiuta dal Tribunale doveva essere confermata, trattandosi
di un risarcimento oggetto di valutazione equitativa. D’altra
parte – osservava il giudice di appello – «la riparazione
pecuniaria della lesione dell’immagine professionale della
persona non può essere ridotta a misure tali da sfiorare il
carattere meramente irrisorio».
3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma
propone ricorso per cassazione la s.p.a. RTI – Reti
Televisive Italiane, con atto contenente quattro motivi.
Resiste la Punturieri con controricorso.
La R.T.I. s.p.a. ha presentato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Col primo motivo di ricorso si lamenta violazione e
falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n.
3), cod. proc. civ., dell’art. 21, primo comma, Cost., in
tema di diritto di cronaca.
Rileva la ricorrente che la sentenza impugnata, pur
avendo ammesso che il

revirement

politico addebitato alla

Punturieri poteva avere un qualche rilievo pubblico, ha poi
negato l’esistenza del diritto di cronaca. La Corte di merito

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un danno patrimoniale e che la liquidazione del danno morale

non avrebbe tenuto conto del fatto che, a causa della
«desensibilizzazione del linguaggio», espressioni un tempo
considerate offensive «sono ormai penetrate nel linguaggio
comune, avendo perso ogni carica diffamatoria». Ne consegue
che la pronuncia impugnata avrebbe dato rilievo ad

notorietà della persona cui le espressioni erano state
rivolte. D’altra parte, «impedire che le domande possano
essere rivolte anche in modo incalzante e provocatorio
significa, di fatto, privare il giornalista di uno strumento
fondamentale nella formazione dell’opinione pubblica».
1.2. Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza di questa Corte ha provveduto a
delineare in modo rigoroso i limiti del diritto di cronaca
che, in quanto espressione della libertà di manifestazione
del pensiero, gode di tutela costituzionale.
È stato affermato, al riguardo, che la ricostruzione
storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli
scritti, l’accertamento in concreto dell’attitudine offensiva
delle espressioni usate, la valutazione dell’esistenza
dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica (la quale
ultima si deve esprimere nel rispetto del requisito della
continenza e, perciò, in termini formalmente corretti e
misurati ed in modo tale da non trascendere in attacchi ed
aggressioni personali, diretti a colpire sul piano
individuale la figura morale del soggetto criticato)

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espressioni in astratto offensive, senza considerare la

costituiscono accertamenti di fatto, riservati al giudice di
merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da
argomentata motivazione, esente da vizi logici ed errori di
diritto (sentenze 18 ottobre 2005, n. 20137, 15 febbraio
2006, n. 3284, e 10 gennaio 2012, n. 80, relativa ai limiti

detto, in tema di diffamazione a mezzo stampa, che
l’esercizio del diritto di cronaca non consente mai di far
ritenere scriminato l’uso di espressioni gratuite e non
necessarie, volgari, umilianti o, comunque, atte al mero
dileggio di un terzo (sentenza 18 ottobre 2005, n. 20137).
La Corte di merito ha fatto corretta applicazione di
detti principi. Con motivazione correttamente argomentata e
priva di vizi logici, infatti, ha spiegato che non c’è stata
alcuna intervista nei confronti della Punturieri. Ella,
infatti, è stata avvicinata «con un atteggiamento
platealmente ed insistentemente rivolto ad impedirle di
allontanarsi», poiché il Salvi le si è rivolto profferendo
frasi offensive al suo indirizzo e, in pratica, predisponendo
una sorta di piccolo

show

televisivo con l’obiettivo di

determinare la reazione della vittima la quale, dopo aver
inizialmente tenuto toni «del tutto misurati», si è lasciata
andare a comportamenti violenti. Nella specie, quindi, la
Corte di merito ha chiarito che il giornalista non era
affatto interessato a dare conto delle scelte politiche
assunte dalla Punturieri – il che, ragionando in astratto,

7

OAC’

dell’esimente del diritto di cronaca). Allo stesso modo si è

avrebbe potuto trovare un suo fondamento nel diritto di
cronaca – bensì soltanto a «costruire un prodotto televisivo
che risultasse appetibile in un orario di massimo ascolto,
contando sulla reazione violenta della Punturieri».
Alla luce di simile ricostruzione dei fatti, che questa

dal giudice d’appello sono del tutto condivisibili: non è
ipotizzabile, infatti, alcun diritto di cronaca e neppure,
eventualmente, di satira attraverso il mero strumento della
provocazione che non trova alcuna protezione nell’ambito
dell’art. 21 della Costituzione. Non si tratta, quindi, come
ipotizza la parte ricorrente, di una «desensibilizzazione del
linguaggio» che avrebbe fatto venire meno l’aspetto
diffamatorio delle espressioni usate, perché il problema non
riguarda il linguaggio – sul quale, infatti, il giudice di
merito nulla dice – ma le modalità concrete dell’episodio
assunto nella sua globalità; episodio che rimane confinato
nell’ambito di un’aggressione che non ha nulla a che vedere
col diritto di cronaca costituzionalmente garantito.
2.1. Col secondo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi
dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.,
violazione e falsa applicazione dell’art. 610 del codice
penale.
Secondo la ricorrente, la Corte d’appello ha fatto
riferimento ad un atteggiamento del Salvi volto ad impedire
alla Punturieri di sottrarsi all’intervista, comportamento

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Corte non ha il potere di modificare, le conseguenze tratte

che si sarebbe risolto in una sorta di violenza morale.
Secondo la giurisprudenza penale, per integrare il delitto di
violenza privata non è sufficiente una condotta che determini
una costrizione, essendo invece necessaria la presenza della
violenza o della minaccia; né il Tribunale né la Corte

comportamenti tali da suscitare un timore idoneo a
costringere la Punturieri a sottoporsi all’intervista.
2.2. Il motivo, ai limiti dell’inammissibilità, non è
comunque fondato.
La sentenza impugnata non ha in alcun modo accertato,
neppure in via incidentale, l’esistenza del reato di violenza
privata, bensì solo di un comportamento aggressivo ed
ingiurioso che aveva impedito alla vittima di rispondere in
modo articolato alle domande poste o di sottrarsi
all’intervista. Il giudizio civile, infatti, non era
finalizzato all’accertamento dell’esistenza di un reato,
bensì soltanto a chiarire la natura diffamatoria del
comportamento assunto dai dipendenti della società oggi
ricorrente.
Così inquadrati correttamente i termini del problema,
risulta evidente che il quesito formulato alla p. 9 del
ricorso dimostra di non cogliere la

ratio decidendi

della

sentenza impugnata, rispetto alla quale pone una questione
che è, in effetti, eccentrica e priva di rilevanza ai fini
della decisione.

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d’appello, invece, hanno rilevato l’esistenza di

3.1. Col terzo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi
dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.,
violazione e falsa applicazione dell’art. 10 cod. civ. e
degli artt. 96 e 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633.
Si rileva, in proposito, che la Corte d’appello ha

liquidazione del danno patrimoniale all’immagine.

Non

risulterebbe, peraltro, in cosa sia consistita la violazione
della sfera privata, perché l’intervista è stata effettuata
sulla pubblica via, era rivolta contro un personaggio noto
all’opinione pubblica e l’argomento oggetto dell’intervista
aveva rilievo pubblico, riguardando le scelte di appartenenza
politica della Punturieri. La Corte d’appello, quindi,
avrebbe dovuto ravvisare gli elementi previsti dal citato
art. 97 per la diffusione dell’immagine senza il consenso
dell’interessata.
3.2. Il motivo – che, analogamente al precedente, non
coglie la

ratio decidendi della sentenza impugnata – non è

fondato.
La sentenza impugnata ha affermato, nel momento in cui si
è occupata del problema della determinazione del danno da
risarcire, che l’accertata condotta diffamatoria, cui ha
fatto seguito la reazione violenta della vittima, «potrebbe
aver avuto una sua oggettiva potenzialità lesiva riguardo
alla commercializzazione del marchio “Marina Lante della
Rovere” nel mondo dell’abbigliamento e della moda per

10

confermato la sentenza di primo grado sul punto della

signora». Contestualmente, però, la sentenza ha anche
aggiunto che tale astratta possibilità non era stata
supportata da alcuna idonea prova concreta di una qualche
diminuzione patrimoniale conseguente all’episodio di cui si
discute, tanto che ha poi liquidato il danno (morale) in via

Nella sentenza in esame, perciò, manca ogni riferimento
alla lesione del diritto all’immagine tutelato dalle norme
della legge sul diritto d’autore invocate nel motivo di
ricorso, sicché non ha senso occuparsi in questa sede dei
limiti nei quali è consentita la diffusione dell’immagine
altrui.
4.1. Col quarto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi
dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.,
violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2043 e 2697
del codice civile.
La Corte di merito, infatti, ha confermato la sentenza di
primo grado sul profilo della liquidazione del danno morale
soggettivo. Tale danno, però, sarebbe stato riconosciuto
senza un’effettiva prova sul punto, come invece necessario
alla luce della giurisprudenza di questa Corte
sull’argomento.
Il motivo è sostenuto dal seguente quesito di diritto:
«dica la Suprema Corte se, in assenza di elementi
probatori da cui far ritenere sussistente un perturbamento
psichico risarcibile, ed altresì essendo presenti circostanze

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equitativa.

da cui si desume che detto perturbamento consiste in una
reazione assolutamente spropositata, non riconducibile, in
virtù di un nesso di causalità adeguata, al fatto illecito
contestato, sia o no risarcibile il danno morale soggettivo».
4.2. Il motivo è inammissibile.

di diritto sopra trascritto, che la censura relativa alla
liquidazione del danno morale presuppone, per il suo
eventuale

accoglimento,

una

diversa

ricostruzione

dell’episodio di cui si discute. Dire, infatti, che la
reazione della Punturieri è stata assolutamente spropositata,
mentre da un lato impone una nuova valutazione dei fatti che
è sottratta ai poteri di questa Corte, dall’altro si rivela
anche non concludente in vista dell’obiettivo che si vuole
raggiungere, ossia quello di escludere l’esistenza di un
danno morale risarcibile.
5. In conclusione, il ricorso è rigettato.
A tale esito segue la condanna della parte ricorrente
alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità,
liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal
decreto ministeriale 20 luglio 2012, n. 140, sopravvenuto a
disciplinare i compensi professionali.
PER QUESTI MOTIVI

La Corte rigetta il ricorso e

condanna la ricorrente al

pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate

12

0A)L

Risulta evidente, infatti, dalla formulazione del quesito

in complessivi euro 4.700, di cui euro 200 per spese, oltre
accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della

Terza Sezione Civile, il 24 aprile 2013.

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