Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14532 del 16/06/2010

Cassazione civile sez. trib., 16/06/2010, (ud. 28/04/2010, dep. 16/06/2010), n.14532

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ALTIERI Enrico – Presidente –

Dott. SOTGIU Simonetta – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – rel. Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

IACP PROVINCIA DI NAPOLI in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE

22, presso lo studio dell’avvocato CUCCIA ANDREA, rappresentato e

difeso dall’avvocato BOCCHINI ERMANNO, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CERCOLA – UFFICIO TRIBUTI;

– intimato –

sul ricorso 11681-2006 proposto da:

COMUNE DI CERCOLA in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA LUDOVISI 35, presso lo studio dell’avvocato

LAURO MASSIMO, rappresentato e difeso dall’avvocato FIORENTINO

GIOVANNI, giusta delega in calce;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

IACP PROVINCIA DI NAPOLI in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE

22, presso lo studio dell’avvocato CUCCIA ANDREA, rappresentato e

difeso dall’avvocato BOCCHINI ERMANNO, giusta delega a margine;

– controricorrente avverso ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 398/2005 della COMM. TRIB. REG. di NAPOLI,

depositata il 04/10/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/04/2010 dal Consigliere Dott. CARLO PARMEGGIANI;

udito per il ricorrente l’Avvocato CUCCIA, per delega dell’Avvocato

BOCCHINI, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale;

udito per il resistente l’Avvocato FIORENTINO, che ha chiesto il

rigetto del ricorso principale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale, e incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’Istituto Autonomo Case Popolari della Provincia di Napoli (I.A.C.P.) impugnava l’avviso di liquidazione con il quale il Comune di Cercola intimava il pagamento dell’ICI relativa all’anno 1997 in relazione ad immobili in disponibilità dell’Istituto ubicati nel territorio comunale sostenendo la nullità dell’avviso, la inesistenza del presupposto impositivo, ed in subordine chiedendo la riduzione dell’importo richiesto e la esclusione di sanzioni ed interessi.

La Commissione Tributaria Provinciale di Napoli respingeva il ricorso.

Proponeva appello l’Istituto, e la Commissione Tributaria Regionale di Napoli, con sentenza n. 398 in data 3-10-2005, depositata il 4-10- 2005, respingeva il gravame.

Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione l’Istituto, con quattro motivi.

Resiste il Comune con controricorso, illustrato da memoria, e formula ricorso incidentale.

L’Istituto resiste con controricorso al ricorso incidentale.

Il procedimento già fissato per trattazione in Camera di consiglio, ex art. 375 c.p.c. è trasmesso alla pubblica udienza per profili di novità della questione trattata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso l’Istituto ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. 2 dicembre 2005, n. 248, art. 7, comma 2 bis, che converte, con modifica, il D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 1, comma 134 Legge Finanziaria 2006, D.Lgs 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, lett. i).

Espone che dopo il deposito della sentenza di appello è entrato in vigore la L. 2 dicembre 2005, n. 248, art. 7, comma 2 bis, che modifica il testo originario del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7. A seguito della modifica, che recita ” l’esenzione disposta dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i), si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera, a prescindere dalla natura eventualmente commerciale della stesse.” Ne consegue, ad avviso dell’ente ricorrente, che in forza di tale legge interpretativa sopravvenuta, invocabile in questa sede in quanto non deducibile in appello, sussistono entrambi i requisiti, soggettivo ed oggettivo, ritenuti in passato necessari dalla giurisprudenza di questa Corte per la applicazione della esenzione in parola, in quanto 1) sotto il profilo soggettivo la I.A.C.P. è un ente pubblico non economico, ovvero dedito ad attività assistenziale, non finalizzata all’ottenimento di un profitto; 2) sotto quello oggettivo, ovvero della attività svolta,viene meno l’ostacolo costituito dalla eventualmente ritenuta natura commerciale della attività medesima.

Con il secondo motivo, deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. i) ed insufficienza e contraddittorietà di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e 5.

Assume infatti che l’intervento legislativo di cui sopra conferma la interpretazione da darsi al disposto normativo citato sostenuta da esso ricorrente nelle fasi di merito, anche nella versione antecedente alla modifica.

Sostiene che è errata la affermazione della sentenza impugnata, secondo cui la esenzione son si applica in quanto da un lato non vi sarebbe un utilizzo diretto degli immobili da parte dell’ente, che li concede in locazione ai terzi beneficiari, e dall’altro il godimento degli stessi sarebbe subordinato al pagamento di un canone, inferiore a quello di mercato ma pur sempre corrispettivo destinato a remunerare il capitale investito.

Rileva, sotto il primo profilo, che assegnando le case ai meno abbienti l’ente fa un uso diretto, e non indiretto, del bene in quanto tale modalità di utilizzo coincide con la attività istituzionale dell’ente pubblico non economico. Sotto il secondo profilo, lo squilibrio istituzionalmente previsto tra il canone al prezzo di mercato e quello di assegnazione è così grande da escludere ogni finalità di lucro e portare alla conclusione di una qualifica unicamente assistenziale della attività dell’ente.

In subordine, deduce la incostituzionalità della norma per violazione degli artt. 3, 43. 47 e 53 Cost., non essendo condivisibile la sentenza contraria del Giudice delle L. n. 113 del 1996.

Con il terzo motivo deduce vizio logico di motivazione della sentenza, sul rilievo che non può ritenersi produttiva di reddito, come sostenuto dalla Commissione la attività dell’ente in quanto implica la percezione da parte del medesimo di canoni, quando detti canoni hanno una entità concreta irrisoria rispetto agli usuali valori commerciali.

Con il quarto motivo lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 3, comma 2, nel testo vigente “ratione temporis”.

Espone che la disposizione in parola prevedeva che in caso di esistenza di diritto di superficie sull’immobile il soggetto obbligato al pagamento dell’ICI era il concedente, e non il superficiario, se pur con diritto di rivalsa del primo sul secondo.

Fa quindi presente che l’Istituto era titolare, e non concedente, del diritto di superficie. Assume quindi che l’opinamento giurisprudenziale, secondo cui a seguito della edificazione sul terreno concesso in superficie l’obbligo di pagamento della imposta grava sul costruttore ed utilizzatore dell’edificio, non è fondata sulla base del testo di legge, che recita: “per gli immobili concessi in superficie soggetto passivo è il concedente” rimanendo irrilevante il fatto della edificazione come si ricava dal testo dell’art. 952 c.c., avente ad oggetto detto diritto reale. Il ricorrente deduce inoltre, senza qualificarla come autonomo motivo, ma definendola come eccezione di contraddittorietà della motivazione, una doglianza in ordine alla mancata esclusione di soprattasse ed interessi da parte del giudice di appello, il quale non avrebbe considerato la obbiettiva incertezza della norma, e la assenza di volontà del contribuente di compierne la violazione, con il venir meno del presupposto applicativo di sanzioni ed interessi.

Il Comune nel controricorso contesta la fondatezza della argomentazioni dell’Istituto e formula ricorso incidentale.

Con il primo motivo lamenta violazione del combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15 e dell’art. 92 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in quanto la Commissione ha rigettato la istanza del Comune di condanna della controparte alle spese di entrambi i gradi di giudizio, rigettandola per il primo grado e compensando le spese del secondo, sulla base di un asserito tuttora vigente contrasto giurisprudenziale che invece non esisteva più alla data di introduzione di entrambi i ricorsi, essendo già consolidata nel senso confermato da entrambi i giudici di merito.

In via subordinata, per il caso di ritenuta applicazione alla fattispecie della nuova formulazione del D.Lgs n. 504 del 1992, art. 7, lett. i), di cui alla L. 2 dicembre 2005 n. 248, solleva eccezione di incostituzionalità della norma ove ritenuta retroattiva, in violazione degli artt. 3 e 119 Cost., per ,manifesta irragionevolezza e violazione del principio dell’affidamento sulla stabilità dell’ordinamento giuridico. Nessuno dei motivi del ricorso principale pare fondato.

Quanto al primo,occorre prendere atto che la norma di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. 1) è stata oggetto di ripetuto intervento legislativo, e precisamente, per quanto in questa sede interessa:

– L. 2 dicembre 2005, n. 248 (di conversione del D.L. 30 settembre 2005, n. 203), che ha inserito nel D.L. convertito, art. 7, il comma 2 bis del seguente tenore testuale: “l’esenzione disposta dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i), si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse”;

– L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 2, comma 133 che, a sua volta, ha aggiunto, in fine al comma 2 bis detto, il seguente periodo: “con riferimento ad eventuali pagamenti effettuati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto non si fa comunque luogo a rimborsi e restituzioni d’imposta”;

– D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 39 (convertito in L. 4 agosto 2006, n. 248) – specificamente rubricato “modifica della disciplina di esenzione dall’ICI” – che, infine, ha sostituito il riprodotto testo originario del comma 2 bis con il seguente: “l’esenzione disposta dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale”.

Come già questa Corte ha avuto modo di osservare (v., Cass. n. 24500 del 2009) le disposizioni di cui sopra non possono definirsi di interpretazione autentica, e pertanto non hanno effetto retroattivo.

Deve a tale proposito rilevarsi che la Corte delle leggi (sentenza n. 119 del 1999) ha chiarito che l’esenzione dall’ICI prevista “al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. b), e), d), g), h), i)” riguarda sempre “immobili destinati ad attività peculiari che non siano produttive di lucro e di reddito”. La necessità, affermata dalla Corte Costituzionale, che, ai fini del riconoscimento dell’esenzione prevista dalla norma, le attività esercitate negli immobili “non siano produttive di lucro e di reddito” costituisce, quindi, secondo la stessa Corte, imprescindibile condizione (anche logico giuridica) per la delimitazione della fattispecie legale della esenzione prevista dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7: di conseguenza – tenuto conto che, come più volte precisato dalla Corte Costituzionale (di recente nel provvedimento 27 luglio 2007 n. 330) “la retroattività propria dell’interpretazione autentica non tollera logicamente eccezioni al significato attribuito alla legge interpretata” non può ritenersi che rientri “nell’area semantica della disposizione” (ovverosia “tra le possibili letture del testo originario”) dettata dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. i) (“area” e “letture” cui, secondo Corte Cost., 7 novembre 2008 n. 362, occorre fare riferimento al fine di riscontare la “natura interpretativa” di una norma) la successiva disposizione con la quale il legislatore ha stabilito che l’esenzione in questione “si intende applicabile” alle “attività”‘ indicate nella lettera che le concerne (L. n. 248 del 2005) “a prescindere dalla natura eventualmente commerciale” delle stesse, e, successivamente (D.L. n. 223 del 2006, convertito nella L. n. 248 del 2006), se quelle attività “non abbiano esclusivamente natura commerciale”; essendo evidente che le due previsioni circa la rilevanza (peraltro di differente ampiezza per ciascuna norma), ai fini dell’esclusione dall’imposta, della “natura commerciale” dell’attività svolta nell’immobile (altrimenti soggetto all’imposta stessa) tolgono valore in tutto od in parte – imponendo una valutazione ermeneutica della disciplina normativa del tutto diversa dalla precedente – alla considerazione da attribuirsi alla “produzione di lucro e di reddito” già ritenuta, anche dalla Corte delle leggi (sentenza n. 119 del 1999 cit), ostativa al riconoscimento dell’esclusione dall’imposta in base alla sola previsione dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. i.) Si deduce da quanto sopra che nelle indicate sopravvenute norme manca qualsiasi carattere di interpretazione autentica perchè esse – imponendo di comunque valutare la “natura commerciale” dell’attività espletata, considerata (anche dalla Corte delle leggi) ostativa all’esclusione dall’imposta in base all’art. 7, lett. i) – innovano la disciplina di quello che la Corte Costituzionale (ord. 19 dicembre 2006 n. 429) ha definito il “requisito oggettivo delle attività da svolgersi negli immobili ai fini dell’esenzione dall’ICI” e, di conseguenza, che (diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente) nessuna di esse è applicabile alla fattispecie essendo questa regolata dal testo del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7 vigente al momento di riferimento dell’imposta, nel caso ampiamente anteriore all’entrata in vigore delle nuove norme. Ne consegue che nessun rilievo può darsi, ai fini della soluzione della presente controversia, alle novelle legislative sopra considerate. Tanto premesso, il secondo motivo appare chiaramente infondato. Come questa Corte ha avuto modo di osservare (v. Cass. n. 8054 del 2005) – ferme restando la qualità soggettiva degli IACP, quali “enti pubblici creati dallo Stato per il soddisfacimento di un proprio fine, che si identifica con l’interesse e l’obbligo sociale di costruire appartamenti economici da porre a disposizione delle categorie di cittadini meno abbienti e più bisognosi” e l’assenza di finalità di lucro e di modalità mercantili (C. cost., sent. n. 193/1976, – la considerazione su cui si fondano le sentenze C. cost. nn. 113/1996 e 119/1999, circa il carattere “patrimoniale” dell’imposta comunale sugl’immobili, dovuta in misura predeterminata in relazione a fabbricati e terreni posseduti senza alcun riferimento ad indici di produttività, porta ad escludere che l’esenzione di un’intera categoria d’immobili (quelli di edilizia residenziale pubblica) possa arguirsi – in assenza di esplicita previsione normativa ed in materia regolata dal principio di stretta legalità – dalla loro pretesa destinazione “esclusiva” allo svolgimento di attività assistenziali (articolo 7, lett. i), D.Lgs. citato.) Tale opinione è, ovviamente, confortata dal giudizio, più volte espresso dalla corte costituzionale, per cui la scelta legislativa di non esenzione degli IACP dall’ICI non riveste profili d’irrazionalità; che anzi, “in tema di imposte patrimoniali, … non (è) manifestamente irrazionale presumere che i fabbricati ricevano, più di ogni altra fonte di reddito, particolari benefici dai servizi e dalle attività gestionali del comune” (C. cost., sent. n. 119/1999, dalla motivazione, con richiamo alle precedenti sentenze nn. 111/1997 e 159/1985).

A ciò devesi aggiungere che, secondo un’interpretazione condivisa dal collegio, già espressa da questa suprema corte (Cass. n. 18549/2003) in relazione alla norma di esenzione in esame, il beneficio dell’esonero dall’imposta ivi previsto non consegue al solo fatto che l’immobile sia destinato esclusivamente ad attività assistenziale, essendo altresì necessaria l’utilizzazione diretta di esso, a tal fine, da parte dell’ente possessore: condizione mancante nel caso di specie, relativo all’ipotesi di edilizia residenziale pubblica, allorchè l’utilizzazione “diretta” degli immobili, per finalità abitative, è realizzata dagli assegnatari, e non dall’ente.

Nè merita accoglimento la tesi del ricorrente, secondo cui la destinazione degli immobili a finalità istituzionalmente previste configura in ogni caso una forma di utilizzazione diretta, in quanto la norma è di stretta interpretazione ed il significato non può essere esteso al di là del dato letterale.

Peraltro, come sottolineato nel punto che precede, la attività dell’ente è indubbiamente caratterizzata da finalità assistenziali, ma in essa è insita anche una caratteristica commerciale, in quanto percepisce dagli assegnatari canoni che vanno a remunerare, almeno in parte, il capitale investito.

La osservazione del ricorrente .secondo cui il canone è talmente irrisorio da poter essere considerato irrilevante, rappresenta da un lato una questione di fatto non valutabile in questa sede, dall’altro urta in ogni caso con il rigoroso requisito della assenza di profitto richiesta dalla norma in questione secondo la interpretazione confermata dal Giudice delle Leggi. A tale proposito, la eccezione di incostituzionalità dell’art, 7 citato nella ipotesi, come quella attuale, di non attribuzione della esenzione ivi prevista allo I.A.C.P. è palesemente infondata risolvendosi in una critica alla sentenza della Corte Costituzionale n. 113 del 1996,con cui contesta la asserita esistenza di un lucro in capo all’ente con la considerazione che l’eventuale profitto, dedotti i costi, dovrebbe essere versato alla Cassa Depositi e Prestiti, quindi allo stato.

L’assunto non è condivisibile in quanto la caratteristica commerciale della attività espletata non viene meno in forza della destinazione data al successivo utilizzo dell’eventuale profitto conseguito.

Il terzo motivo è infondato per le stesse argomentazioni di cui sopra, in quanto da un lato non esiste alcuna illogicità o carenza di motivazione sul punto nella sentenza impugnata, e dall’altro la considerazione del reddito T percepito, anche se modesto, non può essere annullata per considerazioni generiche di ordine comparativo con l’ammontare dei canoni del libero mercato.

Quanto al quarto motivo, è principio assodato che il titolare della proprietà superficiaria del fabbricato costruito su una area sulla quale il costruttore ha ottenuto la concessione di tale diritto reale, è soggetto all’ICI. Tale principio è stato testualmente affermato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 200 del 1999, la quale, dopo avere osservato che la imposizione tributaria in capo al concedente anzichè al titolare del diritto, sia pure con diritto di rivalsa, derivava dalla assenza nella legge delega di ogni riferimento al superficiario quale soggetto passivo dell’ICI, ha tuttavia riconosciuto che tale ipotesi si distingue dalla proprietà superficiaria che nasce successivamente alla esecuzione della costruzione.

In tale caso, infatti ” pur esistendo due beni, la costruzione ed il suolo, oggetto di distinti diritti di proprietà, l’ICI, sarà dovuta ai sensi di quanto disposto dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 3, n. 1, soltanto dal proprietario superficiario del fabbricato, restandone invece escluso il concedente proprietario del suolo. E ciò per l’ovvia ragione che il suolo su cui insiste il fabbricato, non essendo qualificabile nè come area edificabile, nè come terreno agricolo, (cfr. D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 2, lett. b) e c) non rientra nel novero di quei beni che l’art. 1 del citato D.Lgs dichiara tassabili ai fini ICI”:

Le argomentazioni di cui sopra sono peraltro conformi alla costante giurisprudenza di questa Corte (v. da ultimo Cass. n. 4434 del 2010).

La doglianza circa la mancata esclusione di sanzioni ed interessi da parte della Commissione Regionale sulla base della supposta incertezza della normativa applicabile è infondata, essendo la motivazione contraria sul punto adottata dalla Commissione puntuale ed esaustiva, e pertanto non censurabile in questa sede di legittimità.

Il ricorso principale deve essere quindi rigettato.

Del pari, in relazione al primo motivo del ricorso incidentale non appare censurabile la disposta compensazione delle spese, rimessa alla discrezionalità del giudice di merito dall’art. 92 c.p.c., nel testo vigente “ratione temporis”.

Peraltro può notarsi che la motivazione addotta (incertezza giurisprudenziale) non può essere validamente contrastata dalle asserzioni di mero fatto e di ordine presuntivo effettuate dal Comune contro ricorrente.

Il ricorso incidentale deve quindi essere rigettato, atteso che il secondo motivo rimane assorbito in relazione alle argomentazioni esposte con riferimento alle argomentazioni esposte con riferimento al primo motivo del ricorso principale.

Attesa la relativa novità della questione attinente al “ius superveniens” e la soccombenza reciproca si compensano le spese di questa fase di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi principale ed incidentale e li rigetta.

Compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2010

 

 

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