Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14526 del 16/06/2010

Cassazione civile sez. trib., 16/06/2010, (ud. 14/04/2010, dep. 16/06/2010), n.14526

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ALTIERI Enrico – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

BANCA MPS SPA, in persona del Direttore Generale e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE

BRUNO BUOZZI 102, presso lo studio dell’avvocato FRANSONI GUGLIELMO,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato RUSSO PASQUALE,

procura speciale Notaio Dr. VIERI GRILLO in Siena REP. 184474 del

28/9/2007;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI IVREA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA FLAMINIA 79/A, presso lo studio dell’avvocato

LUBRANO FILIPPO, rappresentato e difeso dall’avvocato SARACCO GIANNI

MARIA, giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 38/2006 della COMM. TRIB. REG. di TORINO,

depositata il 19/01/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

14/04/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito per il ricorrente l’Avvocato FRANSONI GUGLIELMO, che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avvocato LUBRANO FILIPPO per delega Avv.

SARACENO, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

La Banca Monte Paschi di Siena S.p.a. ha impugnato l’avviso di liquidazione emesso dal Comune di Ivrea per il pagamento della maggiore ICI per il 2001 e relative sanzioni per omessa dichiarazione, non riconoscendo il vincolo di particolare interesse storico ed architettonico degli immobili, a norma della L. n. 1089 del 1939, invocato dalla banca, la quale lamentava, in primo luogo, che la violazione dell’obbligo di dichiarazione poteva sanzionarsi solo per il primo anno, con conseguente non irrogabilità in quello in contestazione.

La C.T.P. rigettava il ricorso. Con la sentenza indicata in epigrafe, la C.T.R. respingeva l’appello della banca contribuente, ritenendo:

a. che la sanzione era dovuta perchè la violazione di omessa dichiarazione è ripetuta nel tempo ed il periodo d’ imposta in esame è il primo in cui era stata contestata; b. l’agevolazione non poteva essere applicata perchè agli atti risultava che il vincolo non era trascritto nei pubblici registri immobiliari, condizione indispensabile per i benefici di legge.

Ricorre per cassazione la banca; resiste il Comune con controricorso, illustrato con memoria, nel quale chiede il rigetto del ricorso.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia il vizio di violazione e falsa applicazione del L. n. 1089 del 1939, art. 2 e del D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 8 e D.Lgs. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5, lamentando che la CTR ha illegittimamente attribuito efficacia costitutiva, anzichè di pubblicità, alla trascrizione nei registri immobiliari della dichiarazione d’interesse storico e artistico, facendo discendere dalla sola sua omissione l’impossibilità di applicare i benefici fiscali in questione.

Al riguardo, si osserva che, nel caso in esame, è del tutto fuori luogo il richiamo alla trascrizione della dichiarazione di interesse culturale nei registri immobiliari operato nella sentenza impugnata.

A prescindere dall’annosa disputa dottrinale, in ordine alla funzione cui assolve detta trascrizione (costitutiva, notiziale o di pubblicità dichiarativa), nessuno ha mai messo in dubbio che la trascrizione spieghi la propria funzione, qualunque essa sia, esclusivamente nei confronti dei terzi eventuali aventi causa, ferma restando l’efficacia del vincolo nei confronti del proprietario del bene cui sia stato notificato il provvedimento. Nella specie, non vi è stata alcuna vicenda traslativa in relazione alla quale possa avere rilievo la trascrizione della dichiarazione ai fini dell’opponibilità del vincolo da parte dell’Amministrazione agli aventi causa dell’originario proprietario. Ricorre, invece, la differente ipotesi del proprietario originario del bene (che medio tempore ha cambiato forma giuridica, in forza del mutato contesto normativo dell’assetto proprietario degli enti creditizi) il quale, al contrario, intende opporre all’Amministrazione comunale la persistenza del vincolo a fini di agevolazione fiscale.

Rispetto a tale ipotesi va esaminata, invece, la questione sollevata nel secondo motivo, con il quale la contribuente denuncia violazione della L. n. 1089 del 1939, artt. 3 e 4 e D.L. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5, per avere la C.T.R. illegittimamente negato la natura “reale” del vincolo d’interesse storico e artistico, che invece segue il bene anche in caso di modifiche nella titolarità dello stesso, con conseguente diritto della banca ad usufruire dell’agevolazione fiscale in questione.

La doglianza si basa sulla tradizionale distinzione tra gli immobili di interesse storico o artistico appartenenti a “privati proprietari”, di cui alla L. n. 1089 del 1939, art. 3 e quelli di proprietà di enti pubblici o persone giuridiche private senza scopo di lucro, di cui all’art. 4. Nella motivazione della sentenza n. 345 del 24 novembre 2003, la Corte costituzionale, nell’estendere anche a questi ultimi i benefici fiscali oggetto della presente controversia, ha nitidamente sintetizzato l’evoluzione giurisprudenziale in merito a tale distinzione: “secondo una tesi più risalente, la differenza di disciplina si sostanzierebbe essenzialmente nel fatto che i beni di interesse storico-artistico appartenenti ad enti pubblici e persone giuridiche private senza fini di lucro, a differenza di quelli appartenenti a persone fisiche e società, resterebbero soggetti ex lege alle disposizioni di tutela, senza necessità di alcuno specifico provvedimento da parte dell’autorità competente ed a prescindere anche dalla loro inclusione negli elenchi previsti dallo stesso art. 4. Secondo un diverso indirizzo, che appare prevalente nella più recente giurisprudenza amministrativa, anche i beni appartenenti agli enti pubblici (ed alle persone giuridiche private senza fini di lucro) sarebbero invece sottoposti alla legislazione vincolistica solo a seguito dell’adozione di un atto formale da parte del Ministero per i beni e le attività culturali, differenziandosi il procedimento, nei due casi, solo quanto alla necessita, non richiesta per i soggetti di cui all’art. 4, di una formale notifica dell’atto amministrativo”. Una volta ritenuto che la distinzione tra i beni di interesse storico o artistico di cui alla L. n. 1089 del 1939, artt. 3 e 4, rappresentava un elemento di discrimine manifestamente irragionevole rispetto all’applicazione del beneficio fiscale in questione, il Giudice delle leggi aggiungeva che “l’esigenza di certezza nei rapporti tributari cui assolve il provvedimento formale previsto dalla L. n. 1089 del 1939, art. 3 (che, secondo un diffuso orientamento interpretativo, potrebbe mancare, come si è visto, per i beni di cui all’art. 4) ben può essere soddisfatta, per i beni appartenenti agli enti pubblici (o alle persone giuridiche private senza fini di lucro), dalla loro inclusione negli elenchi di cui allo stesso art. 4 della legge ovvero da un atto dell’amministrazione dei beni culturali ricognitivo dell’interesse storico o artistico del bene”.

Orbene, nella giurisprudenza amministrativa più recente si è consolidato l’orientamento secondo cui il vincolo storico – artistico diretto, imposto su un bene appartenente ad un ente pubblico (in quella ipotesi, territoriale) non sorge automaticamente ex lege, ma consegue solo all’adozione di un atto formale avente valore costitutivo (Cons. Stato, 6^, 8 gennaio 2003 n. 20; 6^, 8 febbraio 2000 n. 678). Nelle più recenti espressioni, la posizione “sostanzialista” ha accolto una tesi intermedia solo relativamente alla conoscenza e non all’apposizione del vincolo, affermando che “la ratio della tutela riposa nell’intrinseco valore del bene;

quest’ultimo deve essere riconosciuto dall’Autorità preposta alla tutela; a tal fine, la inclusione negli elenchi ha funzione e natura meramente dichiarativa”. L’elenco descrittivo delle cose immobili e mobili che presentano interesse artistico o storico non ha un valore costitutivo, di conseguenza, perchè per il bene di proprietà dell’ente pubblico, a prescindere dall’inclusione nell’elenco, possano scattare le forme di protezione e di tutela è necessario che presenti comunque un interesse culturale. (Cons. Stato, 6^, 23 marzo 2007 n. 1413).

La contraria e risalente opzione ermeneutica, “pur animata dal lodevole intento di sottoporre a tutela in massimo grado il consistente (e talvolta neppure censito) patrimonio immobiliare italiano, si risolveva in una indiscriminata applicazione della legislazione vincolistica, a prescindere dall’effettivo valore del bene, ed oltretutto non chiariva le ragioni per le quali i beni di pertinenza dei privati dovessero subire (sotto il profilo della tutela, e distonicamente rispetto al precetto costituzionale di cui all’art. 9 della Carta Fondamentale, che non introduce alcuna distinzione fondata sulla titolarità) un trattamento “protettivo” deteriore (per essi non si è mai dubitato della necessità della espressa preventiva apposizione del vincolo) rispetto a quelli in mano pubblica” (così, in motivazione, Cons. Stato, 6^, 20 luglio 2009 n. 4499).

Deve, quindi, concludersi che, al fine del riconoscimento del beneficio fiscale in questione, è condizione imprescindibile che anche il bene di pertinenza pubblica presenti un effettivo valore storico – artistico culturale.

La censura di cui al secondo motivo, quindi, non coglie nel segno, rivelandosi non pertinente la questione del carattere “reale”, o meno, di un vincolo storico – artistico del quale non sia stata, come nella specie, dimostrata l’esistenza (non essendo esso desumibile neanche dal tenore letterale della comunicazione del 28 luglio ’87 del Ministero per i beni culturali, indicata in ricorso, che, come rilevato in udienza dal P.G., si limitava a dare atto dell’architettura eclettica dell’immobile).

Con il terzo motivo, la contribuente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997 art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, e L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, per non avere la C.T.R. disapplicato le sanzioni amministrative nonostante ricorresse un’obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito applicativo delle norme alla base delle contestazioni in questione, allorquando il proprietario di un bene d’interesse storico artistico si trasformi da ente pubblico in società di diritto privato.

La censura si rivela inammissibile perchè formulata in violazione del canone di autosufficienza del ricorso per cassazione, non avendo la banca ricorrente specificato se ed in quali termini la domanda di disapplicazione delle sanzioni, per oggettiva incertezza interpretativa (non vertente, peraltro, nella specie direttamente sulla norma impositiva, quanto, piuttosto, sui presupposti di fatto e normativi della sua applicazione) sia stata (ri)proposta alla C.T.R..

Deve ribadirsi, infatti, che detta disapplicazione è possibile, anche in sede di legittimità, solo se domandata dal contribuente nei modi e nei termini processuali appropriati (Cass. n. 25676/08) e che la deduzione, in sede di legittimità, della violazione delle norme sopra indicate, che attribuiscono rilievo all’incertezza normativa quale causa di esclusione della sanzione, postula, ai fini dell’ammissibilità del motivo d’impugnazione, l’indicazione da parte del ricorrente dei procedimenti d’interpretazione normativa adottati e delle norme contrastanti che ne hanno costituito i risultati (Cass. n. 19638/09).

Ne deriva che, nonostante la fondatezza del primo motivo, integrata e corretta la motivazione – con le considerazioni poste a base del rigetto del secondo decisivo motivo – e respinto il terzo, il dispositivo dell’impugnata si rivela conforme a diritto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 1.600,00, di cui Euro 1.400,00 per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 14 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2010

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