Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14521 del 09/06/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 09/06/2017, (ud. 16/05/2017, dep.09/06/2017),  n. 14521

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 104/2016 R.G. proposto da:

M. IMPIANTI DI M.D. & C. S.N.C., in persona

degli amministratori p.t. Mi.Ro. e M.C.,

rappresentata e difesa dall’Avv. Lavinia Felisso, con domicilio

eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, via E. Faà di

Bruno, n. 52;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT S.P.A., rappresentata da Z.A., in virtù di

procura speciale per notaio A.S. del 26 novembre 2010,

rep. n. (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avv. Andrea

Pasqualin, con domicilio eletto in Roma, via U. De Carolis, n. 34/b,

presso lo studio dell’Avv. Maurizio Cecconi;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 1773/15

depositata il 9 luglio 2015.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 16 maggio

2017 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1. La M. Impianti di M.D. & C. S.n.c. ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, avverso la sentenza del 9 luglio 2015, con cui la Corte d’appello di Venezia ha rigettato il gravame interposto avverso la sentenza emessa l’8 luglio 2014, con cui il Tribunale di Padova aveva rigettato la domanda, proposta da essa attrice nei confronti dell’Unicredit S.p.a., di accertamento della nullità e/o inefficacia delle obbligazioni riguardanti gl’interessi passivi dovuti nell’ambito di due rapporti bancari in conto corrente, per contrasto con l’art. 1284 c.c. e con la L. 7 marzo 1996, n. 108, con la conseguente rideterminazione del saldo dei conti e la condanna della convenuta alla restituzione delle somme illegittimamente addebitate e/o riscosse.

L’Unicredit ha resistito con controricorso, illustrato anche con memoria.

Il Collegio ha deliberato, ai sensi del decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016, che la motivazione dell’ordinanza sia redatta in forma semplificata.

2. La ricorrente censura la sentenza impugnata: a) per violazione e/o falsa applicazione di legge e per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, nella parte in cui ha rigettato l’istanza di ammissione della c.t.u. da essa proposta, a causa della mancata impugnazione della dichiarazione d’inammissibilità della richiesta di esibizione della documentazione contabile, senza tener conto della natura percipiente della consulenza invocata, b) per omessa e/o contraddittoria motivazione in ordine all’intervenuta definizione del rapporto in via transattiva, c) per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, nella parte in cui ha trascurato la questione concernente l’applicazione al conto corrente d’interessi usurari ed anatocistici e della commissione di massimo scoperto.

3. Le censure sono infondate.

Com’è noto infatti, la c.t.u. non costituisce un mezzo di prova in senso proprio, ma uno strumento istruttorio al quale può farsi ricorso per una migliore valutazione di elementi acquisiti o per la soluzione di questioni che richiedano il possesso di particolari cognizioni tecniche: essa non può quindi essere utilizzata per esonerare le parti dalla prova dei fatti posti a fondamento delle rispettive domande o eccezioni, ed è legittimamente negata qualora la parte, attraverso la relativa istanza, intenda supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o deduzioni istruttorie, ovvero sollecitare una indagine esplorativa per la ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 6, 8/02/2011, n. 3130; Cass., Sez. lav., 18/04/2008, n. 10202; Cass., Sez. 3, 14/02/2006, n. 3191). A questo principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, fa eccezione soltanto l’ipotesi in cui la c.t.u. abbia carattere c.d. percipiente, ovverosia abbia ad oggetto elementi ritualmente allegati dalle parti, ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze tecniche e degli strumenti di cui dispone (cfr. tra le altre, Cass., Sez. 2, 22/01/2015, n. 1190; Cass., Sez. 1, 10/09/2013, n. 20695; Cass., Sez. 3, 13/03/2009, n. 6155). Non è tuttavia riconducibile alla predetta fattispecie la consulenza volta ad accertare, come nella specie, se, nell’ambito di un rapporto di conto corrente bancario, gl’interessi sugl’importi di volta in volta risultanti a debito del cliente siano stati calcolati ad un tasso superiore a quello soglia previsto dalla L. n. 108 del 1996, ovvero siano stati oggetto di capitalizzazione, dal momento che tale verifica, pur richiedendo il possesso di cognizioni di matematica finanziaria e tecnica bancaria, presuppone che sia stata già offerta la dimostrazione, non avente carattere tecnico, dei movimenti effettuati sul conto corrente, mediante la produzione delle relative schede o degli estratti conto periodici o di altri documenti idonei a fornirne la prova. Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, dato atto che la ricorrente aveva omesso d’impugnare la sentenza di primo grado per aver dichiarato inammissibile, in quanto generica, l’istanza di esibizione dei predetti documenti proposta dalla ricorrente, ha confermato che quest’ultima non aveva dimostrato l’andamento del rapporto di conto corrente, escludendo la possibilità di acquisire la relativa prova attraverso l’espletamento di una c.t.u. Nessun rilievo possono assumere, in contrario, la natura contabile della consulenza ed il conseguente riconoscimento al consulente della facoltà, prevista dall’art. 198 c.p.c., comma 2, di estendere il proprio esame, con il consenso delle parti, anche a documenti e registri non prodotti in giudizio, dal momento che tale disposizione si riferisce esclusivamente ai documenti accessori, cioè a quelli utili a consentire una risposta più esauriente ed approfondita al quesito posto dal giudice (cfr. Cass., Sez. 1, 27/04/2016, n. 8403; 2/12/2010, n. 24549), e non dispensa quindi in alcun modo la parte interessata dall’onere di produrre tempestivamente i documenti a sostegno della propria pretesa o di chiederne ritualmente l’esibizione, ove gli stessi siano in possesso della controparte.

4. Quanto poi all’intervenuta definizione del rapporto in via transattiva, la natura della decisione adottata dalla Corte di merito in ordine alle relative censure consente di escludere la configurabilità di un vizio di motivazione, essendo quest’ultimo riferibile esclusivamente all’accertamento dei fatti, nella specie non compiuto, in quanto la sentenza impugnata si è astenuta dall’esaminare nel merito le predette censure. La Corte territoriale ha infatti rilevato che la transazione stipulata tra le parti costituiva un’autonoma ragione di rigetto della domanda, addotta dal Giudice di primo grado in via alternativa a quella fondata sulla mancata prova della pretesa azionata, ed ha conseguentemente ritenuto che l’infondatezza delle censure mosse a questo ultimo accertamento rendesse superfluo l’esame di quelle relative al primo. Tale affermazione trova conforto nel consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ove la decisione impugnata si fondi su una pluralità di rationes decidendi tra loro distinte ed autonome, e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una di esse rende inammissibili, per sopravvenuto difetto d’interesse, quelle relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto l’eventuale fondatezza delle stesse non potrebbe in alcun caso condurre all’annullamento della decisione (cfr. Cass., Sez. lav., 4/03/2016, n. 4293; Cass., Sez. 3, 14/02/2012, n. 2108; Cass., Sez. 6, 3/11/2011, n. 22753).

5. La portata assorbente delle considerazioni svolte dalla Corte di merito relativamente alla mancata prova della pretesa azionata esclude infine la configurabilità del vizio di omessa motivazione in ordine alla legittimità della applicazione d’interessi usurari ed anatocistici e della commissione di massimo scoperto al conto corrente intestato all’attrice, trattandosi di una questione di diritto il cui esame avrebbe richiesto in via preliminare la ricostruzione dell’andamento del rapporto, impedita dalla mancata produzione della relativa documentazione e dall’accertata inammissibilità dell’istanza di esibizione.

6. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

 

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2017

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