Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14507 del 01/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 01/07/2011, (ud. 16/03/2011, dep. 01/07/2011), n.14507

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3425-2007 proposto da:

ALTAN PREFABBRICATI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE

II 326, presso lo studio dell’avvocato SCOGNAMIGLIO RENATO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BIANCHIN ROMEO, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.R., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE MARZIO

3, presso lo studio dell’avvocato IZZO RAFFAELE, rappresentato e

difeso dall’avvocato MUTARELLI GAETANO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

ROYAL & SUNALLIANCE ASSICURAZIONI S.P.A., TORO ASSICURAZIONI

S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 103/2006 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 02/09/2.006 R.G.N. 396/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2011 dal Consigliere Dott. BERRINO Umberto;

udito l’Avvocato PORCELLI VINCENZO per delega SCOGNAMIGLIO RENATO;

udito l’Avvocato RESTA DONATELLA per delega MUTARELLI GAETANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 22/6 – 2/9/06 la Corte d’appello di Trieste accolse parzialmente l’impugnazione proposta dalla Altan Prefabbricati s.p.a avverso la sentenza n. 139/04 del giudice del lavoro del Tribunale di Pordenone, provvedendo solo a ridurre i diritti e gli onorari ai quali la stessa società era stata condannata. In primo grado era stata, invero, accertata la responsabilità della predetta società nella determinazione dell’infortunio sul lavoro occorso al dipendente M.R. ed era stata, perciò, pronunziata la sua condanna a corrispondere a quest’ultimo il risarcimento del danno nella misura di Euro 359.101,50, ma nel contempo le era stato riconosciuto il diritto ad essere manlevata dalle compagnie assicuratrici Royal & Sun Alliance e Toro Assicurazioni spa.

La Corte d’appello triestina confermò tale giudizio di responsabilità, riducendo solo l’importo delle spese di condanna, come sopra premesso, e respinse, altresì, l’appello incidentale del lavoratore diretto alla rideterminazione del danno, compensando tra tutte le parti le spese del giudizio d’appello. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Altan Prefabbricati S.p.A che affida l’impugnazione a due motivi di censura.

Resiste con controricorso il M., il quale deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo la società ricorrente denunzia i vizi di violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatti controversi e decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), nonchè di violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2050 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Nel porre i relativi quesiti di diritto, la ricorrente contesta l’omessa ed insufficiente motivazione sui seguenti fatti controversi e decisivi: anzitutto, l’omessa indicazione, da parte del giudice d’appello, del motivo di adesione alla ricostruzione delle cause della asserita caduta in piedi proposta dal Ctu (urto accidentale con uno spigolo e rotazione età); la svalutazione della ricostruzione alternativa proposta da essa ricorrente (schiodatura volontaria di un asse da parte dei lavoratore, con perdita dell’equilibrio etc); la sottovalutazione della circostanza della presenza di un tombino vicino alla bocca di lupo ove era necessario che l’infortunato operasse; l’omessa motivazione sulla circostanza che le tavole erano saldate tra di loro e non era quindi possibile lo spostamento accidentale di una sola di esse, come presupposto, invece, dal Ctu;

la mancata considerazione delle contestazioni dei C.t.p, soprattutto con riferimento alla circostanza che le tavole, per il modo in cui erano state fissate, non avrebbero potuto avere cedimenti; la circostanza che per avvalorare la sua tesi il Ctu aveva presupposto che il M. fosse stato trovato riverso solo col capo sulla tavola, mentre i testi avevano riferito che vi era disteso con tutto il corpo; la mancata considerazione del fatto che le macchie ematiche provenienti dal corpo dell’infortunato erano compatibili con una sua caduta a capofitto; la sopravvalutazione delle dichiarazioni rese in sede di accertamento ispettivo rispetto a quelle rese in sede testimoniale; l’aver trascurato il particolare che il M. non aveva bisogno di passare sopra la bocca di lupo per la semplice ragione che stava lavorando nei pressi della stessa per l’esecuzione dei lavori di rifinitura della posa del marmo; l’omessa rinnovazione della Ctu; infine, le conclusive affermazioni sulla responsabilità datoriale ex artt. 2087 e 2050 c.c., pur in mancanza di una prova della concreta dinamica dell’infortunio occorso. Il motivo è infondato.

Invero, attraverso le suddette doglianze la ricorrente non fa altro che porre in essere i presupposti per un inammissibile tentativo di rivisitazione delle risultanze istruttorie ben vagliate dal giudice di merito con argomentazioni logico-giuridiche che sfuggono ai rilievi di legittimità.

Invero, la Corte d’appello condivise la sentenza sulla base del fatto che la ricostruzione della dinamica dell’evento in essa contenuta poggiava, a sua volta, sull’elaborato peritale immune da vizi logici, in quanto eseguito sulla scorta della disamina degli atti redatti dagli ispettori SPSAL in sede di accertamento avvenuto nell’immediatezza del fatto stesso.

Nella sentenza vengono riepilogati gli esiti degli accertamenti eseguiti in loco dagli ispettori nella immediatezza dell’evento (posizione della tavola, forma e piegatura dei chiodi, posizione del corpo, direzionalità della caduta, tracce ematiche, vicinanza del luogo di lavoro del M. a quello di caduta, presenza di un distanziatore di legno all’interno della bocca di lupo utilizzata per bloccare i profilati in acciaio interni al foro ove era avvenuta la caduta che escludeva che il “morale centrale”, cioè l’asse posto in senso trasversale su cui poggiava la tavola caduta che secondo la tesi societaria sarebbe stato schiodato dal lavoratore, fosse stato mancante al momento dell’incidente) ed anche le dichiarazioni rese in quella sede, confermate dal teste Ma., oltre che indizi precisi (il pannello caduto non ostacolava affatto, secondo il Ctu, le opere di pavimentazione che il M. stava eseguendo; i dichiaranti Z. e Za. riferirono agli ispettori che sovente gli addetti ai lavori utilizzavano il passaggio sull’apertura in cui cadde il M. per i loro spostamenti nell’area di lavoro;

assenza di lesioni alle braccia ed alle mani) convergono tutti sul fatto che si trattò di una caduta non dipesa da azione avventata del lavoratore e favorita, anzi, dalla mancanza riscontrata degli accorgimenti tecnici atti ad evitarla, tanto che la società si adeguò sollecitamente alle prescrizioni dettate con provvedimento del 18/11/98 dal Servizio di Prevenzione della USL (OMISSIS) di Venezia.

D’altra parte si è già avuto modo di affermare (Cass., sez. lav., 08-04-2002, n. 5024) che “l’obbligo del datore di lavoro di garantire la salute del lavoratore in quanto bene primario e indisponibile sussiste anche in relazione alle condotte volontarie e di segno contrario del dipendente, sicchè è configurabile, ai sensi dell’art. 2087 c.c., la responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio subito da un dipendente per l’esercizio dell’attività lavorativa anche a fronte di una condotta imprudente di quest’ultimo, se tale condotta è stata determinata, o quanto meno agevolata, da un assetto organizzativo del lavoro non rispettoso delle norme antinfortunistiche, assetto conosciuto o colpevolmente ignorato dal datore di lavoro, che nulla abbia fatto per modificarlo al fine di eliminare ogni fonte di possibile pericolo”.

Inoltre, è bene ricordare che “in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dai giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti).” (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).

Orbene, nella fattispecie in esame può tranquillamente affermarsi che, nel loro complesso, le valutazioni de materiale probatorio operate dal giudice d’appello appaiono sorrette da argomentazioni logiche e perfettamente coerenti tra di loro, oltre che aderenti ai risultati fatti registrare dall’esito delle prove orali su punti qualificanti della controversia, per cui le stesse non meritano affatto le censure di omessa disamina mosse col presente motivo di doglianza.

2. Col secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2059, 2056, 1223 e 1224 c.c., nonchè dell’art. 429 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) e si pone il seguente quesito: “Se, in caso di infortunio in occasione di lavoro, sul danno non patrimoniale (nel caso danno morale e danno biologico) vadano riconosciuti interessi e rivalutazione ex art. 1223 e 1224 c.c. ovvero considerati crediti di lavoro con applicazione dell’art. 429 c.p.c.”.

In particolare, si contesta il cumulo degli interessi legali e della rivalutazione monetaria operato con la sentenza di primo grado confermata in appello e si sostiene, altresì, che il risarcimento del danno biologico e morale di cui trattasi, seppur occasionato nel corso di un rapporto lavorativo, non è credito di lavoro in senso stretto. Il motivo è infondato.

Invero, questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. sez. lav.

n. 3213 del 18/2/2004) che “la domanda proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro volta a conseguire il risarcimento del danno sofferto per la mancata adozione, da parte dello stesso datore, delle misure previste dall’art. 2087 c.c., non ha natura previdenziale perchè non si fonda sul rapporto assicurativo configurato dalla normativa in materia, ma si ricollega direttamente al rapporto di lavoro, dando luogo ad una controversia di lavoro disciplinata quanto agli accessori dei credito dall’art. 429 c.p.c., comma 2; ne consegue che non opera il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione stabilito per i crediti previdenziali dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6”.

Tra l’altro, già in precedenza si era affermato (Cass., sez. lav., 08-04-2002, n. 5024) che “nell’ampia accezione di credito di lavoro, cui è applicabile l’art. 429 c.p.c. in tema di rivalutazione monetaria e interessi, è compreso anche il risarcimento del danno subito dal lavoratore per l’infortunio dipendente dalla mancata predisposizione, da parte del datore di lavoro, delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei dipendenti (art. 2087 c.c.), essendo tale danno di origine anche contrattuale e strettamente connesso con lo svolgimento del rapporto di lavoro. Il ricorso va, quindi, rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo. Non va, invece, adottata alcuna statuizione nei confronti delle parti non costituite.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio nella misura di Euro 3000,00 per onorario e di Euro 41,00 per esborsi, nonchè IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge. Nulla per le spese nei confronti delle parti non costituite.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2011

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