Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14470 del 07/06/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 14470 Anno 2013
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: ARIENZO ROSA

SENTENZA
sul ricorso 11575-2010 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo
studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e
difesa dall’avvocato dall’avvocato GRANOZZI GAETANO,
2013

giusta delega in atti;
– ricorrente –

1409

contro

MELAZZO
%

ENRICA

MLZNRC53C42G273A,

elettivamente

domiciliata in ROMA, LARGO LUIGI ANTONELLI 10, presso

Data pubblicazione: 07/06/2013

lo

studio

dell’avvocato

COSTANZO

ANDREA,

rappresentata e difesa dall’avvocato GARILLI
ALESSANDRO, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 377/2009 della CORTE D’APPELLO

1367/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 18/04/2013 dal Consigliere Dott. ROSA
ARIENZO;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega GRANOZZI
GAETANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

di PALERMO, depositata il 21/04/2009 R.G.N.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 21.42009, la Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza del
Tribunale che, in accoglimento della domanda di Melazzo Enrica, aveva dichiarato
illegittimo il licenziamento ad essa intimato con lettera del 8.7.2003, condannando la
società Poste Italiane a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro e a corrisponderle il
risarcimento del danno commisurato alle retribuzione globali di fatto dal recesso alla

stessa, addetta allo sportello prodotti postali, il giorno 21.5.2003, con una pluralità di
operazioni, accettato pieghi raccomandati ed assicurati, rilasciando alla clientela ricevute
di pagamento con un importo superiore rispetto a quello impresso meccanicamente sulla
etichetta applicata a ciascun piego, non contabilizzando in cassa le relative differenze ed
appropriandosi del relativo importo parti ad euro 84,73. Osservava che i fatti non erano
stati dalla lavoratrice contestati, ma che la stessa aveva affermato di averli posti in essere
incolpevolmente in quanto affetta dal Morbo di Flayani-basedow e da altri disturbi psichici
conosciuti dalla società – che avevano alterato le sue facoltà mentali rendendola, nel
periodo oggetto di contestazioni, incapace di intendere e volere. Aggiungeva che la c.t.u.
affidata a specialista in neuropsichiatria aveva rilevato che la Melazzo era affetta, già ai
tempi della commissione del fatto, da schizofrenia paranoide cronica in soggetto con
pregresso intervento di meningioma della doccia olfattoriale cerebrale operata per
patologia tiroidea — morbo di basedow e che tale malattia era prevalentemente
caratterizzata da disturbi ideici con distorsioni interpretative, per la presenza di disturbi
dispercettivi, quali allucinazioni visive e acustiche, con la conseguenza di atteggiamenti
decisioni e comportamenti al di fuori di normali attività mentali logico-deduttive, poiché
sulla base di dati falsati. Il Ctu officiato aveva concluso nel senso che gli atti posti in
essere dall’appellata erano da ricondurre alla patologia da cui ella era affetta e che, alla
luce di ciò, doveva ritenersi che la stessa non fosse nelle condizioni di intendere e di
volere, sicchè doveva ritenersi insussistente la malafede della stessa, laddove la società
aveva desunto la sussistenza dell’elemento soggettivo dalla circostanza che la Melazzo
aveva posto in essere ben 137 operazioni con sistematiche modeste maggiorazioni
applicando il tariffario immediatamente superiore rispetto all’affrancatura marcata dalla
,

macchina, appropriandosi della differenza per tutte le 137 operazioni e versando in cassa
solo la somma indicata dalla macchina, con ciò dimostrando di avere effettuato un
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reintegra. Rilevava la Corte che i fatti contestati alla Melazzo erano consistiti nell’avere la

controllo del bilancio a fine giornata in modo da garantire la perfetta rispondenza tra le
somme segnate dalla macchina e quelle presenti in cassa, svolgendo operazioni tutte in
danno e nessuna a vantaggio del cliente. Riteneva La Corte territoriale che tutte tali
. considerazioni fossero assorbite dalle valutazioni svolte dal CTU e che quindi i fatti
contestati non potevano ricondursi ad una delle ipotesi di giustificato motivo soggettivo di
licenziamento di cui all’art. 54 c.c.n.l. di settore, non potendo neanche mutarsi il titolo del

responsabilità personale della lavoratrice caratterizzata da dolo. Nè poteva ritenersi
fondata la difesa subordinata della società, volta a censurare la statuizione con la quale il
primo giudice aveva commisurato il risarcimento del danno all’ultima retribuzione globale
di fatto dal licenziamento alla reintegra, sul rilievo di non avere mai avuto conoscenza
dello stato di malattia della dipendente, conoscenza invece raggiunta dalla società sin dal
2003, anno in cui un siffatto quadro patologico era stato constatato dai medici inviati dalla
società ai fini di una visita di controllo sullo stato di malattia della appellata.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la società, affidando l’impugnazione a due
motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste la Melazzo, con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la società denuncia insufficiente motivazione su punto decisivo della
controversia, assumendo che la Melazzo non aveva contestato, né nella lettera di
giustificazioni, né in sede di audizione personale, né in ricorso introduttivo, i fatti
addebitatile, fondando ogni difesa esclusivamente sulla presunta incapacità di intendere e
volere nel giorno dei fatti, derivante da asserite patologia croniche sofferte e dallo stress di
lavoro, e sulla mancanza di proporzionalità della sanzione per la tenuità del danno
causato. Osserva che la Corte ha fondato la sua decisione sulla non imputabilità
dell’evento, con pronuncia carente di adeguata motivazione laddove non supera le
considerazioni già poste a fondamento del gravame per dimostrare la malafede della
dipendente, che aveva mostrato una lucida preordinazione, attesa la reiterazione
sistematica dell’illecito con appropriazione di modesti importi che non avrebbero destato
sospetti. Rileva che la ricorrente si era affrettata solo dopo il licenziamento a procurarsi
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licenziamento come ancorato nella lettera di contestazione alla sussistenza di una grave

certificazione medica attestante patologie psichiche comportanti distorsione della realtà e
che, se la Corte avesse adeguatamente tenuto conto del contenuto delle circostanze
evidenziate, avrebbe accertato che i comportamenti contestati erano consapevoli e non
. condizionati o condizionabili da eventuali patologie psichiche, alla luce delle modalità
esecutive dell’illecito. Non era stato provato, poi, che le mansioni erano incompatibili con
lo stato di salute, né che la Melazzo fosse soggetta a stress o ad ansia particolari, onde la

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione dell’art. 18 della legge 300/70, dell’
art. 1218 c. c., violazione e falsa applicazione degli artt. 416, 434 e 437 c.p.c.,
evidenziando che, considerata l’assenza di dolo o colpa in capo al datore in relazione al
recesso, che appariva al momento dell’irrogazione del tutto legittimo ed assistito da giusta
causa, la misura del risarcimento andava comunque individuata in quella minima delle
cinque mensilità. Osserva che la circostanza di presunte visite di controllo disposte dalla
società era stata addotta dalla Melazzo per la prima volta in appello e non supportata da
documentazione probatoria, sicchè non rilevava la ritenuta mancata contestazione da
parte dell’appellante società. Con specifico quesito, domanda se il datore di lavoro non
imputabile dell’inadempimento del lavoratore debba rispondere del risarcimento del danno
conseguente a declaratoria di illegittimità del recesso nella misura ordinaria prevista
dall’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, ovvero in quella minima di cinque mensilità; se
l’onere, gravante sul convenuto ex art. 416 c.p.c., di contestazione specifica dei fatti, i
quali vanno in mancanza ritenuti provati, debba gravare anche sull’appellante, originario
convenuto, a fronte di nuovi fatti dedotti (ma non provati) per la prima volta dall’appellato in
sede di costituzione prima dell’udienza di discussione, non potendo l’appellante formulare
in proposito difese e contestazioni scritte ma solo orali.
Il ricorso è infondato.
Deve rilevarsi che nella specie il vizio di insufficiente motivazione della sentenza non si
fonda sul rilievo di eventuali errori e lacune della consulenza, che si riverberino sulla
sentenza, sostanziandosi in carenze o deficienze diagnostiche, o in affermazioni illogiche
o scientificamente errate in essa contenute, ma si basa su argomenti già prospettati in
appello per sostenere che i comportamenti della Melazzo fossero del tutto intenzionali ed
espressione di lucida preordinazione, attese le modalità di realizzazione dell’illecita
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stessa era certamente disciplinarmente sanzionabile.

appropriazione della differenza, non contabilizzata, tra le somme richieste e pagate da
clienti in sede di accettazione di pieghi raccomandati, indicate nelle ricevute ad essi
rilasciate, ed i maggiori importi impressi meccanicamente sulle etichette applicate a

. ciascun piego. Al riguardo è sufficiente osservare che le conclusioni cui è pervenuta la
Corte d’appello, che ha ritenuto che la Melazzo fosse del tutto incapace di intendere e
volere al momento del compimento delle operazioni postali, sono il frutto di una

nominato, ha ritenuto che non fosse ravvisabile la malafede dedotta dalla società, pur
nella sussistenza di indizi che denotavano una consapevolezza degli “errori”, posto che la
contabilità di fine giornata risultava inferiore a quella che emergeva dalle ricevute rilasciate
e perfettamente coincidente con la somma dei dati numerici impressi sui pieghi.
Il giudizio valutativo di merito è stato ancorato alle risultanze delle c.t.u., ritenute capaci di
superare, sotto il profilo dell’intenzionalità, l’addebitabilità soggettiva di un’operazione
intrinsecamente connotata da elementi che ne evidenziavano un pregiudizio per i clienti ed
un vantaggio, seppure irrisorio dal punto di vista economico, per la Melazzo.
Nella valutazione della consulenza tecnica d’ufficio, espletata in materia che richieda
elevate cognizioni specifiche è rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito,
incensurabile in sede di legittimità, recepire le argomentazioni dell’esperto nominato
dall’ufficio, assistite da presunzione d’imparzialità e nella specie il giudice del gravame,
sulla base del parere espresso dall’ausiliare, ha ritenuto che fosse priva di significatività la
serie di indizi che, pur denotando una palese situazione di vantaggio per l’operatrice
postale, non erano riconducibili a volontà della stessa, che era incapace di intendere e
volere al momento in cui aveva posto in essere i fatti addebitatile, stanti i comprovati
disturbi dispercettivi, sicuramente influenti sulla normalità delle decisioni e dei
comportamenti, frutto di procedimenti logico deduttivi condotti su dati falsati.
Le censure della società si risolvono, nella sostanza, nell’affermazione della insussistenza
delle ragioni poste a fondamento della declaratoria di illegittimità del recesso datoriale,
senza spiegare quali siano gli errori di diritto commessi dal giudice del merito e piuttosto
con le stesse si valorizzano diversamente gli elementi considerati dalla Corte territoriale
per affermare una differente ricostruzione dei fatti, proponendosi niente più che una
diversa valutazione degli elementi attinenti al comportamento della lavoratrice.
I*

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valutazione di merito che, a fronte di un giudizio medico legale espresso dall’ausiliare

Al riguardo deve osservarsi che, attesa la rilevanza del solo vizio di motivazione, le
censure mirano a sollecitare una rivisitazione del merito, non consentita nella presente
sede di legittimità, posto che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di
motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., deve
contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 n.4 cod. proc. civ., che per ogni tipo di
motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di

censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di
giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di
coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli
argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far
valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito
all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo
preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali
aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di
prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai
possibili vizi dell'”iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in
esame. Diversamente, il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 n.5 cod. proc. civ si
risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base
ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime
considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non
accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi,
giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata
motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle,
tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè
sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n.
120520). Nella specie non risulta che la doglianza abbia evidenziato i profili insufficienza
della motivazione nei termini consentiti nella presente sede, indicati dalla pronunzia di
legittimità richiamata
Il secondo motivo si fonda anch’esso sulla contestazione di un accertamento di fatto
compiuto dal giudice del merito, che ha attribuito rilevanza alla circostanza che il datore
non ignorasse lo stato di incapacità della controricorrente e la doglianza, fondata sul rilievo
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carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa

della impossibilità di contestazione di fatti allegati irritualmente dall’appellata, non enuncia
con chiarezza i termini della deduzione avversaria, sì da consentirne la riconducibilità al
novero dei fatti suscettibili, in mancanza di contestazione, di essere ritenuti provati. Al
■Dle_g,
vt
riguardo deve4zonsiderarsi che l’indennità prevista dall’art. 18, quarto comma, della legge
20 maggio 1970, n. 300, nel testo sostituito dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108,
nel suo minimo ammontare di cinque mensilità, costituisce una presunzione “juris et de

connaturata al rischio di impresa, ma anche che la corresponsione dell’indennità
commisurata alla retribuzione effettivamente non percepita costituisce, invece, una
presunzione “iuris tantum” di lucro cessante, a fronte della quale costituisce onere del
datore provare che il danno ulteriore non sussiste (cfr. Cass. 28 agosto 2007 n. 18146).
Le esposte considerazioni conducono al rigetto del ricorso.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della società e si liquidano in
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento delle spese di lite del
presente giudizio, liquidate in euro 50,00 per esborsi ed in euro 2300,00 per compensi
professionali, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 18.4.2013

jure” del danno causato dal licenziamento illegittimo, assimilabile ad una sorta di penale

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