Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14464 del 07/06/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 14464 Anno 2013
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: CURZIO PIETRO

SENTENZA

sul ricorso 14340-2009 proposto da:
BRITISH INSTITUTES MILANO 43008860150, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA LEOPOLDO FREGOLI 8, presso
lo studio dell’avvocato SALONIA ROSARIO, che la
rappresenta e difende unitamente agli avvocati PARISE
2013

NICO, ROBERTO ZIBETTI, giusta delega in atti;
– ricorrente –

1164

contro

CERIANI GORINI FRANCAMARIA, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI, 22, presso lo

Data pubblicazione: 07/06/2013

studio dell’avvocato COSENTINO VALERIA,

che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato TREGLIA
GIORGIO, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 48/2009 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 03/04/2013 dal Consigliere Dott. PIETRO
CURZIO;
udito l’Avvocato ROMEI ROBERTO per delega COSENTINO
VALERIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO che ha concluso
per il rigetto del ricorso.-

di MILANO, depositata il 13/01/2009 R.G.N. 813/2006;

Ragioni della decisione

Lo British Institutes Milano chiede l’annullamento della sentenza della Corte
d’appello di Milano, pubblicata il 13 gennaio 2009, che ha accolto in parte l’appello

La signora Ceriani Gorini aveva stipulato con l’Istituto ricorrente per cassazione un
contratto di collaborazione coordinata e continuativa, in data 13 dicembre 1999,
risolto, in via anticipata rispetto al termine convenuto, con lettera dell’Istituto del 15
aprile 2002.
La Ceriani Gorini convenne in giudizio l’Istituto chiedendo il riconoscimento della
natura subordinata del rapporto, con funzioni dirigenziali; il pagamento conseguente
di una serie di differenze retributive, nonché del TFR; l’accertamento della
illegittimità dell’atto di recesso, da qualificarsi licenziamento; il pagamento della
indennità sostitutiva del preavviso e della indennità supplementare, oltre che ulteriori
somme a titolo di provvigioni e rimborsi spese.
Il Tribunale di Milano limitò l’accoglimento della domanda solo a queste ultime due
voci.
La Corte d’appello, in parziale riforma della decisione di primo grado, accertò
l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e dirigenziale e condannò l’Istituto a
pagare all’attrice ulteriori 108.939,03 euro, oltre rivalutazione ed interessi.
Il ricorso dell’Istituto è articolato in due motivi. La intimata si è difesa con
controricorso ed ha depositato una memoria per l’udienza.
Con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli arti.
2094, 2697 e 2727 c.c., nonché insufficiente motivazione.
Il motivo pone il seguente quesito: se ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e
subordinato in caso di svolgimento di attività di natura intellettuale e/o direttiva i c.d.
Ricorso n. 14340.09
Udienza 3 aprile 2013

di Franca Maria Ceriani Gorini.

indici sussidiari della subordinazione assumono carattere decisivo ed esuastivo sino
al punto da prevalere sia sul `nomen juris’, sia sulla prova della totale autonomia
delle modalità concrete di svolgimento del rapporto, oppure se tale natura sussidiaria
deve rimanere tale anche in siffatti casi, specie allorché sia stata fornita la prova della

dell’originario contratto di collaborazione e le specifiche attività successivamente
curate dalla lavoratrice.
Il motivo è inammissibile, perché pone una questione, sintetizzata nel quesito, che
non tiene conto del contenuto e della motivazione della sentenza.
La sentenza della Corte di Milano, indica, prima di tutto, i principi di diritto fissati in
sede di legittimità, in materia di lavoro subordinato di livello dirigenziale. Enunciati
in conformità alla giurisprudenza di cassazione i criteri indicativi della
subordinazione in tale contesto specifico, analizza la prova documentale e
testimoniale assunta nel processo e motiva analiticamente perché, in base a tali
risultanze, deve ritenersi che quello svolto dalla Ceriani Gorini sia un lavoro
subordinato di livello dirigenziale.
Rispetto a questo ‘iter’ argomentativo, l’Istituto ricorrente non censura i principi di
diritto richiamati dalla Corte, ma, assume, come appare evidente anche nella sintesi
operata con il quesito di diritto, che gli stessi non possono trovare applicazione
perché la prova avrebbe dimostrato la totale autonomia del rapporto.
In tal modo, dietro lo schermo formale di un vizio di violazione di legge, propone una
diversa lettura e valutazione della prova documentale e testimoniale operata dalla
Corte d’appello, che non può avere ingresso in sede di giudizio di legittimità.
Quanto poi al rapporto tra gli elementi indicatori della subordinazione ed il `nomen
juris’ del contratto adottato dalle parti, la giurisprudenza di questa Corte si è così
espressa: “in caso di prestazioni che, per la loro natura intellettuale, mal si adattano
ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro e con una continuità
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Pietro Curzio, es
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totale autonomia del rapporto e risulti la più completa corrispondenza tra il contenuto

regolare, anche negli orari, ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato
oppure autonomo, sia pure con collaborazione coordinata e continuativa, il primario
parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del
lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente

individuare in concreto – con accertamento di fatto incensurabile in cassazione se
immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato – dando prevalenza ai dati fattuali
emergenti dal concreto svolgimento del rapporto, senza che il “nomen juris” utilizzato
dalle parti possa assumere carattere assorbente” (Cass. 28 marzo 2003, n. 4770; 13
aprile 2012, n. 5886).
Il motivo è inammissibile anche nella parte in cui denunzia una motivazione
insussistente, perché non indica il fatto, la sua decisività e il suo carattere controverso
ed è privo del momento di sintesi. Deve ricordarsi che per giurisprudenza costante di
questa S.C. “Il motivo di ricorso con cui – ai sensi dell’art. 360, n. 5 c.p.c. così come
modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – si denuncia omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto”
controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente,
dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma
un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto
costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè
un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e
decisivo. (In applicazione del principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso
con cui ci si era limitati a denunciare la mancata motivazione da parte del giudice in
ordine alle argomentazioni esposte dal ricorrente nel giudizio di appello, senza, però,
individuare i fatti specifici, controversi o decisivi in relazione ai quali si assumeva
fosse carente la motivazione medesima)” (Cass., ord., 5 febbraio 2011, n. 2805; cfr.
anche Cass. 29 luglio 2011, n. 16655)
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accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari, che il giudice deve

Il secondo motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 36 della
Costituzione, ed insufficiente motivazione. Con il quesito si chiede di stabilire se
deve ritenersi corretto il principio di diritto ‘che pare essere stato fatto proprio dalla
Corte d’appello’, secondo cui ai fini della quantificazione delle differenze retributive

qualificato come autonomo, non è necessario raffrontare il globale trattamento
economico di fatto goduto dal lavoratore con quello minimo ritenuto spettante ai
sensi dell’art. 36 Cost. oppure se va tenuto conto di tutto quanto il lavoratore
subordinato ha convenuto e percepito, atteso che l’iniziale configurazione del
rapporto come autonoma può ragionevolmente far ritenere che i compensi siano stati
concepiti con carattere di omnicomprensività.
Deve premettersi che il motivo è limitato alle differenze retributive concernenti il
rapporto e non alle voci connesse alla illegittimità del licenziamento (indennità di
preavviso), rispetto al quale non vengono mosse censure.
Il ragionamento della Corte, specificato a pag. 4 e 5 della sentenza è il seguente: l’art.
36 Cost. consente di individuare come parametro di riferimento il trattamento
retributivo minimo dei dirigenti del settore commercio previsto dalla relativa
contrattazione collettiva. Applicando tali tariffe e detraendo quanto percepito dalla
lavoratrice si perviene alla quantificazione delle somme indicate in sentenza, sulla
base dei conteggi proposti dalla lavoratrice e non contestati dall’Istituto.
Nella sua critica l’Istituto assume che la Corte “non si è curata di raffrontare il
trattamento economico minimo previsto dal contratto e quello goduto dalla
lavoratrice”. La censura è generica, perché non spiega quali somme sarebbero state
percepite dalla lavoratrice e non sarebbero state conteggiate dalla Corte. L’Istituto
non spiega in particolare se, dove e quando, nel corso del giudizio di merito abbia
allegato di aver versato alla lavoratrice delle somme di cui non si è tenuto conto nei
conteggi ai fini del calcolo delle eventuali differenze.
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in caso di accertamento della natura subordinata di un rapporto originariamente

La Corte sul punto specifico afferma che i conteggi non sono stati oggetto di
contestazione. La chiarezza della affermazione della Corte avrebbe richiesto una
censura puntuale e precisa, mentre quella proposta è vaga e generica, tanto in ordine
all’entità delle somme (definite “più che consistenti”, e “circa il doppio” di quelle

quale sarebbero state versate, che, infine, in ordine al momento del giudizio di merito
ed al relativo atto processuale in cui sarebbero state sottoposte alla attenzione del
giudice, documentate e poste a fondamento dell’esercizio dell’onere di contestazione.
Il ricorso, pertanto, deve essere nel suo complesso rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità devono essere poste a carico della parte che perde
il giudizio e vengono liquidate secondo i parametri previsti dal D.M. Giustizia, 20
luglio 2012, n. 140 (cfr. Cass. Sez. un. 17405 e 17406 del 2012).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione alla controricorrente
delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in 50,00 euro per esborsi, 6.500,00
euro per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 3 aprile 2013
Il co sigliere

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spettanti in base al cali, senza indicare una cifra), che in ordine al titolo in base al

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