Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14459 del 09/06/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 09/06/2017, (ud. 23/02/2017, dep.09/06/2017),  n. 14459

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21728/2015 proposto da:

RIACE S.R.L. P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE LIEGI 7, presso lo

studio dell’avvocato FABRIZIO LUIGI CONTI, rappresentata e difesa

dall’avvocato RICCARDO MANFREDI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA CAPO PELORO 3, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI

COSTANTINO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 209/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 17/03/2015 R.G.N. 647/14;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/02/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato RICCARDO MANFREDI;

udito l’Avvocato GIOVANNI COSTANTINO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso al Tribunale di Cosenza del 18.11.2010 FERNANDA SCAVELLI agiva nei confronti della società RIACE srl per l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro subordinato stipulato tra le parti in data 1.11.2009 e, comunque, della prosecuzione del rapporto dopo la scadenza del 31.12.2009. Impugnava il licenziamento verbale del 15.2.2010 e chiedeva condannarsi la parte convenuta alla riammissione in servizio ed al risarcimento del danno (nonchè al pagamento di differenze di retribuzione maturate).

In via gradata impugnava l’ulteriore e successivo licenziamento del 15.3.2010.

Il giudice del lavoro, con sentenza del 14.11.2013 (nr. 2930/2013), accoglieva la domanda di dichiarazione di nullità del termine e condannava la società convenuta alla riammissione in servizio della ricorrente ed al risarcimento del danno L. n. 183 del 2010, ex art. 32, comma 5 (oltre alle differenze di retribuzione richieste).

La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza del 12.2./17.3.2015 (nr. 209/2015), accogliendo l’appello della lavoratrice, dichiarava la inefficacia del licenziamento del 15.2.2010 e la illegittimità del licenziamento del 15.3.2010 e condannava la società datrice di lavoro al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18 – nella misura delle retribuzioni maturate dal primo licenziamento alla data del rifiuto a riprendere servizio (20.12.2013) – nonchè al pagamento della indennità sostitutiva della reintegra.

Per quanto rileva in causa, la Corte territoriale riteneva che il contratto a termine – a prescindere dalla nullità della clausola, accertata con giudicato interno – si era comunque trasformato per volontà delle parti in contratto a tempo indeterminato; il rapporto era proseguito – (per più di 45 giorni) – dopo la scadenza del termine ed il datore di lavoro per interromperlo aveva licenziato oralmente la lavoratrice per inadempimenti nella gestione dei farmaci, come provato dalle dichiarazioni della teste G.R.M..

Tale licenziamento era inefficace per difetto di forma scritta.

A distanza di un mese il datore di lavoro aveva irrogato un secondo licenziamento, con atto scritto ma senza rispettare le garanzie di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7; il suddetto licenziamento era illegittimo.

In relazione ad entrambi gli atti trovavano applicazione le tutele di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18.

La circostanza che la lavoratrice avesse rifiutato di riprendere servizio, giusta nota del 20.12.2013, determinava la cessazione dell’obbligo risarcitorio mentre restava fermo il diritto a percepire le 15 mensilità sostitutive della reintegra.

Nella fattispecie di causa non era applicabile, in relazione alla data del licenziamento, la disciplina della L. n. 300 del 1970, art. 18, introdotta dalla L. n. 92 del 2012.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società RIACE srl, articolando due motivi, illustrati con memoria.

Ha resistito con controricorso S.F..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente deve essere disattesa la eccezione di intempestività del presente ricorso opposta dalla parte resistente: la sentenza impugnata è stata pubblicata in data 17.3.2015 – non avendo rilievo a tal fine la lettura in udienza del solo dispositivo della decisione – ed il ricorso è stato spedito per la notifica in data 10.9.2015, nel rispetto del termine semestrale.

1. Con il primo motivo la società ricorrente ha denunziato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, nonchè – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame di un fatto decisivo.

Il motivo ha per oggetto la statuizione di cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento piuttosto che per scadenza del termine, con conseguente applicazione della tutela L. n. 300 del 1970, ex art. 18.

La società ha esposto che la lavoratrice aveva chiesto in primo grado la conversione del rapporto di lavoro a termine sicchè avrebbe dovuto trovare applicazione la norma dell’articolo 32 co.5 L. 183/2010, che prevedeva una indennità compensativa di ogni conseguenza economica della illegittimità del termine.

Il periodo di prosecuzione del rapporto di lavoro dopo la scadenza del termine era di poco superiore alla tolleranza di 20 giorni prevista dalla legge. Non poteva assumere rilievo, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, la dichiarazione della teste G.R.M., che riferendosi al licenziamento della lavoratrice si era espressa in senso atecnico, essendo stato comunicato dall’amministratore unicamente il recesso per scadenza del termine.

La successiva lettera di licenziamento del 16.3.2010 era frutto di un palese errore, in assenza di una volontà consapevole di interrompere il rapporto di lavoro, come già evidenziato nei gradi di merito, errore indotto dalla diffida fatta pervenire dalla S. a mezzo di un legale.

Il motivo è inammissibile.

Esso investe la ricostruzione del fatto operata dal giudice del merito in ordine alle ragioni di cessazione del rapporto di lavoro, individuate in sentenza non già nella presa d’atto da parte del datore di lavoro della scadenza del termine ma in una volontà di recesso conseguente a pretesi inadempimenti della lavoratrice.

Le censure di violazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, sono dunque inconferenti; il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre la allegazione – come prospettata nella specie da parte del ricorrente – di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione delli norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità unicamente nei limiti del vizio di motivazione.

Sotto il profilo del vizio di motivazione va qui ribadita la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) non conferisce giudice di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operati dal giudice del merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., ad esempio, in termini, Cassazione civile, sez. 3, 04/03/2010, n. 5205 Cass. 6 marzo 2006, n. 4766. Sempre nella stessa ottica, altresì, Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500; Cass. 19 dicembre 2006, n. 27168; Cass. 8 settembre 2006, n. 19274; Cass. 25 maggio 2006, n. 12445).

Nella fattispecie trova applicazione ratione temporis il vigente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sicchè la censura è deducibile soltanto in termini di omesso esame di un fatto decisivo del giudizio ed oggetto di discussione tra le parti mentre resta estranea al sindacato della Corte la verifica della coerenza e logicità della motivazione.

Alle valutazioni compiute in sentenza la società ricorrente contrappone, invece, una diversa ricostruzione dei fatti, fondata semplicemente su una diversa valutazione delle prove, già esaminate dalla Corte di merito, in punto di verifica della volontà del datore di lavoro.

Il motivo devolve, dunque, a questo giudice di legittimità un non-consentito esame di merito piuttosto che denunziare un vizio della motivazione.

2. Con il secondo motivo la società ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3,4 e 5 – violazione di legge (L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5), difetto di motivazione ed omessa valutazione di un fatto decisivo in ordine alla statuizione relativa alla indennità sostitutiva della reintegra.

La società ricorrente ha esposto di avere eccepito nella memoria di costituzione in appello la decadenza della dipendente dal diritto alla indennità sostituiva della reintegra per non avere chiesto l’indennità nel termine previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 (trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza – nella specie avvenuta in data 14.11.2013 – ovvero trenta giorni dall’invito a riprendere servizio – invito comunicato in data 18.12.2013). La richiesta della indennità era avvenuta soltanto con il ricorso in appello, del 2.5.2014.

La motivazione della sentenza non era pertinente a quanto eccepito, in quanto esaminava i soli effetti del rifiuto della lavoratrice a riprendere servizio.

Il motivo è inammissibile e comunque infondato.

La parte ricorrente articola la censura in termini di violazione di legge e di vizio della motivazione laddove nella fattispecie il giudice d’appello non ha reso alcuna pronunzia in merito alla eccezione di decadenza della lavoratrice dal diritto alla indennità sostitutiva della reintegra.

In ogni caso ed in punto di diritto la Corte osserva che il termine di decadenza si riferisce alle ipotesi in cui venga emesso in via giudiziaria un ordine di reintegra ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18; la giurisprudenza citata in ricorso (Cass. 1254/2003) si riferisce infatti alla evenienza in cui la tutela giudiziaria L. n. 300 del 1970, ex art. 18, venga concessa anticipatamente, ex art. 700 c.p.c..

Nella fattispecie di causa la sentenza di primo grado non emetteva l’ordine di reintegra L. n. 300 del 1970, ex art. 18, ma dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro ed, all’esito, applicava i principi generali sulla mancata esecuzione del contratto. La pronunzia non consentiva alla lavoratrice la opzione per la indennità sostitutiva della reintegra; ne derivava la impossibilità, a fortiori, di far decorrere in forza di tale sentenza il termine per l’esercizio della opzione fissato dalla L. n. 300 del 1970, art. 18.

La richiesta della indennità formulata nel ricorso d’appello era dunque tempestiva.

Il ricorso deve essere conclusivamente respinto.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200 per spese ed Euro 4.000 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, con attribuzione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dkricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno

2017

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