Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14457 del 09/06/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 09/06/2017, (ud. 23/02/2017, dep.09/06/2017),  n. 14457

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3408/2012 proposto da:

3V TECH EQUIPMENT & PROCESS SYSTEMS S.P.A. C.F. (OMISSIS) (già

3V COGEIM S.R.L.), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA G MAZZINI, 27, presso lo

studio dell’avvocato PAOLO ZUCCHINALI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato VITTORIO PROVERA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.M. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

POMPEO MAGNO 23/A, presso lo studio dell’avvocato GUIDO ROSSI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA BORTOLUZZI,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 460/2011 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 19/11/2011 R.G.N. 218/11;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/02/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso per quanto di ragione;

udito l’Avvocato GUIDO CHIODETTI per delega verbale Avvocato PAOLO

ZUCCHINALI;

udito l’Avvocato GUIDO ROSSI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso al Tribunale di Bergamo la società 3V COGEIM srl chiedeva ingiungersi al sig. B.M. il pagamento della penale (in misura di Euro 100.000) prevista nel contratto di lavoro subordinato dirigenziale intercorso tra le parti per il caso di dimissioni del dirigente prima del decorso di dodici mesi dall’inizio del rapporto.

Il B. con ricorso del 18.2.2009 proponeva opposizione al decreto ingiuntivo; il Tribunale di Bergamo, accogliendo l’opposizione, revocava la ingiunzione di pagamento (sentenza del 10.2.2011, nr. 115/2011).

Con sentenza del 10-19.11.2011 (nr. 460/2011) la Corte d’appello di Brescia rigettava l’appello della società 3V COGEIM srl.

La Corte territoriale riteneva la nullità della clausola di durata minima – e della conseguente pattuizione della penale – in quanto non prevedente alcun corrispettivo della compressione della facoltà di recesso del dirigente.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società 3V COGEIM srl, articolato in otto motivi.

Ha resistito con controricorso B.M..

La società ricorrente ha depositato atto di incorporazione di altre società e di assunzione della nuova denominazione e forma sociale di 3V TECH EQUIPMENT & PROCESS SYSTEMS (in prosieguo: 3V TECH) spa.

Le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società ricorrente ha denunziato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 e segg., 2099 e 2118 c.c., 36 C.

Ha censurato la sentenza per avere affermato che nel contratto di lavoro ogni limitazione nell’interesse aziendale di una libertà del lavoratore prevista dalla legge (nella specie la libertà di recesso ex art. 2118 c.c.) deve trovare un corrispettivo.

La ricorrente ha dedotto che tale principio non era necessariamente imposto dalla natura sinallagmatica del contratto di lavoro, come era dimostrato dalla riconosciuta possibilità di inserire una analoga clausola nell’interesse del lavoratore in assenza di corrispettivo.

Ha assunto che la corrispettività doveva essere apprezzata rispetto al complesso degli obblighi e diritti nascenti dal contratto di lavoro e non alle singole clausole.

Nella fattispecie di causa, peraltro, trattandosi di rapporto di natura dirigenziale, il regime era di libera recedibilità per entrambe le parti sicchè ognuna di esse poteva disporre a parità di condizioni della sua facoltà di recesso.

2. Con il secondo motivo la società 3V TECH ha impugnato la sentenza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – per violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1341, 1362, 1363, 1419 e 2118 c.c..

Ha dedotto che la validità della clausola di durata minima non richiedeva nè una specifica approvazione scritta nè una contropartita ma rispondeva al legittimo interesse del datore di lavoro alla continuità della prestazione; nella fattispecie concreta la assunzione era avvenuta in un periodo di espansione della società, essendo programmata la costituzione di una nuova società interamente controllata e la acquisizione del controllo di una società – terza operante nel settore.

3. Con il terzo motivo la società ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 e segg., 1363 e segg. c.c., nonchè degli artt. 115, 116 e 345 c.p.c..

Ha censurato la sentenza per avere affermato che nelle difese del primo grado l’importo della retribuzione del dirigente era stato allegato solo per escludere la eccessività della penale e che era inammissibile – per novità – la allegazione in appello del fatto che il patto di stabilità avesse quale corrispettivo una maggiorazione della retribuzione prevista dal CCNL oltre al bonus per il raggiungimento degli obiettivi.

La società ha esposto di avere evidenziato già nel primo grado di giudizio l’importo della retribuzione e di avere dedotto che la corrispettività del rapporto doveva essere valutata nel complesso delle posizioni contrattuali; nel grado di appello non erano stati introdotti fatti nuovi ma, piuttosto, si era sollecitata una valutazione diversa del contratto.

4. Con il quarto motivo la società ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 e segg. c.c., art. 1363 e segg. c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Il motivo investe la statuizione del giudice dell’appello secondo cui il patto di stabilità costituiva una clausola aggiunta successiva all’accordo vero e proprio (relativo a qualifica, decorrenza, funzioni, retribuzione) sicchè – anche a volere ipotizzare la ritualità della allegazione – non poteva ritenersi (in assenza di elementi indicativi di una diversa volontà delle parti) che di esso si fosse conto nel determinare l’importo della retribuzione, fissata nei punti precedenti del contratto.

La società ricorrente ha evidenziato che la clausola di durata minima era contenuta nel testo contrattuale sicchè non poteva essere considerata alla stregua di un patto aggiunto successivo alla stipulazione.

5. Con il quinto motivo la società ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – contraddittoria e insufficiente motivazione in ordine alla interpretazione del contratto, per essere prevista in esso ab origine la clausola di stabilità.

6. Con il sesto motivo la società ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione dall’artt. 2125, 1321 e 1322 c.c..

Ha denunziato la inconferenza del richiamo in sentenza alle previsioni dell’art. 2125 c.c., sul patto di non concorrenza; ha evidenziato la mancanza di una espressa disposizione sulla necessità del corrispettivo del patto di stabilità, diversamente da quanto previsto per il patto di non concorrenza.

Ha assunto, da ultimo, che non poteva ritenersi che al patto non fosse sotteso un interesse meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., stante anche il concreto contesto imprenditoriale, di avvio di un progetto di espansione.

7. Con il settimo motivo la società ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – insufficiente e contraddittoria motivazione, per avere la Corte applicato nella fattispecie di causa i principi relativi al patto di non concorrenza pur dopo averne evidenziato la diversità di rispetto alla fattispecie al suo esame.

8. Con l’ottavo motivo la società ha riproposto in questa sede la questione, rimasta assorbita in appello, della inapplicabilità della norma dell’art. 1384 cod.civ.sulla riduzione della penale, che era stata dal dirigente invocata in via subordinata.

Preliminarmente deve essere esaminato il terzo motivo, con il quale la società ricorrente censura la sentenza per avere ritenuto la novità – e pertanto la inammissibilità – della allegazione in grado di appello del fatto che il patto di durata minima sottoscritto dal lavoratore era stato remunerato con una maggiorazione della retribuzione rispetto al minimo contrattuale.

Il motivo è fondato.

L’attuale giudizio veniva introdotto dalla società con la ingiunzione di pagamento della penale ed, a seguito della opposizione introdotta dal dirigente, verteva sulla validità della pattuizione della clausola di stabilità, cui accedeva la penale (ed, in via subordinata, sulla eccessività della stessa penale).

Il giudice del merito nel valutare la validità del patto doveva considerare tutti gli elementi di fatto introdotti dalle parti e tra essi, già nel primo grado, l’importo della retribuzione prevista in contratto.

Ciò a prescindere dal rilievo che nella memoria di costituzione della società opposta il fatto della misura della retribuzione, ritualmente allegato, fosse inteso ad escludere la eccessività della penale piuttosto che a giustificare la clausola di stabilità; il giudice è infatti tenuto ad esprimere il giudizio sui fatti allegati e provati dalle parti ma non resta vincolato al significato che a quei fatti attribuisca la parte che li ha allegati, potendo e dovendo liberamente valutarli e ricondurre ad essi gli effetti giuridici loro propri. Tale attività rientra nel compito di applicazione delle norme di diritto alle fattispecie di fatto rimesso in via esclusiva all’organo giudicante e non dipendente dalla iniziativa delle parti del processo.

La allegazione svolta nel grado di appello non era pertanto nuova, poichè non riguardava nuovi fatti ma sollecitava il potere del giudice di valutazione dei fatti allegati.

Il primo, il secondo, il quarto, il quinto, il sesto ed il settimo motivo, che possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi, sono fondati, nei limiti di cui segue.

Essi investono le ulteriori rationes decidendi della sentenza ed in particolare le statuizioni:

– sulla necessità di un corrispettivo per il patto che limiti, per un tempo determinato, la libertà di recesso del lavoratore (cd. patto di stabilità o clausola di durata minima garantita nell’interesse del datore di lavoro);

– sulle modalità di determinazione del corrispettivo, che la Corte di merito ha ritenuto non remunerato, in assenza di ulteriori indici, dalla retribuzione prevista in contratto (pagina 4 della sentenza).

Giova premettere che questa Corte, con orientamento consolidato, che va in questa sede ribadito (Cassazione civile, sez. lav., 15/09/2016, n. 18122; Cass. 25/07/2014, n. 17010; Cass. n. 17817 del 2005; Cass. n. 18547 del 2009; n. 1435 del 1998), ha già chiarito che, fuori dalle ipotesi di giusta causa di recesso, nelle quali viene in rilievo la norma inderogabile di cui all’art. 2119 c.c., nessun limite è posto dall’ordinamento all’autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, purchè limitata nel tempo, che comporti il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro nella ipotesi di mancato rispetto del periodo minimo di durata.

Nè si pongono dubbi sotto il profilo della meritevolezza dell’interesse datoriale sotteso a siffatta pattuizione, che è quello di assicurarsi la continuità della prestazione in vista di un programma aziendale per la cui realizzazione ritenga utile l’apporto di quel dipendente. Tale garanzia è analoga a quella destinata ad operare nel contratto di lavoro a tempo determinato, che consente il recesso anticipato del dipendente solo per giusta causa.

Del resto tale principio è coerente con la riconosciuta disponibilità del diritto al posto di lavoro, quale desumibile dalla ammissibilità di risoluzioni consensuali del contratto e dalla possibilità di consolidamento degli effetti di un licenziamento illegittimo per mancanza di una tempestiva impugnazione (sulla disponibilità del diritto nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, cfr. Cassazione civile, sez. lav., 19/10/2009, n. 22105 e giurisprudenza ivi citata).

Tanto premesso, il tema dibattuto concerne ulteriormente: la necessità di un corrispettivo dell’impegno del lavoratore e, nel caso di risposta affermativa, le modalità della sua determinazione.

Per risolvere tali questioni occorre muovere dal principio generale secondo cui nei rapporti a prestazioni corrispettive la reciprocità dell’impegno non va valutata atomisticamente – come contropartita della assunzione di ciascuna delle obbligazioni – bensì alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni. L’equilibrio tra le prestazioni corrispettive, sempre per principio generale, è rimesso – (fuori dalle ipotesi patologiche di vizio del consenso) – alla libera valutazione di ciascun contraente, che nel momento in cui conclude il negozio resta arbitro della convenienza o meno della assunzione della posizione contrattuale.

Nel contratto di lavoro subordinato, tuttavia, vi è per il lavoratore il limite alla disponibilità della posizione negoziale costituito dalla inderogabilità del diritto, attribuitogli dall’art. 36 Cost., ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto.

Tale rilievo ha immediata incidenza nel tema in trattazione; infatti nelle fattispecie in cui il trattamento retributivo concordato, complessivamente considerato, non superi il cd. “minimo costituzionale” esso non può compensare, in alcuna misura, (anche) la temporanea rinunzia del lavoratore alla sua facoltà di recesso. Invero in caso diverso sarebbe inevitabile l’effetto della mancanza di proporzionalità della retribuzione, per la misura residua, alla quantità e qualità della prestazione fondamentale di lavoro dipendente.

Sicchè, rispondendo alla prima questione in esame, deve affermarsi dovuto al lavoratore un corrispettivo della limitazione delle sue facoltà rispetto al tipo contrattuale, affinchè non venga inciso il minimo costituzionale dovutogli quale corrispettivo della prestazione fondamentale di lavoro.

La corrispettività, tuttavia, venendo così alla seconda questione, deve essere valutata rispetto al complesso dei diritti e degli obblighi che identificano la posizione contrattuale di ciascuna parte.

Nell’equilibrio delle posizioni contrattuali il corrispettivo della clausola di durata minima garantita nell’interesse del datore di lavoro, dunque, è sì necessario ma può essere liberamente stabilito dalle parti e può consistere nella reciprocità dell’impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non-monetaria, purchè non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore.

Del resto la necessità della previsione di un compenso specifico, in deroga al suddetto principio generale, è stata espressamente prevista a pena di nullità ove ritenuta necessaria, come nel caso dell’art. 2125 c.c., per il patto di non concorrenza nel lavoro subordinato e dell’art. 1751 bis c.c. – nel testo introdotto dalla L. 29 dicembre 2000, n. 422, art. 23 – per il patto di non concorrenza nel rapporto di agenzia.

A tale riguardo questa Corte ha affermato che nel rapporto di agenzia la necessità della previsione del compenso specifico del patto di non concorrenza non si applica ai patti stipulati prima della entrata in vigore della legge 422/2000 (Cass., sent. 22/08/2016, n. 17239; nr. 12127/2015), il che conferma il rilievo che l’obbligo di uno specifico corrispettivo della limitazione delle facoltà di uno dei contraenti non deriva da un principio generale di ordine pubblico, limitativo dell’autonomia negoziale.

La sentenza impugnata, avendo ritenuto che il patto di stabilità nell’interesse del datore di lavoro si colloca all’interno del contratto di lavoro come clausola aggiunta successiva ai patti fondamentali e che, in mancanza di elementi di prova diversi, non può ritenersi remunerato con il trattamento retributivo concordato non si è adeguata a siffatti principi, non avendo valutato la reciprocità degli impegni rispetto alla complessiva posizione contrattuale ed avendo esteso al patto di stabilità le previsioni sulla necessità di un compenso specifico relative alla diversa fattispecie del patto di non concorrenza post-contrattuale.

Dall’accoglimento dei primi sette motivi deriva l’assorbimento dell’ottavo.

La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata in accoglimento dei motivi dal primo al settimo e gli atti vanno rinviati ad altro giudice, che si individua nella Corte di Appello di Brescia in diversa composizione, che provvederà ad una nuova valutazione dei fatti alla luce dei principi di diritto sopra esposti.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla disciplina delle spese.

PQM

 

La Corte accoglie i primi sette motivi del ricorso, assorbito l’ottavo. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia – anche per le spese – alla Corte di appello di Brescia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2017

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