Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14456 del 09/06/2017

Cassazione civile, sez. lav., 09/06/2017, (ud. 14/02/2017, dep.09/06/2017),  n. 14456

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28586/2015 proposto da:

F.F., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA FRANCESCO DENZA N. 3, presso lo studio dell’avvocato OTTONE

SALVATI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT S.P.A. C.F. (OMISSIS);

– intimata –

nonchè da:

UNICREDIT S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso

lo studio degli avvocati ROBERTO PESSI, FRANCESCO GIAMMARIA, che la

rappresentano e difendono, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

F.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA FRANCESCO DENZA N. 3, presso lo studio dell’avvocato OTTONE

SALVATI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 6655/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30/09/2015 R.G.N. 2792/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/02/2017 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso principale, rigetto del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato OTTONE SALVATI;

udito l’Avvocato TIZIANA SERRANI per delega verbale Avvocato ROBERTO

PESSI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.1. Con ricorso al Tribunale di Roma F.F. impugnava il licenziamento intimatogli dalla datrice di lavoro Unicredit s.p.a. in data 28 dicembre 2012 deducendone l’illegittimità e chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna della convenuta al risarcimento del danno della L. 30 marzo 1970, n. 300, ex art. 18, come modificata dalla L. 28 giugno 2012, n. 92.

1.2. A tal fine esponeva di aver lavorato alle dipendenze della convenuta con la qualifica di quadro direttivo di quarto livello e con funzioni deliberative di secondo livello dal 1 settembre 2008 e che dall’ottobre 2009 si era occupato di clienti del settore navale rispondendo gerarchicamente al responsabile dell’Area Sud Italia Corporate Banking a sua volta gerarchicamente sottordinato ad altri.

1.3. Che gli era stata riconosciuta una autonomia deliberativa e per gli sconfinamenti nel limite di Euro 300.000,00 oltre il quale era necessaria l’autorizzazione dei superiori gerarchici.

1.4. Di essere stato sospeso cautelativamente dal servizio in data 14 agosto 2012, in relazione ad irregolarità emerse nella gestione dei rapporti con la Dieulemar Shipping s.p.a., e, con lettera del 17 settembre 2012, gli era contestato di aver dato corso ad una operatività e consentito un utilizzo degli affidamenti in violazione del merito creditizio e dei vincoli posti dall’Organo deliberante esponendo l’Istituto di credito ad un elevato rischio economico.

1.5. Che gli episodi in questione erano stati oggetto di Audit negli anni 2009, 2010 e 2011 che non erano mai sfociati in alcuna contestazione ed erano ben noti a tutti i responsabili al ricorrente sopraordinati e che questi si era uniformato alle direttive ricevute.

1.6. Denunciava quindi la tardività della contestazione e del successivo recesso, l’insussistenza di una giusta causa di risoluzione del rapporto e, comunque, la sproporzione della sanzione irrogata rispetto alla condotta contestata.

1.7. Il Tribunale, in esito all’istruttoria svolta, rigettava il ricorso. Sull’opposizione proposta dal F., poi, il licenziamento era annullato ed il ricorrente era reintegrato nel posto di lavoro con condanna dell’Istituto di credito al risarcimento del danno.

2.1. La Corte di appello, investita del reclamo ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 58, rigettava la domanda originariamente proposta dal F. oltre che la domanda avanzata da Unicredit s.p.a., per la restituzione delle somme dovute in esecuzione della sentenza che aveva dichiarato illegittimo il recesso, sul rilievo che mancava la prova del loro versamento.

2.2. La Corte territoriale rigettava l’eccezione di inammissibilità del reclamo per violazione dell’art. 434 c.p.c., evidenziando che tale disposizione non trovava applicazione allo speciale procedimento compiutamente disciplinato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 48 e segg.; dall’altro riteneva fondato il gravame sul rilievo che era risultato provato che il lavoratore aveva consapevolmente posto in essere una serie di operazioni in violazione del contratto stipulato con 14 società omettendo di svolgere correttamente i propri compiti di gestore.

2.3. Escludeva che l’avallo alle operazioni da parte dei superiori gerarchici, in violazione delle regole e delle procedure bancarie, esimesse il lavoratore dalla sua responsabilità atteso che egli si sarebbe dovuto sottrarre all’esecuzione di un ordine della cui illegittimità era pienamente consapevole. Riteneva pertanto che, la accertata partecipazione attiva del F. alle procedure irregolari e la sua corresponsabilità nella determinazione del danno, con violazione delle procedure interne stabilite per l’erogazione della linea di credito, costituivano un gravissimo inadempimento ai suoi doveri.

2.4. Quanto alla denunciata intempestività della contestazione e del licenziamento il giudice di appello osservava che solo in esito alla comunicazione del verbale conclusivo dell’ispezione, demandata ad un soggetto esterno, l’Istituto era venuto a conoscenza,con piena consapevolezza, dei fatti ed aveva proceduto alla contestazione degli addebiti in un tempo ragionevole tenuto conto della necessità di valutare i complessi accertamenti effettuati.

2.5. Escludeva infine che il licenziamento avesse carattere ritorsivo evidenziando che il datore di lavoro era receduto dal rapporto per una grave e valida ragione e che era onere del lavoratore allegare e dimostrare l’esistenza del motivo illecito determinante posto a base del licenziamento, restando irrilevante la circostanza che i suoi superiori erano stati puniti con sanzioni conservative.

3.1. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso F.F. sulla base di cinque motivi. Unicredit s.p.a. si è opposto con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale con il quale ha insistito per l’accoglimento della domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione della sentenza del Tribunale in sede di opposizione. F.F. ha resistito al ricorso incidentale con tempestivo controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. I motivi del ricorso principale.

4.1. Con il primo motivo del ricorso principale è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3.

Sostiene il ricorrente che erroneamente la Corte di appello avrebbe ritenuto che l’art. 434 c.p.c., non trovasse applicazione al procedimento speciale regolato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 48 e segg.. Ciò premesso osserva il ricorrente che il reclamo non presentava i requisiti minimi previsti dalla citata norma poichè non conteneva l’indicazione delle singole statuizioni non condivise; non indicava le modifiche proposte con riferimento a ciascuna parte della sentenza; non conteneva alcuna proposta di modifica della statuizione sul capo rilevante della decisione impugnata; non individuava il testo di una nuova pronuncia volta a modificare le argomentazioni del giudice di prime cure. In sostanza dalla lettura del reclamo non era possibile comprendere per quale motivo la sentenza doveva essere riformata e in quali precisi termini doveva essere motivata.

4.2. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1. Sostiene il ricorrente che la Corte di appello non avrebbe considerato che l’accertamento effettuato dal Tribunale in sede di opposizione relativamente all’insussistenza della condotta dettagliata al punto n. 2 della contestazione disciplinare – l’aver agito il dipendente sempre con il consenso degli organi gerarchicamente sovraordinati – non era stato specificatamente impugnato da Unicredit nel reclamo proposto alla Corte di appello e dunque era coperto da giudicato.

4.3. Con il terzo motivo di ricorso il F. lamenta che la Corte di appello in violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non avrebbe considerato che la società che era rimasta coinvolta nel crac finanziario era una cliente di eccellenza alla quale era riservato un particolare trattamento e che i vertici della banca avevano sempre condiviso le scelte da lui eseguite, talora imponendogliele. In particolare la sentenza non avrebbe tenuto conto di fatti decisivi su cui si era formato il giudicato ed in particolare che dalla documentazione allegata al ricorso in primo grado si evincevano i suoi compiti di gestore (sviluppo e gestione commerciale della clientela in portafoglio con personalizzazione della relazione per supportarla nelle esigenze finanziarie ed assicurare il conseguimento degli obiettivi economici nei limiti della sua autonomia operativa e deliberativa di sconfinamenti temporanei non superiori ad Euro 300.000,00) e che l’istruttoria espletata aveva confermato che l’attività era soggetta a controlli periodici anche per il monitoraggio dei rischi. Inoltre la Corte di merito non avrebbe tenuto in considerazione il fatto che, in tale dinamica organizzativa, tutti erano al corrente della mancanza delle perizie per le operazioni poi contestate in quanto queste erano ritenute fonti di rilevanti introiti per la Banca. Inoltre era risultato provato che i tiraggi contestati erano stati tutti autorizzati e ratificati dai responsabili e che al ricorrente non era consentito di impedire l’utilizzo della linea di credito in quanto il contratto RCF non prevedeva limitazioni di utilizzo. Sottolinea ancora che il valore delle navi non era il solo elemento da considerare nel verificare il merito creditizio: ciò che realmente rilevava era la capacità di rimborso da parte del cliente che andava valutata sulla base dei flussi di cassa e delle ulteriori garanzie date da contratti di noleggio con primari clienti (quali l’Enel s.p.a. e l’Eni s.p.a). Evidenzia inoltre che in favore della società Deiulemar Shipping, così come per altre importanti società clienti dell’Istituto, vi era una prassi consolidata di soprassedere alla verifica della corrispondenza del valore delle garanzie; che nella lettera di contestazione non vi era alcun riferimento alla violazione di normativa bancaria e del contratto di finanziamento; che i vertici aziendali, pur consci della particolare situazione della società, avevano autorizzato il posticipo dei pagamenti. Osserva allora che tutte queste circostanze, valutate dal Tribunale, non risultavano specificatamente contestate in sede di reclamo. Aggiunge poi che il giudice del reclamo non avrebbe considerato che già nel giugno 2011, quando erano stati effettuati i tiraggi contestati, la Shipping Finance era a conoscenza delle criticità e non riteneva di segnalarle ai vertici dell’Istituto che avrebbero dovuto incontrare la società. Insiste pertanto nel ritenere che, se prese in esame, queste circostanze di fatto, tutte allegate e provate, avrebbero determinato un diverso esito della controversia e che erroneamente la sentenza avrebbe ritenuto che il F. avrebbe dovuto disattendere l’ordine, palesemente illegittimo, con il quale erano demandate le deroghe alla erogazione del credito atteso che pacificamente non si trattava di atti vietati per legge o di illeciti amministrativi.

4.4. Con il quarto motivo del ricorso principale è denunciata la violazione o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 4, della L. n. 300 del 1970, art. 15 e della L. n. 108 del 1990, art. 3, relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Sostiene il ricorrente che erroneamente la Corte di merito avrebbe escluso che il licenziamento si connotasse dei caratteri della discriminatorietà o ritorsività atteso che da un canto tutti i fatti contestati sono risultati non provati e che, dall’altro, è emerso che la Banca ha sanzionato l’unico soggetto che non aveva potere decisionale lasciando immuni da censure tutti gli altri.

4.5. Con il quinto ed ultimo motivo del ricorso principale si censura la sentenza che, in violazione o falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, commi 3 e 4 e con omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, aveva ritenuto tempestiva la contestazione dell’addebito ed il successivo licenziamento sebbene fosse emerso con chiarezza che l’Istituto di credito sin dall’Audit dell’aprile 2012 (che si era svolto in un solo giorno) era a conoscenza dei fatti che poi erano stati addebitati al F. e dunque non era giustificato il ritardo nella contestazione disciplinare che, perciò solo, andava annullata.

5. Con l’unico motivo di ricorso incidentale Unicredit s.p.a. denuncia un error in procedendo per avere la Corte del reclamo, in violazione degli artt. 278, 112 e 115 c.p.c., rigettato la domanda di restituzione delle somme versate in esecuzione della sentenza del Tribunale in sede di opposizione sull’errato presupposto che non fosse stato prodotto alcun documento che comprovasse l’avvenuto pagamento. Ed infatti era stata chiesta solo una condanna generica alla restituzione che non presupponeva la prova del pagamento effettivo peraltro mai contestata dal lavoratore in giudizio.

6. Vanno esaminate con precedenza le censure contenute nel ricorso principale.

6.1. In relazione al primo motivo occorre premettere che l’impugnazione della sentenza pronunciata ai sensi della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 57, è, nella sostanza, un appello e, dunque, per tutti i profili non regolati dalle disposizioni specifiche, si applica l’art. 434 c.p.c., nel testo, ratione temporis vigente, introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. con modif. in L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. in termini Cass. 09/09/2016 n. 17863 e 15/04/2016 n. 7571). Ne consegue che i requisiti del reclamo sono quelli del ricorso in appello che, ai sensi del novellato art. 434 c.p.c., deve individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonchè ai passaggi argomentativi che la sorreggono formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice in modo da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata senza tuttavia che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto (cfr. Cass. 05/02/2015, n. 2143). Ciò posto, va rilevato che la censura articolata davanti a questa Corte di Cassazione è viziata da una estrema genericità poichè è formulata in maniera tale da non consentire al Collegio di verificare, sin dalla lettura del ricorso, volto a denunciare l’erroneità della mancata declaratoria della nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, l’impianto specifico del gravame ed i motivi in esso formulati. Va rammentato al riguardo che il vizio denunciato attiene alla corretta applicazione delle norme da cui è disciplinato il processo che ha condotto alla decisione dei giudici di merito ed è perciò ricompreso nella previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, piuttosto che del denunciato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il vizio della sentenza discende infatti direttamente dal modo in cui il processo si è svolto, ossia dai fatti processuali che quel vizio possono aver procurato. Orbene, secondo il consolidato orientamento di legittimità, in caso di denuncia di errores in procedendo del giudice di merito, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto, inteso, ovviamente, come fatto processuale (cfr. Cass. 21/05/2004 n. 9734, recentemente Cass. sez. 6-L 11 febbraio 2016 n. 6798 ed anche le ivi citate Cass. n. 14098 del 2009; Cass. n. 11039 del 2006; Cass. n. 15859 del 2002; Cass. n. 6526 del 2002). Al riguardo le Sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 8077 del 22/05/2012, a composizione di un contrasto di giurisprudenza, nel ribadire che ove i vizi del processo si sostanzino nel compimento di un’attività deviante rispetto alla regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore – come nel caso si tratti di stabilire se sia stato o meno rispettato il modello legale di introduzione del giudizio – il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, tuttavia hanno avuto cura di precisare che la proposizione del motivo di censura resta soggetta alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, nel senso che la parte ha l’onere di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso e le condizioni di procedibilità di esso (in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), “sicchè l’esame diretto degli atti che la Corte è chiamata a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato”.

Anche nel caso di errores in procedendo, allora, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto. Solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità, diventa possibile valutare la fondatezza del motivo. Esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, infatti, la Corte di Cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (cfr. Cass. n. 6798 del 2016 cit. ed ivi le richiamate Cass. n. 17523 del 2009; Cass. n. 4840 del 2006; Cass. n. 1221 del 2006; Cass. n. 896 e n. 18037 del 2014). In sostanza la parte ricorrente è tenuta ad indicare gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, affinchè il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Cass. n. 6225 del 2005; Cass. n. 9734 del 2004). Ove il ricorrente si dolga della reiezione della sua eccezione di inammissibilità del ricorso in appello, in relazione alla genericità del gravame, è tenuto a specificare nel ricorso in cassazione le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e generico il gravame sottoposto a quel giudice e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa genericità (cfr. oltre a Cass. n. 6798 del 2016 cit. anche le ivi richiamate Cass. n. 2143 del 2015; Cass. n. 18 del 2015; Cass. n. 12664 del 2012; Cass. n. 86 del 2012; Cass. n. 23420 del 2011; Cass. n. 20405 del 2006; Cass. n. 6225 del 2005; Cass. n. 9734 del 2004). A tale onere è venuto meno il ricorrente che non riporta i passi della sentenza impugnata che si assumono non essere stati specificatamente censurati, non riproduce (anche solo per estratto) il contenuto delle censure contenute nel reclamo che assume genericamente opposti alle statuizioni della sentenza di primo grado e si limita a reiterare per sintesi estrema nella parte finale del motivo il contenuto delle sue censure. Ne consegue che alla luce delle esposte considerazioni il motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

6.2. Anche il secondo motivo del ricorso principale è inammissibile. A parte i profili di inammissibilità denunciati dalla società controricorrente con riguardo ad una commistione delle censure le cui specifiche ragioni, pur nell’ambito di un unico motivo, non sarebbero con chiarezza distinte, infatti, va rilevato che l’indagine sull’esistenza di un capo della decisione passato in giudicato è preclusa dalla carente specificità della censura che, pur riportando il passo della sentenza reclamata che si assume essere passata in giudicato, tuttavia, non riproduce la parte necessaria del reclamo così impedendo a questa Corte di verificare se, effettivamente, la statuizione del Tribunale non era stata oggetto di censura. Sotto tale profilo il motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile poichè non rispetta i requisiti dettati dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4.

6.3. Del pari inammissibile è il terzo motivo di ricorso che richiede a questa Corte, con il pretesto di un omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, una nuova valutazione delle circostanze di fatto tutte compiutamente esaminate dal giudice del reclamo con una ricostruzione esaustiva del materiale probatorio che perviene a conclusioni diverse rispetto a quelle auspicate dal lavoratore ricorrente ma che, perciò solo, non risultano affette dai vizi denunciati.

6.4. Il quarto motivo del ricorso principale, ove pure ammissibile, è comunque infondato. Premesso che con esso vengono prospettate una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme che si assumono violate, e dalla deduzione del vizio di motivazione, così richiedendosi alla Corte un intervento integrativo per giungere alla compiuta formulazione del motivo (cfr. Cass. 20/09/2013 n. 21611) in ogni caso la corte di appello ha verificato che non era stata offerta la prova della ritorsività del recesso e che il datore di lavoro era receduto in seguito all’accertamento di una condotta gravemente inadempiente e non reagendo ad un comportamento lecito del lavoratore. Al riguardo appare utile rammentare che mentre la nullità derivante dal divieto di discriminazione discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo (L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 15, L. n. 108 del 1990, art. 3, L. n. 125 del 1991, art. 4 ed oggi D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 20) e dunque prescindendo dalla motivazione addotta si incentra sulla condotta discriminatoria che determina di per sè sola la nullità del licenziamento, nel caso del licenziamento ritorsivo elemento qualificante è dato dall’illiceità del motivo unico e determinante del recesso. Nel primo caso il lavoratore che esercita la azione a tutela dalla discriminazione può limitarsi a fornire elementi di fatto – desunti anche da dati di carattere statistico e relativi ad esempio alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, che siano idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori. Spetta invece al convenuto l’onere della prova sulla insussistenza della discriminazione che opera obiettivamente, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. Nel licenziamento ritorsivo, al contrario, non solo il licenziamento deve essere ingiustificato ma è necessario anche che il motivo che si assume essere illecito sia stato anche l’unico determinante (per un’accurata ricostruzione cfr. Cass. 05/04/2016 n. 6575 ed ivi ampi riferimenti di giurisprudenza). Nel caso in esame la Corte del reclamo ha esattamente escluso che fosse stata offerta la prova dell’esistenza di tale motivo illecito ritorsivo e ciò in considerazione del fatto che il licenziamento costituiva la reazione datoriale a comportamenti di cui era stata accertata l’illiceità con una ricostruzione dei fatti completa, analitica e logica che, lo si è già detto, è esente dalle censure che le sono state mosse e non presenta carenze che possano essere in questa sede censurate.

6.5. L’ultimo motivo del ricorso principale con il quale è denunciata la violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 3 e 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, oltre che l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all’ art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è infondato. Come più volte affermato da questa Corte il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro e va inteso in senso relativo in quanto, nel valutarne il rispetto, si deve tenere conto della specifica natura dell’illecito disciplinare e del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini che può essere tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale (cfr. in termini tra le più recenti Cass. 25/01/2016 n. 1248). Orbene la Corte di appello ha correttamente applicato i principi sopra richiamati chiarendo quando la datrice di lavoro è venuta, compiutamente, a conoscenza della condotta che poi è stata oggetto di contestazione e, ricostruito con puntualità l’evolversi del procedimento disciplinare (nel corso del quale il lavoratore è stato cautelativamente sospeso) la cui durata ha ragionevolmente ancorato alla complessità dei fatti contestati e, conseguentemente, delle giustificazioni rese dal lavoratore. Si tratta di una motivazione che coerentemente tiene conto di tutti gli elementi di fatto allegati al processo, senza trascurare alcunchè, e li valuta esattamente alla luce dei principi in materia dettati dalla Cassazione e sopra richiamati pervenendo ad una conclusione che non si presta neppure alle censure formulate sotto il profilo del vizio di motivazione, pure denunciato, posto che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, che si applica al procedimento in esame, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) che nella specie, per le considerazioni sopra esposte, non si è verificato. Nè va trascurato che tale riformulazione è stata interpretata da questa Corte alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione (cfr. Cass. s.u. 07/04/2014 n. 8053 alla quale ne sono seguite molte altre) con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

7. In conclusione il ricorso principale deve essere integralmente rigettato.

8. Del pari è infondato l’unico motivo di ricorso incidentale con il quale si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 278, 112 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, posto che è rimessa al giudice di merito l’interpretazione della domanda proposta e che correttamente avendo ad oggetto delle restituzioni – e dunque non solo l’an della prestazione ma anche il quantum – si è ritenuta necessaria la prova dell’avvenuto pagamento delle somme che, invece non era stata offerta dalla parte che tale richiesta aveva presentato. In conclusione anche il ricorso incidentale deve essere rigettato.

9. Quanto alle spese del giudizio di legittimità l’esito del giudizio e la soccombenza della ricorrente in via incidentale sulla domanda di restituzione ne giustificano, con valutazione complessiva, la compensazione per metà tra le parti. La restante metà, da calcolarsi sull’importo liquidato per l’intero in dispositivo, deve essere posta a carico di F.F.. La circostanza poi che i ricorsi, principale ed incidentale, siano stati proposti in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).

PQM

 

La Corte, rigetta il ricorso principale e quello incidentale e condanna F.F. al pagamento di metà delle spese del giudizio di legittimità liquidate, per l’intero, in Euro 10.000,00 per compensi professionali, Euro 200 per esborsi, oltre al 15% per spese forfetarie ed accessori come per legge. Compensa tra le parti la restante metà.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale e di quello incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale ed incidentale a norma dell’art. 13, comma 1 bis del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2017

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