Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14450 del 26/05/2021

Cassazione civile sez. VI, 26/05/2021, (ud. 30/03/2021, dep. 26/05/2021), n.14450

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17546/2019 R.G. proposto da:

C.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Elsa Fabbiani e

dall’Avv. Riccardo Duykers Mannocci, con domicilio eletto presso lo

studio della prima in Roma, Via dell’Orsa Maggiore, n. 125;

– ricorrente –

contro

G.E., rappresentata e difesa dall’Avv. Luca Damian, con

domicilio eletto in Roma, via Ovidio, n. 20, presso lo studio

dell’Avv. Laura Rofena;

– controricorrente –

e nei confronti di:

P.B.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova, n. 1727/2018,

depositata il 6 dicembre 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30 marzo 2021

dal Consigliere Emilio Iannello.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza n. 800/2016 il Tribunale di La Spezia rigettò la domanda di C.M. diretta ad ottenere la condanna di G.E. al rimborso delle spese sostenute per la ristrutturazione dell’immobile a lui concesso in comodato e alla di lui moglie P.B., figlia della convenuta: ritenne, infatti, tale pretesa preclusa dall’art. 5 del contratto che escludeva qualsiasi indennità per migliorie o variazioni apportate all’immobile dal comodatario;

il C. impugnò tale decisione iterando la domanda di annullamento di detta clausola contrattuale per vizio del consenso: domanda che affermava di avere proposto in primo grado in conseguenza della domanda riconvenzionale di restituzione dell’immobile avanzata da controparte;

la Corte d’appello di Genova ha rigettato il gravame rilevando che – “a prescindere dalla difficoltà di individuare un qualsiasi nesso tra la domanda di restituzione del bene e la domanda di annullamento della clausola, tale da legittimare una domanda altrimenti tardiva” -la relativa facoltà è concessa, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 5, purchè la domanda nuova sia proposta “nella stessa udienza” di trattazione, mentre nel caso di specie essa era stata proposta successivamente, nella memoria di cui al predetto art., comma 6, n. 1, ed era dunque da considerare in ogni caso tardiva; “ciò a prescindere – ha soggiunto la corte ligure – dalla difficoltà di ravvisare nella fattispecie, a fronte del chiaro significato della clausola, i presupposti dell’azione di annullamento per errore”;

avverso tale decisione C.M. ha proposto ricorso per cassazione, con due mezzi, cui resiste G.E. depositando controricorso; l’altra intimata non svolge difese nella presente sede;

essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte;

il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 2.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c.: sostiene che – alla luce del principio affermato da Cass. Sez. U. n. 12310 del 2015, secondo cui “la modificazione della domanda ammessa a norma dell’art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l’allungamento dei tempi processuali” – la domanda di annullamento costituiva, nella specie, una mera modifica della domanda iniziale di condanna al rimborso delle migliorie e addizioni apportate all’immobile, come tale ammissibile anche se proposta con la prima memoria di cui alla citata disposizione, comma 6;

con il secondo motivo il C. deduce, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza e/o del procedimento per omessa pronuncia”, per avere la corte d’appello ritenuto assorbiti gli ulteriori motivi di gravame con particolare riguardo alla domanda di ingiustificato arricchimento;

il primo motivo è infondato;

deve invero ritenersi corretta la valutazione dei giudici di merito circa l’inammissibilità della domanda, proposta dall’odierno ricorrente in primo grado per la prima volta con la memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, volto all’annullamento (parziale) del contratto di comodato;

tale domanda, lungi dall’introdurre una modifica consentita della domanda originaria (di condanna al rimborso delle spese sostenute per la ristrutturazione dell’immobile), ha dato vita ad una nuova pretesa, che, non ponendosi in posizione alternativa o sostitutiva della prima – rimasta ferma e inalterata – si è aggiunta a quest’ultima, alla stregua non già di fatto costitutivo diverso e in sostituzione di quello inizialmente dedotto (apporto di migliorie con anticipazione delle relative spese) bensì di fatto impeditivo dell’eccezione di irripetibilità di quelle spese fondata su clausola contrattuale: fatto impeditivo che così si andava ad aggiungere alle allegazioni iniziali, senza sostituirle, con evidente vulnus difensivo per la controparte;

ciò pone tale prospettazione al di fuori dei limiti in cui la pur lata interpretazione accolta nel richiamato arresto di Cass. Sez. U. n. 12310 del 2015 ammette, nel termine di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, la “modificazione” delle domande, ancorchè tale modifica incida sui suoi elementi identificativi (causa petendi e/o petitum): limiti che, in buona sostanza, stanno (non già nel fatto che le domande modificate ammesse non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì) “nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali -, o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività”;

la tutela di chi agisce, nei termini di un fisiologico e ragionevole aggiustamento della domanda nella fase introduttiva dedicata alla compiuta definizione del tema di lite, è dunque pur sempre correlata ad un circoscritto quadro processuale: “in pratica, con la modificazione della domanda iniziale l’attore, implicitamente rinunciando alla precedente domanda (o, se si vuole, alla domanda siccome formulata nei termini precedenti alla modificazione), mostra chiaramente di ritenere la domanda come modificata più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio” anche perchè “all’esito di una udienza potenzialmente “chiarificatrice”, può risultare assai più evidente alle parti, in relazione alla situazione sostanziale dedotta in causa, la soluzione effettivamente rispondente ai rispettivi interessi e intendimenti”;

l’intervento delle Sezioni Unite non soccorre pertanto la prospettazione del ricorrente e si pone in linea invece con la decisione del giudice d’appello, poichè la modificazione della regiudicanda nei limiti dell’udienza e delle memorie previste dall’art. 183 c.p.c. non include l’introduzione di ulteriori domande accanto a quella originaria e – modificata o no – mantenuta (che un’ulteriore domanda non possa essere aggiunta, anzichè sostituire la domanda originaria, dopo l’intervento nomofilattico del 2015 appena illustrato è stato, come detto, più volte ribadito delle sezioni semplici: v. ex multis Cass. 28/11/2019, n. 31078; 13/09/2019, n. 22865; 24/04/2019, n. 11226; 26/06/2018, n. 16807; 09/02/2018, n. 3254; 31/07/2017, n. 18956; 26/02/2016, n. 3806);

il secondo motivo è inammissibile per palese inosservanza dell’onere di autosufficienza imposto dall’art. 366 n. 6 c.p.c., apprezzabile in ragione della mancata indicazione dell’esatto contenuto del motivo d’appello in tesi obliterato dalla Corte territoriale, oltre che per la omessa sua localizzazione nel fascicolo processuale;

è noto al riguardo che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, ove sia denunciato un error in procedendo il Giudice di legittimità è bensì investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè però la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito;

in particolare, come è stato detto, non viene meno “nemmeno in quest’ipotesi… l’onere per la parte di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito della specificità dei motivi d’impugnazione, ora tradotto nelle più definite e puntuali disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4: sicchè l’esame diretto degli atti che la corte è chiamata a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato” (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077; v. anche ex multis Cass. 13/06/2014, n. 13546);

non pertinente è al riguardo il richiamo, in memoria, a quanto scritto a pag. 2 del ricorso (ove si espone il contenuto della domanda di ingiustificato arricchimento proposta, in subordine, in primo grado, ma non anche il contenuto del motivo di appello con il quale tale domanda sarebbe stata reiterata);

varrà comunque rilevare anche l’infondatezza della doglianza;

ad escludere la violazione del dovere di pronunciare sul motivo d’appello è infatti la valutazione di assorbimento del motivo, riferita dallo stesso ricorrente;

deve in tal senso darsi continuità all’indirizzo già affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in tema di provvedimenti, del giudice, l’assorbimento in senso improprio – configurabile quando la decisione di una questione esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre – impedisce di ritenere sussistente il vizio di omessa pronuncia, il quale è ravvisabile solo quando una questione non sia stata, espressamente o implicitamente, ritenuta assorbita da altre statuizioni della sentenza (v. ex aliis Cass. n. 2334 del 03/02/2020; n. 28995 del 12/11/2018);

ciò implica che perchè la statuizione risulti viziata sotto il profilo motivazionale si deve mettere in discussione la correttezza della valutazione di assorbimento (così, in motivazione, Cass. n. 28864 del 16/12/2020): critica che nella specie non risulta proposta;

il ricorso deve essere pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo;

va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 30 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021

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