Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14447 del 09/06/2017


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Cassazione civile, sez. I, 09/06/2017, (ud. 30/03/2017, dep.09/06/2017),  n. 14447

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14674/2013 proposto da:

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

M.R.;

– intimato –

e contro

M.R. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in Roma,

Piazza Martiri di Belfiore n.2, presso l’avvocato Alessi Gaetano,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Cordaro

Lavinia, giusta procura in calce al controricorso e ricorso

incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 112/2012 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 25/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/03/2017 dal cons. VALITUTTI ANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e del ricorso incidentale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato il 12 giugno 1998, l’avv. M.R. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Caltanissetta, il Ministero dell’Interno, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per pretese dichiarazioni diffamatorie contenute nelle relazioni redatte dal Servizio Centrale Operativo (S.C.O.) della Polizia di Stato, del (OMISSIS) e del (OMISSIS), nel quadro delle indagini svolte all’indomani della strage di (OMISSIS) del (OMISSIS). Il Tribunale adito, con sentenza n. 60/2006, accoglieva parzialmente la domanda, condannando il Ministero dell’Interno al pagamento, a titolo di risarcimento danni, della somma di Euro 95.000,00 a favore dell’avv. M..

2. La Corte di Appello di Caltanissetta, con sentenza n. 112/2012, depositata il 25 giugno 2012, rigettava sia l’appello principale proposto da M.R., sia l’appello incidentale proposto dall’Amministrazione dell’Interno. La Corte territoriale respingeva, invero, l’eccezione di prescrizione proposta dal Ministero, reputava diffamatorie solo talune notizie secondarie contenute nelle predette relazioni, e confermava, nel quantum, il risarcimento del danno riconosciuto all’appellante principale dal giudice di prime cure.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha, quindi, proposto ricorso il Ministero dell’Interno nei confronti dell’avv. M.R., sulla base di cinque motivi. Il resistente ha replicato con controricorso, contenente, altresì, ricorso incidentale affidato a nove motivi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo e secondo motivo di ricorso, il Ministero dell’Interno denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2947 c.c., nonchè l’insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (nel testo applicabile ratione temporis).

1.1. Il ricorrente censura la sentenza di appello nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di prescrizione per decorso del termine quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c., proposta dall’Amministrazione dell’Interno, convenuta in giudizio dall’avv. M.R. al fine di ottenere il risarcimento per pretese dichiarazioni diffamatorie contenute nelle due relazioni redatte dal Servizio Centrale Operativo (S.C.O.) della Polizia di Stato, del (OMISSIS) e del (OMISSIS), nel quadro delle indagini svolte all’indomani della strage di (OMISSIS) del (OMISSIS). Tra le utenze telefoniche significative risultavano, invero, anche quelle intestate all’avv. M., da una delle quali – come riferito dal S.C.O. nella relazione del (OMISSIS) – era partita una comunicazione sospetta pochi minuti prima che il dr. F. uscisse dal suo ufficio romano, per recarsi all’aeroporto di (OMISSIS). Nei confronti del M. la Procura della Repubblica, in data (OMISSIS), richiedeva, pertanto, l’autorizzazione a procedere alla Camera dei deputati, essendo il medesimo, all’epoca, parlamentare della Repubblica.

1.2. Orbene, nell’impugnata sentenza la Corte d’appello confermando la decisione di prime cure – ha ritenuto che la decorrenza del termine quinquennale di prescrizione dovesse essere fatta risalire al 30 settembre 1994, “quando, secondo l’attestazione di cancelleria, gli atti di che trattasi erano divenuti ostensibili alle parti nell’ambito del procedimento penale”, con la conseguenza che alla data in cui l’azione risarcitoria fu promossa dall’avv. M. ((OMISSIS)), il termine quinquennale di prescrizione non poteva considerarsi decorso.

Osserva, per contro, il Ministero che la conoscibilità delle pretese notizie diffamatorie da parte del M. vi sarebbe stata fin dalla data della richiesta di autorizzazione a procedere del (OMISSIS), alla quale era stata, difatti, allegata l’informativa del S.C.O. della Polizia di Stato in data (OMISSIS), contenente le tre notizie ritenute diffamatorie dai giudici dei due gradi di merito: 1) la circostanza che l’avv. M. fosse collega di studio dell’avv. Mo., che si era occupato più volte di reati di mafia; 2) il suo interessamento nella Clinica (OMISSIS); 3) i rapporti di parentela con M.G. e B., pregiudicati per fatti di mafia. Sicchè, dovendo stabilirsi l’inizio della decorrenza del termine di prescrizione quinquennale, ex art. 2947 c.c., al (OMISSIS), ne conseguirebbe che, al momento della proposizione dell’azione risarcitoria ((OMISSIS)), tale termine era ormai ampiamente decorso.

1.3. Le censure sono inammissibili.

1.3.1. Va osservato, infatti, che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno morale da diffamazione decorre non dal momento in cui l’agente compie il fatto illecito, bensì dal momento in cui la parte lesa ne viene a conoscenza, ossia dal momento in cui il danneggiato abbia avuto – o avrebbe dovuto avere, usando l’ordinaria diligenza – sufficiente conoscenza della rapportabilità causale del danno lamentato alla condotta diffamatoria (Cass. 07/10/2011, n. 20609; Cass. 25/05/2010, n. 12699). Ed, in tal senso, si è espressa anche la decisione citata dalla sentenza impugnata, relativa ad un’ipotesi di danno aquiliano derivante dall’illegittimo trattamento di dati personali, nella quale il documento contenente i dati indebitamente diffusi era allegato agli atti di un procedimento penale, con la conseguenza che – secondo questa Corte – la prescrizione del diritto al risarcimento non poteva che decorrere dal momento in cui il preteso danneggiato aveva avuto legalmente la possibilità di attivarsi per conoscere gli atti di indagine (Cass. 21/06/2011, n. 13616).

1.3.2. Ebbene, nel caso di specie, l’Amministrazione ricorrente afferma che alla richiesta di autorizzazione a procedere del (OMISSIS) – trascritta nel ricorso del Ministero nella parte essenziale, nel rispetto del principio di autosufficienza – sarebbe stata allegata l’informativa del S.C.O. della Polizia di Stato, al cui contenuto detta richiesta rinviava integralmente. Ed, in effetti, vi si affermava che “la nota (…) del (OMISSIS) del Nucleo Centrale Criminalità Economica ed Informatica del S.C.O. della Polizia di Stato, che condensa tale risultato e che è allegata alla presente richiesta, va integralmente ritenuta richiamata nella presente richiesta”. La nota in questione evidenziava, poi, che il M. conduceva uno studio di via (OMISSIS) con l’avv. Mo.Sa., appartenente al Foro di quella città, che il medesimo era “interessato alla Clinica (OMISSIS)”, e che già dal 1990 la Questura di Caltanissetta aveva “effettuato indagini per stabilire il rapporto esistente tra M.R. e i noti pregiudicati mafiosi M.G. (…) e M.B.”, i cui rapporti con il primo erano stati confermati da un testimone protetto.

Per il che, le tre notizie ritenute false dai giudici di merito sarebbero state tutte contenute nell’incarto relativo alla richiesta di autorizzazione a procedere, con conseguente possibilità per il M. ad avviso del ricorrente – di venirne a conoscenza.

1.3.3. Tanto premesso, va osservato che la norma dell’art. 366 cod. proc. civ. – nel testo novellato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, applicabile ratione temporis – richiede “a pena di inammissibilità” sia “l’esposizione sommaria dei fatti della causa”, requisito che può ritenersi soddisfatto quando il contenuto dell’atto consenta di avere una chiara e completa cognizione dei fatti che hanno originato la controversia e dell’oggetto dell’impugnazione, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso (Cass. 02/08/2016, n. 16103), sia “la specifica indicazione” degli “atti processuali” e dei “documenti” sui quali il ricorso si fonda, e la loro trascrizione nei punti essenziali, nel rispetto del principio di autosufficienza (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (cfr., ex plurimis, Cass. 9/04/2013, n. 9569; Cass. 15/07/2015, n. 14784).

1.3.4. Nel caso di specie, la sentenza di appello ha affermato, sul punto relativo al decorso del termine quinquennale di prescrizione ex art. 2947 c.c., che manca del tutto la prova che il M. abbia avuto la possibilità, ed in quale data, di accedere effettivamente agli atti relativi all’autorizzazione a procedere presentata alla Camera nei suoi confronti, ivi comprese le predette note investigative. In altri termini, non risulterebbe provato – a parere del giudice di seconde cure – che il medesimo sia stato in grado di venire a conoscenza di tali atti prima che gli stessi fossero resi ostensibili alle parti nel processo penale ((OMISSIS)). Ebbene, a fronte di tale accertamento di fatto contenuto nella sentenza impugnata, il ricorrente si è limitato ad affermare che detta autorizzazione a procedere sarebbe stata presentata alla Camera in data (OMISSIS), con l’allegata nota del S.C.O. della Polizia di Stato, e che “la conoscibilità delle presunte notizie diffamatorie doveva essere determinata con riferimento alla comunicazione all’odierno resistente della richiesta di autorizzazione a procedere”.

E tuttavia, l’Amministrazione non ha neppure indicato – sebbene si trattasse di un fatto rilevante della causa – quando, ed in qual modo, il M. sarebbe venuto a conoscenza di detta richiesta di autorizzazione a procedere, con quale atto la stessa gli sarebbe stata comunicata, ed in quale data, provvedendo – se del caso – alla relativa trascrizione, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso.

1.4. Le doglianze in esame, in quanto inammissibili, non possono, pertanto, trovare accoglimento.

2. Con il terzo motivo di ricorso, il Ministero dell’Interno denuncia l’insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo applicabile ratione temporis).

2.1. Si duole il ricorrente del fatto che la Corte territoriale abbia affermato la “valenza diffamatoria” delle notizie ritenute non veritiere contenute nelle relazioni del S.C.O. della Polizia di Stato, senza tenere in alcun conto, neppure per contestarle, le puntuali argomentazioni – riportate analiticamente nel ricorso per cassazione – svolte dall’Amministrazione circa l’insussistenza della portata diffamatoria delle notizie in questione, e pervenendo alla conclusione contestata sulla base di affermazioni del tutto stringate ed apodittiche.

2.2. La doglianza è fondata.

2.2.1. Ed invero, in tema di risarcimento dei danni da diffamazione, la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie o marginali ove non alterino, nel contesto dell’articolo o di altro mezzo di diffusione, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili (Cass. 27/08/2015, n 17197; Cass. 26/08/2014, n. 18264).

Ebbene, con riferimento al caso in esame, dalla stessa sentenza impugnata si evince che “il giudice di primo grado aveva esaminato tutte le circostanze indicate nelle relazioni investigative, ma aveva individuato come effettivamente false solo alcune di esse, che riteneva però di valenza del tutto secondaria” (p. 2), essendosi le altre notizie pubblicate dalla stampa rivelate del tutto “veritiere” (p. 6). E tale giudizio è stato confermato dalla decisione di seconde cure, laddove ha affermato che l’effetto diffamatorio delle notizie false era “di valenza del tutto secondaria”, rispetto alla pubblicazione di tutti gli atti di indagine effettuata dalla stampa. D’altro canto, è indubitabile che in tema di risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ., per lesione della reputazione personale, la condotta asseritamente diffamatoria della persona non vada valutata “quam suis”, e cioè in riferimento alla considerazione che ciascuno ha della sua reputazione, bensì come effettiva lesione dell’onore e della reputazione di cui la persona goda tra i consociati (Cass. 21/06/2016, n. 12813).

2.2.2. Nel caso concreto, per contro, la Corte d’appello non ha in alcun modo tenuto conto dei diffusi rilievi – trascritti nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza – operati dall’Amministrazione in ordine alla mancanza di una portata offensiva delle notizie diffuse dalle relazioni del S.C.O. succitate, in particolare evidenziandosi, da parte della medesima, che: a) l’attribuire al M. la qualità di collega di studio dell’avv. Mo. nulla toglieva al patrimonio morale del medesimo, essendo del tutto pacifico che si trattava di colleghi, sebbene non di studio, e la circostanza che l’avv. Mo. si occupasse anche di processi di mafia non poteva giustificare di per sè alcuna valutazione negativa nei suoi confronti, atteso che anche gli appartenenti alla mafia hanno diritto alla difesa in giudizio; b) l’interesse del M. alla Gestione della Clinica (OMISSIS) era del tutto neutro, non potendo di certo derivare un discredito morale al medesimo dall’avere interesse ad un’iniziativa imprenditoriale; c) la presunta parentela con i pregiudicati M.G. e B. non poteva costituire motivo di lesione del patrimonio morale dell’avv. M., posto che tale lesione può derivare solo da scelte personali e da fatti volontari, mentre la parentela non viene scelta, essendo, in qualche modo, “subita” dal soggetto.

Ebbene, a fronte di tali argomentate deduzioni, la Corte territoriale si è limitata ad asserire, del tutto laconicamente ed apoditticamente, che “l’intelaiatura complessiva di tali dati non veritieri, l’allusività degli stessi a comportamenti scorretti del M. e il contesto nel quale venivano rappresentati non possono giustificare alcun dubbio sulla loro idoneità ad offendere l’onore ed il decoro di quest’ultimo” (p. 6), senza che neppure un cenno venga operato alle diffuse argomentazioni contenute nell’appello incidentale del Ministero.

2.3. La censura va, pertanto, accolta.

3. Con il quarto motivo di ricorso, il Ministero dell’Interno denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., e art. 51 c.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.1. L’amministrazione – eccependo la violazione dell’art. 2043 c.c., e art. 51 c.p. – si duole del fatto che la Corte territoriale abbia ritenuto sussistente l’ingiustizia del preteso danno arrecato al M., sebbene le notizie non veritiere suindicate fossero state rilevate “in una doverosa attività di indagine che, come tale, configura una causa di esclusione dell’antigiuridicità del fatto”.

2.2. Il motivo è inammissibile.

2.2.1. In tema di ricorso per cassazione, invero, qualora una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti di fatto non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 30/11/2006, n. 25546; Cass. 03/03/2009, n. 5070; Cass. 22/04/2016, n. 8206).

2.2.2. Nel caso di specie, per contro, l’eccezione ex art. 51 c.p., e art. 2043 c.c., non risulta in alcuno modo affrontata dall’impugnata sentenza, nè l’Amministrazione ha neppure dedotto, nel motivo di ricorso, di averla proposta nel giudizio di appello, laddove il resistente ha espressamente eccepito (p. 79 del controricorso) che tale questione non è stata mai proposta nei due gradi del giudizio di merito.

2.3. La censura, poichè inammissibile, non può, pertanto, trovare accoglimento.

3. Restano assorbiti dall’accoglimento del terzo motivo il quinto motivo del ricorso principale, inerente alla quantificazione del danno, e tutti i motivi di ricorso incidentale, finalizzato dal M. ad ottenere un risarcimento dei danni in misura superiore a quella liquidata con la sentenza di appello, essendo le questioni ivi dedotte demandate al giudice di rinvio, all’esito dell’esame dei suesposti rilievi proposti dall’Amministrazione circa la mancanza di portata diffamatoria delle dichiarazioni contenute nelle suddette note del S.C.O. della Polizia di Stato.

4. L’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale comporta, invero, la cassazione dell’impugnata sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione, che dovrà procedere a nuovo esame della controversia, attenendosi ai seguenti principi di diritto: “in tema di risarcimento dei danni da diffamazione, la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie o marginali ove non alterino, nel contesto dell’articolo o di altro mezzo di diffusione, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili”; “la condotta asseritamente diffamatoria della persona non va valutata “quam suis”, e cioè in riferimento alla considerazione che ciascuno ha della sua reputazione, bensì come effettiva lesione dell’onore e della reputazione di cui la persona goda tra i consociati”. Il giudice di rinvio dovrà, altresì, motivare adeguatamente in ordine ai rilievi proposti dall’Amministrazione circa la mancanza di portata diffamatoria delle dichiarazioni contenute nelle note del S.C.O. della Polizia di Stato, in data (OMISSIS) e del (OMISSIS).

5. Il giudice di rinvio provvederà, infine, alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

PQM

 

accoglie il terzo motivo del ricorso principale; dichiara inammissibili il primo, secondo e quarto motivo del ricorso principale; dichiara assorbito il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità; dichiara assorbito il ricorso incidentale. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 30 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2017

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