Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14429 del 09/06/2017


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Cassazione civile, sez. un., 09/06/2017, (ud. 07/03/2017, dep.09/06/2017),  n. 14429

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. BIANCHINI Giovanni – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17497-2013 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto

stesso, rappresentato e difeso dagli avvocati CHERUBINA CIRIELLO,

ELISABETTA LANZETTA, FRANCESCA FERRAZZOLI e GIUSEPPINA GIANNICO;

– ricorrente –

contro

B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA COLA DI

RIENZO 69, presso lo studio dell’avvocato PAOLO BOER, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALBERTO BOER;

– controricorrente –

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata in data

15/04/2013.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/03/2017 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il

rigetto del ricorso;

uditi gli avvocati Cherubina Ciriello e Paolo Boer.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 2050 del 2013 la Corte d’appello di Roma rigettò l’impugnazione dell’Inps avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva riconosciuto ad B.A. le differenze spettanti a titolo di indennità integrativa speciale sulla pensione di reversibilità, erogatale dallo stesso ente quale gestore del Fondo per la copertura degli oneri relativi al trattamento di quiescenza del personale a rapporto di impiego con l’Inps. La Corte riconobbe, altresì, il diritto ai relativi accessori di legge calcolati fino al 31.12.1994 in misura comprensiva di interessi e rivalutazione monetaria e, per il periodo successivo, nel maggior importo tra interessi e rivalutazione ai sensi di quanto disposto dalla L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36. Per quel che qui ancora rileva venne confermato, tra l’altro, il capo della sentenza del primo giudice che aveva riconosciuto gli accessori sulla sorte capitale al lordo delle ritenute erariali e non al netto, come invece previsto dal D.M. 1 settembre 1998, n. 352, art. 3, comma 2, che disciplina i criteri e le modalità per la corresponsione degli interessi legali e della rivalutazione monetaria per il ritardato pagamento degli emolumenti a favore dei dipendenti pubblici.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Inps con due motivi, cui ha resistito la B. con controricorso.

Con ordinanza interlocutoria del 27.9 – 28.10.2016 la Sezione Lavoro di questa Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, avendo registrato un orientamento di legittimità non univoco in merito alla questione di massima, ritenuta di particolare importanza, delle modalità di liquidazione degli accessori di legge, cioè se al lordo o al netto delle ritenute di legge, di tutti i debiti arretrati della pubblica amministrazione per crediti di lavoro. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. per l’udienza odierna in cui la causa è stata discussa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo l’istituto ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 22, comma 36, dell’art. 3, comma 2, del decreto del Ministero del Tesoro del 1 settembre 1998, n. 352, dell’art. 429 cod. proc. civ. e della L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6.

1.a. In particolare l’Inps richiama il Regolamento introdotto dal citato decreto ministeriale, recante i criteri e le modalità per la corresponsione degli interessi legali e della rivalutazione monetaria per ritardato pagamento degli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale a favore dei dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza delle amministrazioni pubbliche di cui al D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 1, comma 2, facendo osservare che lo stesso rappresenta una fonte secondaria di produzione normativa, ma che la Corte di merito, pur avendo correttamente ritenuto la natura sostanzialmente retributiva delle differenze della pensione integrativa già riconosciuta al dante causa dell’odierna intimata – trattandosi di credito che trovava il proprio titolo diretto ed immediato nel rapporto di pubblico impiego che legava il de cuius all’ente di previdenza – ha finito, tuttavia, per affermare che gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria devono assumere quale base di calcolo, ai fini della liquidazione degli accessori dovuti, la sorte capitale al lordo delle ritenute fiscali e contributive. Quindi, il ricorrente fa rilevare che nella fattispecie non aveva agito quale ente gestore di previdenza, bensì quale datore di lavoro pubblico del dante causa della B., per cui ai fini del calcolo degli interessi dovuti a quest’ultima doveva trovare applicazione il citato D.M. n. 352 del 1998, art. 3, comma 2.

2. Col secondo motivo, dedotto per omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5), l’Inps adduce che, nonostante il riconoscimento da parte della Corte d’appello della natura sostanzialmente retributiva delle differenze della pensione integrativa di cui trattasi, lo stesso collegio ha poi rilevato che gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria devono assumere quale base di calcolo, ai fini della liquidazione degli accessori dovuti, la sorte capitale al lordo delle ritenute fiscali e contributive, finendo, in tal modo, per negare la natura retributiva della pensione integrativa, pacifica anche tra le parti, e disattendendo, di conseguenza, il dettato normativo di cui al citato Regolamento n. 352/1998, applicabile ai dipendenti in attività di servizio o in quiescenza delle amministrazioni pubbliche di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2.

3. Si osserva che il nodo cruciale della questione sta nella L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, in tema di finanza pubblica: tale norma stabilisce, anzitutto, che la L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, (secondo cui l’importo degli interessi legali che gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria sono tenuti a corrispondere sulle prestazioni dovute è portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito) si applica anche agli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 459 del 2000, ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale comma limitatamente alle parole “e privati”. E’ rimasto, quindi, in virtù della disposizione come risultante all’esito dell’intervento della Consulta, il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione per gli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale per i soli dipendenti pubblici, in attività di servizio o in quiescenza, che si è affiancato all’analogo divieto, già operante per effetto della L. n. 412 del 1991, per le prestazioni corrisposte dagli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria.

3.1. Al comma 36 dell’art. 22 della citata L. n. 724 del 1994 è stabilito, altresì, che i criteri e le modalità di applicazione del presente comma sono determinati con decreto del Ministero del Tesoro, da emanarsi entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. A ciò si è provveduto col D.M. del Ministero del Tesoro del 1 settembre 1998, n. 352, che all’art. 3, comma 2, nel prevedere i criteri per la corresponsione degli interessi legali e della rivalutazione monetaria, ha stabilito che tali accessori sono calcolati sulle somme dovute al netto delle ritenute previdenziali, assistenziali ed erariali. Il comma 3 dello stesso art. 3 ha poi previsto che sulle somme da liquidare a titolo di interesse legale o rivalutazione monetaria è applicata la ritenuta fiscale ai sensi del D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314, art. 1.

A tale decreto ministeriale è stata riconosciuta natura regolamentare dalla Sezione lavoro di questa Corte con sentenza n. 14851 del 3.8.2004 (in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 27521 del 10.12.2013), con tutte le conseguenze in tema di una sua applicabilità a prescindere dalle allegazioni e deduzioni delle parti.

4. Nella giurisdizione di legittimità l’orientamento maggioritario (anche se solo la sentenza n. 7158/2010 ha riguardato crediti retributivi attinenti a rapporto di pubblico impiego) ritiene che la rivalutazione monetaria e gli interessi legali liquidati dal giudice in relazione ai crediti di lavoro, ai sensi dell’art. 429 cod. proc. civ., vanno calcolati sulla somma dovuta al lavoratore al lordo delle ritenute fiscali e contributive: invero, le prime attengono al distinto rapporto di imposta e vanno eseguite in un momento successivo alla liquidazione delle spettanze retributive; nelle seconde, il fatto che il datore di lavoro operi per legge quale sostituto d’imposta non modifica l’originaria consistenza del credito retributivo.

In sostanza si è ritenuto, secondo tale orientamento, che il datore di lavoro versa all’amministrazione finanziaria somme che giuridicamente sono di pertinenza del lavoratore, anche se non entrate di fatto nel suo patrimonio. Quindi, i crediti di lavoro, pur permanendo crediti di valuta, sono tuttavia indicizzabili secondo la particolare disciplina degli accessori spettanti ai sensi dell’art. 429 c.p.c., comma 3, costituendo mere componenti di un credito indicizzato di cui condividono la natura. In base a tale indirizzo l’art. 429 c.p.c. ha, pertanto, introdotto, relativamente agli accessori dei crediti di lavoro, una disciplina speciale derogatoria e sostitutiva rispetto alla disciplina comune del ritardo nell’adempimento dei debiti pecuniari di cui all’art. 1224 cod. civ., che aggiunge ad una ragione risarcitoria una concorrente ragione compulsiva di pena privata, ossia di dissuadere il datore di lavoro dalla mora debendi e dalla speranza di investire la somma non ancora corrisposta al lavoratore in impieghi più lucrosi della perdita dipendente dal risarcimento del danno da mora. Ne consegue che gli accessori di legge non devono essere calcolati solo sulla somma della cui effettiva disponibilità il lavoratore sia stato privato, cioè l’importo netto, bensì su tutte le somme giuridicamente di sua pertinenza, vale a dire l’importo lordo, comprese quelle che il datore di lavoro verserà per conto del dipendente all’amministrazione finanziaria e all’istituto previdenziale.

4.1. In senso contrario (quella più recente è Cass. sez. lav. n. 27521 del 10.12.2013, mentre quelle più risalenti sono le sentenze n. 6507/81, n. 688/85 e n. 5486/85) si è affermato che “in relazione ai criteri e alle modalità per la corresponsione degli interessi legali e della rivalutazione monetaria, per ritardato pagamento degli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale a favore dei dipendenti pubblici in attività di servizio o in quiescenza, il D.M. 1 settembre 1998, n. 352, art. 3, comma 2, secondo il quale detti accessori sono calcolati sulle somme dovute, al netto delle ritenute previdenziali, assistenziali ed erariali, si applica anche agli interessi e alla rivalutazione che conseguono ad una sentenza di condanna al pagamento di somme a titolo di differenze retributive, sempre che la sentenza non abbia quantificato essa stessa l’ammontare di tali accessori del credito principale o abbia determinato, in modo diverso, le modalità di calcolo dei medesimi”.

5. Per quel che concerne, invece, l’orientamento della giurisprudenza amministrativa è da registrare la decisione n. 3 del 1999 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che aveva ritenuto che il calcolo della rivalutazione monetaria ed interessi sulle somme dovute ai pubblici dipendenti dovesse essere effettuato sull’ammontare netto del credito del pubblico impiegato e non sulle somme lorde poste a base del prelievo fiscale, sulla base della semplice considerazione che la quota del capitale destinata a ritenute fiscali è una somma di cui i dipendenti non potrebbero mai disporre e che, dunque, è improduttiva nei loro confronti di interessi e rivalutazione.

5.1. Con una più analitica motivazione l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 18 del 5.6.2012 ha ribadito il precedente orientamento affermando che la regola del divieto del cumulo comporta necessariamente che la rivalutazione monetaria non sia più compenetrata con il credito retributivo, non partecipi della stessa natura di questo quale sua componente inscindibile, ma sia distinta e rappresenti solo una tecnica liquidatoria del danno da ritardo, con l’ulteriore conseguenza che il credito da lavoro non risulterebbe diverso dalle altre obbligazioni di natura pecuniaria, diversi essendo solo gli effetti dell’inadempimento. Si precisa, perciò, che tanto la rivalutazione quanto gli interessi che spettano al dipendente pubblico, rappresentano soltanto un effetto del ritardo e quindi non possono essere inglobati nel credito fin dall’origine, dovendo essere computati separatamente sulla somma capitale; in particolare la rivalutazione nel credito di lavoro assolve, rispetto alla prestazione dovuta, ad una funzione accessoria, parallela a quella degli interessi, coi quali concorre alla funzione globalmente riparatoria.

Tali conclusioni, raggiunte per i crediti successivi al 1 gennaio 1995, valgono anche per i crediti maturati entro il 31 dicembre 1994, che pur soggiacciono alla regola di diritto vivente del cumulo fra interessi e rivalutazione, in quanto seppure per essi la rivalutazione si aggiunge agli interessi è altrettanto vero che i due accessori devono essere computati separatamente sulla somma capitale e solo su questa, e non sulla somma via via rivalutata.

5.2. Sulla base di tali premesse l’Adunanza Plenaria ha confermato l’indirizzo secondo cui il calcolo degli accessori deve essere operato al netto delle ritenute di legge, ritenendo produttivo di interessi e soggetto ai meccanismi di attualizzazione del credito solo il denaro che viene posto a disposizione del creditore, che incrementi effettivamente il patrimonio del medesimo, e non quello corrispondente alle ritenute alla fonte, operate dal sostituto d’imposta attraverso il rapporto di delegazione ex lege, che non sarebbe mai entrato nella disponibilità del dipendente.

In realtà, tale posizione era consolidata ancor prima dell’adozione del D.M. n. 352 del 1998, tanto che, ad esempio, già in Sez. 4 n. 54 C.d.S. del 19.1.1993 si affermava che “il conteggio degli accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria) del credito principale va eseguito sulla somma netta liquidata dall’avente diritto in considerazione che il ritardo nel pagamento danneggia l’avente diritto con specifico riferimento alla somma netta che avrebbe dovuto essere corrisposta alla scadenza di legge e non alla somma lorda idealmente comprensiva delle ritenute a vario modo operate dall’Amministrazione; dette ritenute vengono effettuate prima ancora che il credito sia percepito dal titolare, sicchè l’integrazione rappresentata dalla rivalutazione e dagli interessi non può che riguardare il credito netto”.

6. Orbene, tale essendo il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ritengono le Sezioni unite di questa Corte che non sussistono valide ragioni per le quali il giudice ordinario possa disapplicare la norma speciale rappresentata dall’art. 3, comma 2, del decreto del Ministero del Tesoro del 1 settembre 1998, n. 352, alla cui stregua, in caso di ritardato pagamento degli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale a favore dei dipendenti pubblici in attività di servizio o in quiescenza, gli accessori di legge sono calcolati sulle somme dovute al netto delle ritenute previdenziali, assistenziali ed erariali. Tra l’altro, occorre tener presente il dato di fondo rappresentato dalla decisione della Consulta che, attraverso la citata sentenza n. 459 del 2000, ha rimarcato la separazione tra la disciplina pubblicistica e privatistica del rapporto di lavoro nel momento in cui, dichiarando l’illegittimità costituzionale della L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, limitatamente alle parole “e privati”, ha mantenuto il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione per gli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale per i soli dipendenti pubblici, in attività di servizio o in quiescenza.

6.1. In pratica, non si ravvisano ragioni di contrasto tra la norma delegante (L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36) e quella delegata (D.M. n. 352 del 1998, art. 3, comma 2), atte ad ipotizzare una disapplicazione di quest’ultima, tanto più che la prima richiama il meccanismo già previsto dalla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, e rimette all’autorità amministrativa il compito di individuare i criteri e le modalità di applicazione del divieto di cumulo. Ebbene, la regola dell’utilizzo dell’importo netto anzichè di quello lordo, così come prevista dal D.M. n. 352 del 1998, art. 3, comma 2, non interviene sull’ambito temporale fissato dalla norma delegante, nè sulla platea dei destinatari, nè sul meccanismo del cumulo: invero, il meccanismo prefigurato per il calcolo degli interessi e della rivalutazione monetaria sulle somme spettanti al netto delle ritenute previdenziali, assistenziali ed erariali non è altro che uno dei possibili criteri applicabili per individuare la base di calcolo degli accessori di legge, utilizzabile a prescindere dal divieto di cumulo, come provato anche dal fatto che tale metodo di computo era stato già adottato dalla giurisprudenza amministrativa.

6.2. Nè si ravvisa un eccesso di delega da parte dell’autorità amministrativa che ha provveduto alla demandata regolamentazione, posto che nessuna delle norme di rango primario operanti in materia, vale a dire l’art. 429 cod. proc. civ., la L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6, e la L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, tratta dello specifico criterio da utilizzare per l’individuazione della base di calcolo degli accessori in ambito lavoristico e previdenziale, sia pubblico che privato.

D’altra parte l’esistenza di una disciplina speciale per il lavoro svolto alle dipendenze della pubblica amministrazione, dati i vincoli istituzionali imposti all’attività amministrativa derivanti dal rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento, ai quali è estranea ogni logica speculativa, nonchè le esigenze di contenimento della spesa pubblica ed i vincoli imposti dalla contrattazione di comparto a quella decentrata, oltre che il peculiare regime delle fonti, finiscono per condizionare nel loro insieme il rapporto di lavoro pubblico, dando necessariamente luogo a regole che derogano la disciplina comune di diritto privato. La pubblica amministrazione, infatti, conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro contrattualizzato – una connotazione peculiare, essendo tenuta al rispetto dei predetti principi e vincoli, la qual cosa legittima differenziazioni di trattamento rispetto al lavoro privato. Riprova ne è che proprio in tema di accessori del credito la disciplina privatistica e quella pubblicistica del rapporto di lavoro non possono considerarsi omogenee ai fini di una comparazione per la formulazione del giudizio di razionalità o meno della norma di cui al D.M. n. 352 del 1998, art. 3, comma 2, operando solo per il lavoro pubblico il divieto di cumulo che ha già superato il vaglio di costituzionalità.

6.3. Ebbene, proprio tali elementi di specialità escludono che la norma regolamentare in esame possa presentare aspetti di contrarietà alle norme di cui agli artt. 3 e 36 Cost.. In particolare, i requisiti costituzionali di proporzionalità e sufficienza della retribuzione non possono ritenersi violati dal meccanismo di calcolo in questione, posto che ripetutamente la Consulta ha spiegato che in tali casi occorre far riferimento non già alle singole componenti di un trattamento, ma alla retribuzione nel suo complesso. (v. Corte Cost. sentenze n. 154/2014, n. 310 e 304/2013, n. 120/2012, n. 287 e 366 del 2006).

In effetti, per i dipendenti pubblici continua ad operare una disciplina nel complesso più favorevole rispetto a quella dei creditori comuni, giacchè ai predetti lavoratori è comunque attribuito automaticamente il beneficio della rivalutazione a titolo di maggior danno ed essendo gli stessi esonerati dall’onere della relativa prova, con conseguente tutela della giusta retribuzione.

In effetti, il maggior sacrificio per i pubblici dipendenti rispetto ai lavoratori privati in conseguenza di un calcolo degli accessori di legge al netto delle ritenute di legge non può ritenersi causa di trattamento discriminatorio in quanto la ragionevolezza della normativa di riferimento risulta giustificata dalle superiori esigenze di finanza pubblica e permanendo, comunque, un regime di tutela differenziata per i crediti dei dipendenti pubblici rispetto a tutti gli altri crediti ordinari.

6.4. In definitiva può affermarsi che l’individuazione della base di calcolo costituisce certamente una tra le possibili modalità applicative del divieto di cumulo, esteso ai pubblici dipendenti dalla L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, e ciò esclude che il calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi sulle somme dovute ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, operato al netto e non al lordo del prelievo fiscale, possa configurare una ipotesi di eccesso di delega imputabile all’autorità amministrativa demandata dal legislatore a disciplinare un tale meccanismo di computo.

Nè rilievo alcuno, ai fini che qui interessano, può avere la deduzione difensiva della lavoratrice secondo la quale attraverso il metodo di computo degli accessori di cui all’art. 3, comma 2, del citato decreto ministeriale l’Inps sottrarrebbe al lavoratore somme che spetterebbero al fisco, così come il fisco subirebbe una perdita per effetto della falcidia della base imponibile degli interessi, cioè al netto e non al lordo delle ritenute di legge, per cui l’unico soggetto che trarrebbe beneficio da una tale operazione sarebbe proprio il soggetto resosi inadempiente, vale a dire l’istituto di previdenza: invero, è agevole osservare che tale problematica non entra a far parte della questione che qui interessa della legittimità del citato decreto ministeriale che risponde a precise scelte normative e, in ogni caso, il riferimento di base non può essere che quello a cui il lavoratore ha diritto in termini di accessori sulle somme che entrano realmente a far parte del suo patrimonio. Infatti, il ritardo nel pagamento danneggia l’avente diritto con specifico riferimento alla somma netta che avrebbe dovuto essergli corrisposta alla scadenza di legge e non alla somma lorda idealmente comprensiva delle ritenute a vario modo operate dall’Amministrazione.

Pertanto, il ricorso dell’Inps è fondato e va accolto, con conseguente cassazione dell’impugnata sentenza e rinvio del giudizio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

PQM

 

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 7 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2017

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