Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14424 del 07/06/2013


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Civile Sent. Sez. 1 Num. 14424 Anno 2013
Presidente: CARNEVALE CORRADO
Relatore: MACIOCE LUIGI

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 18349 del R.G. anno 2006
proposto da:
Comune di Palermo in persona del Sindaco in carica. dom.to in
Roma presso la cancelleria della Corte di Cassazione con l’Avv. Giovanni
Airò Farulla che lo rappresenta e difende per procura in calce al ricorso

ricorrentecontro
Ministero dell’Economia e delle Finanze – Agenzia del
Demanio

domiciliati in Roma via dei Portoghesi 12 presso

l’Avvocatura Generale dello Stato che li rappresenta e difende per legge

contro ricorrente
avverso la sentenza

513 del 20.04.2005 della Corte di Appello di

Palermo ; udita la relazione della causa svolta nella p.u. del 14.05.2013
dal Consigliere Dott. Luigi MACIOCE; presente il P.M., in persona del
Sostituto Procuratore Generale Dott. Pasquale Fimiani che ha concluso
per l’inammissi9bilità del ricorso verso Agenzia del Demanio e per il
rigetto del ricorso verso M.E.F.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ingiunzione emessa ai sensi del RD 639/1910 il Comune di Palermo venne intimato di pagare all’istante Ufficio del Registro e del Dema-

I

Zo

Data pubblicazione: 07/06/2013

nio di Palermo dell’Amministrazione Finanziaria dello Stato la somma di
„ lire 5.484.951.800 per canoni di “affitto” non corrisposti per il godimento
del locale Palazzo di Giustizia dal 1958 al 1988. Si oppose nel 1994
l’ingiunto Comune – negando l’intercorso rapporto di locazione, eccependo la prescrizione e deducendo la nullità del decreto – e si costituirono le Amministrazioni dello Stato. Il Tribunale, con sentenza
5.10.2002, revocò l’ingiunzione per gli anni sino al 1983, perché coperti
dal giudicato formatosi sull’ingiunzione emessa per detti anni e negò al-

emesso il decreto interministeriale previsto dalla legge per la quantificazione. La Corte di Palermo, esaminando l’appello delle Amministrazioni,
lo accolse in parte con sentenza 20.4.2005 nella quale osservò che
l’oggetto della contesa era limitato agli anni 1984-1988,

che la pretesa

era fondata sull’art. 3 c. 3 della legge 392 del 1941 che faceva obbligo ai
Comuni di corrispondere la pigione per gli immobili adibiti ad uffici giudiziari, che era stato emesso il previsto D.I. in data 8.10.1960 che determinava detta “pigione” in lire 75 milioni ad anno e pertanto comportava
un credito di € 193.671,33 oltre interessi legali, che in tal importo andava quindi determinata la condanna del Comune.
Per la cassazione di tale sentenza il Comune di Palermo ha proposto ricorso il 3.6.2006 cui ha resistito l’Amministrazione con controricorso

.e.

13.7.2006.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente dichiarata la inammissibilità del ricorso nei confronti di
Agenzia del Demanio, che già la Corte di Appello ha ritenuto essere estranea al primo giudizio e pertanto soggetto al quale non doveva essere
notificata la impugnazione, vanno esaminate le censure proposte dal
Comune nei confronti del Ministero.
Nel ricorso si articolano otto motivi, nessuno dei quali, ad avviso del Collegio, merita condivisione.
Con un primo motivo si afferma l’incostituzionalità degli artt. 1,2,3 della
legge 392 del 1941, per violazione degli artt. 5-97-116-119 Cost., avendo detta legge, pur anteriore alla Costituzione repubblicana gravato
i Comuni, e vieppiù quelli della regione Siciliana, di oneri estranei ai
suoi scopi, imposti in via autoritativa ed in distonia dalle esigenze di efficienza organizzativa (essendo il Comune obbligato verso il M.E.F. ed a
sua volta creditore di pari importo verso il Ministero della Giustizia, sì da
creare una incongrua e defatigante partita di giro).
Il motivo è ictu °cui/ inconsistente, posto che il ricorso neanche mostra
consapevolezza della sentenza 150 del 1986 della Corte Costituzionale,

2

cuna debenza per gli anni successivi considerando che non fosse stato

e

intervenuta molti anni prima della redazione del ricorso, la cui statuizione di manifesta infondatezza della questione è stata così massimata:
Lo Stato, dovendo attuare “nei servizi che dipendono” da esso “il più
ampio decentramento amministrativo” (art. 5 Cost.), ben può valersi,
nell’esercizio delle sue funzioni amministrative (ed analogamente a
quanto nella Carta espressamente previsto per l’attività amministrativa
delle Regioni), degli uffici dei Comuni (oltre che delle Province e degli
altri enti locali), evitando, in tal modo, di creare, anche nelle località più

pione di quelli degli enti territoriali. Sicché – a parte il non pertinente richiamo all’art. 110 Cost., che segna piuttosto il confine tra le competenze del Consiglio superiore della magistratura e quelle del Ministro della
giustizia – il censurato affidamento ai Comuni dei compiti di provvista e
manutenzione dei locali adibiti ad uffici giudiziari non con fugge con gli
artt. 5 e 128 Cost.; ne’ tali articoli risultano violati in conseguenza dell’accollo ai Comuni medesimi delle relative spese, tenuto conto della entità del contributo statale annuo che la stessa legge questioni prevede, e
del sostegno dato dallo Stato alla finanza locale..
Nulla di nuovo, rispetto a tal pronunzia, avendo il ricorso aggiunto, il
Collegio, che totalmente condivide i rilievi di manifesta infondatezza delle questioni poste, non può che dichiarare la infondatezza evidente delle
è

meramente riproposte censure.
Con un secondo motivo si censura la sentenza per aver ignorato il giudicato, formatosi su questione analoga anche se per annualità diverse da
quelle in contesa, di cui alla sentenza del 1996 del Tribunale di Palermo: anche tal doglianza non ha alcun pregio posto che quel giudice aveva esaminato un rapporto afferente diversa ingiunzione, per anteriori
annualità, ed aveva però negato la legittimità dell’emissione del decreto
interministeriale di quantificazione e la stessa prova della pretesa abusiva occupazione. Si era quindi mosso lungo una linea che conduceva a
diverso accertamento dei fatti, non riproducibile come statuizione vincolante per la contestazione di annualità successive.
Con un terzo motivo si afferma l’inesistenza di alcun titolo contrattuale
per la pretesa locazione: la censura è priva della minima consistenza ove
si consideri che l’obbligazione in discorso è frutto di diretta previsione di
legge che non richiede, né tampoco consente ,una “negoziazione” tra
creditore ed obbligato. Si ricorda, del resto, sulla mera assimilazione delle dette “pigioni” a canoni ai soli fini prescrizionali, Cass.

2457 del

1989 e, sulla debenza dei canoni da parte dei COA “ospitati” negli uffi-

3

decentrate, propri ed appositi organi tecnici che costituirebbero un dop-

ci giudiziari, Cass. 12930 del 1992.
Con un quarto e quinto motivo si denunzia poi la carenza di motivazione
sulla occupazione dei locali, sulla esistenza e sulla portata del Decreto
Interministeriale de quo: sono censure inammissibili per il loro scopo
esplorativo, per la loro irrilevanza nel detto quadro normativo, per la assenza di alcuna autosufficienza espositiva. Quanto alla pretesa assenza
della prova del d.i. (che venne ritenuta mancante dal Tribunale di Palermo nella sentenza del 1996, indebitamente richiamata come fonte di

dell’ indice delle produzioni dell’Avvocatura Distrettuale in appello,
l’esistenza del decreto interminsteriale 131283 in data 8.10.1960 recante la nota quantificazione del canone annuo a carico del Comune (lire 75
milioni).
Con un sesto e settimo motivo si contesta ancora la decisione sulla
ammissibilità e sull’accoglimento della riconvenzionale nella opposizione ad ingiunzione patrimoniale: in realtà non si scorge alcuna ultrapetizione posto che il primo giudice aveva revocato in toto l’ingiunzione e
che la Corte di Appello, prendendo atto della esattezza parziale del decisum e pertanto esaminando i soli anni 1984-1988 non aveva affatto
accolto una “riconvenzionale” del M.E.F. – nonostante l’impropria espressione utilizzata in sentenza – ma solo aveva accolta parzialmente,
ed in dissenso dal primo giudice, la pretesa originaria.
Con un ottavo motivo si lamenta la genericità della motivazione che ha
disatteso l’eccezione di prescrizione alla luce dei documentati numerosi
atti interruttivi emergenti dal fascicolo di parte dell’appellante: la genericità ed assoluta assenza di autosufficienza viziano in radice la stessa esaminabilità del motivo , posto che, a fronte di una motivazione di richiamo della documentazione in atti, la censura si sarebbe dovuta appuntare sulla inesistenza o non conducenza di quella documentazione e
non sulla sola legittimità di una motivazione “per rinvio” (in sé certamente ammissibile). La reiezione del ricorso impone la condanna del
Comune alla refusione delle spese in favore del M.E.F.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso verso Agenzia del demanio e rigetta il
ricorso verso il Ministero dell’Economia e Finanze; condanna il Comune a
versare allo stesso Ministero, per spese di lite, € 5.000 oltre a spese
prenotate a debito.
Così d ciso nella c.d.c. del 14 Maggio 2013.
Il Co s.est.

“giudicato”), la Corte di merito ha accertato, sulla scorta del doc. al n. 8

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