Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14406 del 09/06/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 09/06/2017, (ud. 07/03/2017, dep.09/06/2017),  n. 14406

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 29477 del ruolo generale dell’anno 2010,

proposto da:

s.p.a. Cairo Communication, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine

del ricorso, dagli avvocati Giancarlo Zoppini, Giuseppe Russo

Corvace e Giuseppe Pizzonia, presso lo studio dei quali in Roma,

alla via della Scrofa, n. 57, elettivamente si domicilia

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, si

domicilia;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, sezione 26, depositata in data 28 aprile

2010, n. 60/26/2010;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data 7

marzo 2017 dal consigliere Angelina-Maria Perrino;

udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore

generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per

l’inammissibilità ed in subordine il rigetto del ricorso;

uditi per la contribuente l’avv. Giancarlo Zoppini e per l’Agenzia

l’avvocato dello Stato Anna Collabolletta.

Fatto

FATTI DI CAUSA

In esito a verifica condotta nei confronti della s.p.a. Aegis Media Italia, i verbalizzanti riscontrarono che questa società emetteva nei confronti delle società concessionarie di spazi pubblicitari, tra le quali la s.p.a. Cairo Communication, fatture aventi come oggetto “premi impegnativa”, che assoggettava ad iva con l’aliquota del 20%. Di rimando, le società concessionarie, e quindi anche la s.p.a. Cairo Communication, ricevute le fatture, le contabilizzavano, detraendo gli importi dell’iva. L’Ufficio ha qualificato i “premi impegnativa” come cessioni di danaro a titolo gratuito, in quanto tali non assoggettabili ad iva ed ha per conseguenza recuperato l’iva che ha assunto indebitamente detratta per l’anno 2002. La s.p.a. Cairo Communication ha impugnato l’avviso di accertamento, ottenendone l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale. Quella regionale ha accolto l’appello dell’Agenzia valorizzando le dichiarazioni rese dal direttore amministrativo-finanziario della società, che ha escluso l’assunzione di obblighi tra la concessionaria di pubblicità da un lato e la Aegis Media Italia dall’altro e sottolineando che la contribuente non ha addotto alcun elemento a sostegno dell’onerosità delle cessioni di danaro in questione. Contro questa sentenza propone ricorso la contribuente per ottenerne la cassazione, che affida a nove motivi, cui l’Agenzia reagisce con controricorso. La società deposita altresì memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con i primi tre motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente, perchè connessi, la contribuente si duole:

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dell’omessa od insufficiente motivazione circa il fatto controverso e decisivo che le somme corrisposte a titolo di “premi impegnativa” hanno remunerato l’attività d’intermediazione svolta dalla Aegis nei confronti della Cairo – primo motivo;

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in quanto l’onere di provare la sussistenza di obbligazioni contrattuali in osservanza delle quali sono state corrisposte le somme in questione spetta all’Agenzia e non già alla contribuente, come ha mostrato di ritenere il giudice d’appello – secondo motivo;

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, lett. a), e art. 3, comma 1, là dove la Commissione tributaria regionale ha reputato necessaria la sussistenza della sinallagmaticità delle prestazioni e non già, come avrebbe dovuto, la loro onerosità – terzo motivo.

La complessiva censura è infondata.

1.1.- Giova sottolineare che, al contrario di quanto sostenuto in ricorso, in generale tocca all’acquirente di beni o al committente di prestazioni di servizi che invochi il diritto di detrazione dell’iva assolta o dovuta provare che ricorrono i presupposti per fruirne (tra varie, Corte giust. 18 luglio 2013, causa C-78/12, “Evita-K” EOOD, punto 37), ossia, sotto il profilo sostanziale, la propria soggettività passiva, la circostanza che i beni o i servizi siano utilizzati a valle ai fini delle proprie operazioni soggette a imposta (oppure, almeno, che sussista un nesso diretto e immediato tra le spese connesse alle operazioni a monte ed il complesso delle attività economiche del soggetto passivo: Corte giust. 22 ottobre 2015, causa C-126/14, Sveda UAB) e che, a monte, detti beni siano ceduti o che tali servizi siano forniti da un altro soggetto passivo.

2.- In questo contesto, le categorie negoziali del diritto interno vanno connotate secondo la prospettiva tributaria, alla stregua della quale finiscono col perdere la loro complessità semantica: ciò che conta sono soltanto i tratti idonei a rivelare l’esistenza del presupposto d’imposta. Ed è a questo fine che la Corte di giustizia sottolinea che la valutazione della realtà economica e commerciale costituisce un criterio fondamentale per l’applicazione del sistema comune dell’iva, destinato a prevalere anche sul testo dei contratti (Corte giust. 20 giugno 2014, causa C.653/11, Commissioners Her Majesty’s Revenue and Customs c. Newey, punto 40; 7 ottobre 2010, Loyalty Management UK e Baxi Group, C-53/09 e C-55/09, punti 39 e 40 nonchè la giurisprudenza ivi citata). Si spiega quindi che l’art. 6 della sesta direttiva, nel definire la prestazione di servizi, ricorra al lemma descrittivo di “operazione”. Sono dunque corrette le osservazioni sviluppate in memoria dalla società, secondo cui è predicabile onerosità ai fini dell’assoggettabilità ad iva della prestazione di servizi allorquando una prestazione sia resa a fronte di un corrispettivo. Fuori bersaglio è invece la critica rivolta al precedente di questa Corte indicato in memoria (Cass. 2 dicembre 2015, n. 24510, preceduta e seguita, peraltro, dalle sentenze nn. 25507, 24508, 24509 e 24589 di analogo tenore), in quanto in quel caso ci si è limitati a ricostruire le valutazioni del giudice d’appello, al fine di dichiarare l’inammissibilità delle censure proposte, perchè eccentriche rispetto ad esse.

2.1.- L’esattezza delle considerazioni svolte in via astratta dalla contribuente non giova, tuttavia, alle ragioni del ricorso.

Sia pure filtrate dalla “realtà economica e commerciale”, difatti, le categorie negoziali conservano rilevanza anche dalla prospettiva tributaria. Per giurisprudenza costante una prestazione di servizi è effettuata “a titolo oneroso”, ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1, lett. c), della sesta direttiva iva, soltanto quando tra l’autore di tale prestazione e il suo destinatario intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avviene uno scambio di prestazioni sinallagmatiche, per cui il compenso ricevuto dal primo costituisce il controvalore effettivo del servizio fornito al secondo (Corte giust. in causa C-653/11, punto 40; 27 marzo 2014, causa C-151/13, Le Rayon d’Or, punto 29 e giurisprudenza ivi richiamata, anche antecedente ai fatti di causa). Questa nozione di prestazione di servizi si specchia nel diritto interno, giacchè secondo il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, “costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da…”. La prospettiva della “realtà economica e commerciale” induce dunque ad aver riguardo precipuo all’operazione, ma comporta comunque la necessità dell’esistenza del nesso corrispettivo tra prestazione e compenso (sulla necessaria sinallagmaticità delle prestazioni di servizi, per la loro imponibilità ai fini dell’iva, vedi Cass., sez. un., 15 marzo 2016, n. 5078).

2.3.- Risalta dunque, anche in questa prospettiva, la forza qualificante della corrispettività e non della mera onerosità, che si traduce nella reciprocità assicurata dallo scambio, come correttamente ritenuto dal giudice d’appello con la sentenza impugnata; scambio, che, ai fini dell’iva, non necessariamente dev’essere lucrativo, essendo indifferente il risultato dell’operazione economica (Corte giust. 22 giugno 2016, causa C-267/15, Gemeente Woerden, punto 40, a proposito della pattuizione di un prezzo inferiore ai costi sostenuti).

Lo scambio pretende:

a.- la configurabilità di un rapporto giuridico da cui scaturiscano le attribuzioni patrimoniali;

b.- la reciprocità delle attribuzioni, data dalla sussistenza di un nesso diretto tra il servizio fornito al destinatario ed il compenso da costui corrisposto.

Giova rimarcare che il fatto generatore dell’iva e, dunque, l’insorgenza della correlativa imponibilità vanno identificati con la materiale esecuzione della prestazione, di modo che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, a norma del quale “le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo”, va inteso nel senso che il conseguimento del compenso coincide non con l’evento generatore del tributo, bensì, per esigenze di semplificazione funzionali alla riscossione, soltanto con la sua condizione di esigibilità, estremo limite temporale per l’adempimento dell’obbligo di fatturazione (Cass., sez. un., 21 aprile 2016, n. 8059). Il pagamento del corrispettivo non è per conseguenza essenziale al riscontro del carattere oneroso che l’operazione deve assumere per costituire presupposto dell’imposta, occorrendo, invece, aver riguardo alla fase in cui la prestazione è in concreto eseguita, per verificarne la relazione di reciprocità col corrispettivo. Occorre, in particolare, non soltanto la prova che dal rapporto giuridico siano scaturite le attribuzioni reciproche, ma anche che il compenso sia convenuto come “corrispettivo di un servizio individualizzabile fornito nell’ambito di un siffatto rapporto giuridico” (così Corte giust. 18 gennaio 2017, causa C-37/16, Minister Finansow c. Stowarzyszenie Artystow Wykonawcow Utworow Muzycznych i Siowno-Muzycznych SAWP (SAWP), punto 27).

2.4.- Ed allora, la stessa ricostruzione offerta dalla società smentisce la fondatezza della tesi da essa proposta.

In diritto, il nucleo fondante di questa ricostruzione sta nell’affermazione che si legge a pag. 46 del ricorso, secondo cui il pagamento delle prestazioni di servizi rese anche a favore dei concessionari di pubblicità dal centro media “…avviene non al perfezionamento di ogni singola prestazione di servizi resa ma, per semplicità e per Io stretto legame esistente con la capacità di incrementare il fatturato, in base al risultato economico che il concessionario ottiene periodicamente”. Il che vale quanto riconoscere che all’atto della materiale esecuzione della prestazione, che, come dinanzi specificato, identifica il fatto generatore dell’iva, non è ravvisabile alcun legame diretto ed immediato tra prestazione e corrispettivo.

Va quindi esclusa la necessità di proporre la questione pregiudiziale ventilata in memoria, giacchè nella giurisprudenza unionale vi si legge già una chiara risposta.

Secondo la giurisprudenza costante della Corte di giustizia, difatti, il carattere incerto della stessa esistenza di un compenso spezza il nesso diretto tra il servizio fornito al destinatario e il compenso eventualmente ricevuto, necessario per l’assoggettabilità ad iva della prestazione di servizi (v., per analogia, sentenze 3 marzo 1994, Tolsma, causa C-16/93, punto 19, e 27 settembre 2001, Cibo Participations, causa C-16/00). Conseguentemente, qualora l’attività di un prestatore consista nel fornire esclusivamente prestazioni senza corrispettivo diretto, non vi è base imponibile e tali prestazioni non sono, quindi, soggette all’iva (tra varie, Corte giust. 11 giugno 2016, causa C-11/15, Cesky’ rozhlas, punto 20). Significativamente, da ultimo la Corte di giustizia, a proposito della messa a disposizione di cavalli per la partecipazione a gare ippiche, ha stabilito che essa è presupposto impositivo dell’iva soltanto se sia di per sè compensata, indipendentemente dal conseguimento di premi (Corte giust. 10 novembre 2016, causa C-432/15, Bastovà); analogo ragionamento si può svolgere in relazione al caso in esame, in cui, secondo la ricostruzione offerta in ricorso, non è previsto il compenso della prestazione di per sè quando è eseguita, ma soltanto al raggiungimento del risultato economico programmato.

Nè è utile il paragone, proposto in memoria e in discussione, tra la fattispecie in esame e la mediazione o anche il procacciamento d’affari: nel caso della mediazione o del procacciamento di affari (che hanno come elemento in comune la prestazione di un’attività diretta a favorire tra terzi la conclusione di un affare: Cass. 24 febbraio 2009, n. 4422 e 20 dicembre 2016, n. 26370), difatti, è ravvisabile il nesso tra il corrispettivo ed una prestazione “individualizzabile”, della quale esso rappresenta il controvalore; in quello in esame, invece, al più si può istituire una relazione tra il compenso ed un coacervo di prestazioni, non “individualizzabili” se non per la loro idoneità a raggiungere il fatturato minimo che fa scattare la maturazione del compenso.

3.- In questo contesto, gli elementi specifici addotti dalla società sono privi di decisività e si risolvono in un tentativo di ottenere la rilettura delle risultanze processuali nel senso da essa auspicato:

– non è decisiva la circostanza che le dichiarazioni relative all’insussistenza di un rapporto obbligatorio fra le parti siano state rese non già dall’amministratore della contribuente, bensì da quello della Aegis, giacchè la Aegis, nella prospettazione del ricorso, non sarebbe un soggetto alla vicenda, ma la controparte delle pattuizioni dalle quali sarebbero scaturite le corresponsioni di danaro;

– neanche decisiva è la contestazione della rilevanza probatoria dei contratti reperiti nel corso della verifica svolta presso la Aegis, ai quali, peraltro, v’è cenno soltanto nella narrativa della sentenza impugnata. Ciò perchè la contribuente vi contrappone soltanto il riferimento generico a) alla prassi invalsa nel settore commerciale, b) ad accordi verbali, in relazione ai quali ammette l’insussistenza di “apposita documentazione” ed a riprova dell’esistenza dei quali adduce dichiarazioni rese dal direttore amministrativo della Cairo, che, peraltro, si riferiscono, secondo lo stralcio riportato in ricorso, ancora alla “prassi di mercato”, ribadendo che la percentuale è ragguagliata agli incrementi del fatturato complessivo, c) ad uno studio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, d’impronta generale e non già relativa alle relazioni Aegis-Cairo;

– ininfluenti sono le considerazioni svolte dall’Agenzia nel corso delle fasi di merito, valorizzate in ricorso come ammissioni, relative alla riconducibilità dei diritti di negoziazione (c.d. premi impegnativa) a percentuali di quanto fatturato, per le ragioni dinanzi indicate;

– irrilevante è la circostanza che le somme in questione siano state oggetto di regolari fatture. Se non ne esistono i presupposti, non è possibile esercitare il diritto di detrazione, per impossibilità giuridica del suo oggetto. Il principio di neutralità cui è informato il sistema dell’Iva – e che regola nel suo insieme il procedimento e non la singola operazione o il singolo segmento dell’iter produttivo e/o distributivo – implica che in termini reali l’onere fiscale grava esclusivamente sul consumatore e non sugli operatori economici che partecipano al procedimento produttivo o distributivo. Questi ultimi sono tutti esentati dall’onere reale dell’iva proprio grazie al sistema debito-detrazione, che deve essere correttamente osservato, sia perchè su di esso si basa tutta la costruzione dell’iva, sia perchè perchè assolve essenziali funzioni di controllo e di esazione (principio consolidato, per l’espressione del quale vedi, tra varie, Corte giust. 22 giugno 2016, causa C-267/15, Gemeente Woerden, punto 32 e, nella giurisprudenza interna, sempre tra varie, Cass. 15 maggio 2015, n. 9942). Di per sè irrilevante è la circostanza che sia stato applicato dalle parti un certo trattamento fiscale, in quanto il contribuente ha l’obbligo di corrispondere l’imposta prevista dalla legge e non quella scelta in base a considerazioni soggettive (vedi Cass. 5 settembre 2014, n. 18764). In particolare, i principi di neutralità fiscale, di proporzionalità e del legittimo affidamento devono essere interpretati nel senso che non ostano a che il destinatario di una fattura si veda negare il diritto a detrarre l’imposta sul valore aggiunto a monte a causa dell’assenza di un’operazione imponibile effettiva (Corte giust. 31 gennaio 2013, causa C-643/11, LVK-56 EOOD, e 31 gennaio 2013, causa C642/11, Stroy trans EOOD), al fine di eliminare alla radice il rischio di perdita di gettito fiscale.

3.1.- In definitiva, la detrazione non può che far riferimento all’imposta assolta perchè dovuta (per analoga soluzione in relazione a fattispecie similari a quella in esame, vedi Cass., ord. 25 luglio 2014, n. 17021 e 17024, secondo cui I pagamento di una somma, che non sia collegabile ad una controprestazione dovuta come scambio di un bene o di un servizio, non rileva ai fini iva; di conseguenza, l’eventuale assoggettamento dell’operazione all’imposta risulta illegittimo, con la conseguente indetraibilità, in capo al destinatario di essa, dell’imposta addebitata da chi tale pagamento abbia ricevuto).

4.- L’evidenza delle considerazioni che precedono, le quali involgono l’impalcatura stessa del sistema dell’iva, comportano l’infondatezza del settimo e dell’ottavo motivo di ricorso, da esaminare prima dei restanti, perchè logicamente prodromici, con i quali, rispettivamente ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 5 e 3, la società lamenta l’insufficienza della motivazione in ordine alla sussistenza di un errore incolpevole sulla sussistenza del presupposto impositivo dell’iva (settimo motivo) nonchè la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 1, L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, là dove il giudice d’appello non ha riconosciuto una condizione di obiettiva incertezza in ordine alla portata delle norme che determinano il campo di applicazione dell’iva (ottavo motivo). Non essendo configurabile prestazione di servizi imponibile per mancanza di un servizio individualizzabile, non è predicabile errore incolpevole; inoltre, non è prospettabile incertezza, in base alla giurisprudenza unionale dinanzi richiamata, che, come si è dinanzi segnalato, si è consolidata da epoca antecedente ai fatti di causa.

5.- Inammissibili sono poi il quarto, il quinto ed il sesto motivo, con i quali la società si duole, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, della nullità della sentenza impugnata, là dove il giudice d’appello non si è pronunciato:

– sulla censura secondo cui ogni qual volta è emessa fattura, non è ravvisabile indebito esercizio del diritto di detrazione (quarto motivo);

– sulla censura concernente l’omessa considerazione da parte dell’Ufficio della memoria istruttoria presentata dalla società nella fase procedimentale (quinto motivo);

– sulla censura inerente al vizio di motivazione dell’avviso di accertamento (sesto motivo).

Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass. 4 ottobre 2011, n. 20311; conf., tra varie, 11 settembre 2015, n. 17956).

5.1.- Il che è quanto accaduto nel caso in esame, in cui il profilo denunciato col quarto motivo si traduce in un’argomentazione della infondatezza della pretesa impositiva, peraltro conforme a diritto, giusta quanto osservato sub 3 e 3.1, e gli altri due coinvolgono aspetti preliminari, inequivocabilmente superati dalla decisione di fondatezza nel merito dell’avviso di accertamento.

6.- Il nono motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, col quale la contribuente lamenta la parziale illegittimità delle sanzioni irrogate, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 4 febbraio 1997, art. 7, comma 4, in quanto il giudice d’appello avrebbe dovuto irrogare sanzioni pari alla metà del minimo edittale, in considerazione delle eccezionali circostanze rappresentate dalla mancanza di danno per l’erario, è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Esso è senz’altro infondato, là dove adduce la mancanza di danno per l’erario: basti di contro osservare che l’esercizio di un diritto di detrazione insussistente si riverbera di per sè su un danno per l’erario e ciò anche se l’emittente della fattura è comunque tenuto a versare l’iva indipendentemente dall’effettiva esistenza dell’operazione imponibile: ha precisato al riguardo la Corte di giustizia che non osta ai principi di neutralità fiscale e di parità di trattamento la valutazione differente della necessità della effettiva sussistenza di una cessione di beni o di una prestazione di servizi per quanto riguarda l’emittente della fattura ed il destinatario di questa (Corte di giustizia 31 gennaio 2013, causa C-643/11, LVK-56 EOOD, punti 53-56; Corte giustizia 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Stroy trans EOOD, punto 44).

6.1.- Esso è poi inammissibile, in quanto ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro questa forbice, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, di modo che la Corte di cassazione non può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati (Cass. 17 aprile 2013, n. 9255; 8 febbraio 2016, n. 2406). Ed a maggior ragione il principio vale in relazione all’apprezzamento, tipicamente di merito (in termini, vedi Cass. 4 marzo 2011, n. 5209), in ordine alla ricorrenza delle eccezionali circostanze contemplate dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7, comma 4.

6.2.- In memoria, tuttavia, la società sollecita l’applicazione della disciplina più favorevole introdotta dal D.Lgs. n. 158 del 2015, con riguardo alla mitigazione della cornice edittale della sanzione per infedele dichiarazione dell’iva, alla rimodulazione della sanzione per indebita detrazione e alla modifica del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7, comma 4.

La disciplina si può applicare ai processi in corso, giacchè il termine posto dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 32, comma 1, secondo cui “le disposizioni di cui al Titolo II del presente decreto si applicano a decorrere dal 1 gennaio 2017” (decorrenza, questa, successivamente anticipata al 1 gennaio 2016 dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 133), non ostacola, anzi propizia l’applicabilità della regola stabilita dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3, secondo cui “se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di natura diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo”.

La fissazione del termine non stabilisce altro che la data di di entrata in vigore della novella, della quale prescrive la decorrenza; e tanto fa, allo scopo di differirla, giacchè, altrimenti, la novella avrebbe trovato applicazione in base alla regola generale stabilita dall’art. 73 Cost., comma 3, secondo cui “le leggi… entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso”: in mancanza dell’art. 32, comma 1, la nuova disciplina si sarebbe applicata a partire dal 22 ottobre 2015, ossia quindici giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta del D.Lgs. n. 158 del 2015, risalente al 7 ottobre 2015. Alla medesima finalità, ossia quella di modulazione del termine, risponde la L. n. 208 del 2015, art. 1, successivo comma 133.

Ed è l’entrata in vigore della novella, ovvero la sua concreta applicabilità, che consente l’applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3, il quale fissa una regola di diritto intertemporale e, appunto per questo, postula che sia entrata in vigore la disposizione successiva, che modifica o abroga quella precedente (sulla generale applicazione nella materia tributaria, in tema di sanzioni, della regola del favor rei per le peculiarità che caratterizzano la materia, vedi Corte cost. 20 luglio 2016, n. 193).

Il diritto intertemporale, in generale, designa il complesso delle norme e dei principi che regolano la successione delle leggi nel tempo e va a dirimere il relativo conflitto, mediante l’individuazione della norma concretamente applicabile alla fattispecie; la regola di diritto intertemporale stabilita dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3, in particolare, comporta che, qualora una norma sanzionatoria più favorevole faccia seguito ad una meno favorevole, si debba applicare quella più favorevole, anche se successiva al compimento del fatto. Il conflitto è appunto determinato dall’entrata in vigore della norma più favorevole contenuta nella novella oggetto del D.Lgs. n. 158 del 2015, per cui è proprio l’entrata in vigore di questa norma che fa scattare il presupposto di applicazione della regola di diritto intertemporale in questione.

6.3.- Sull’argomento, non può essere condiviso l’orientamento espresso in una pronuncia di questa Corte (Cass. 28 febbraio 2017, n. 5091), la quale ha automaticamente applicato la riduzione del minimo edittale disposta dal D.Lgs. n. 158 del 2015, in relazione, in quel caso, alla sanzione prevista dalla D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2.

Indubbiamente nel giudizio di cassazione sono proponibili le questioni riguardanti la violazione di legge sopravvenuta, in quanto il giudizio della Corte non è sull’operato del giudice, bensì sulla conformità all’ordinamento giuridico della decisione impugnata (Cass., sez.un., 27 ottobre 2016, n. 21691).

Questa Corte ha, peraltro, già avuto occasione di chiarire che le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 158 del 2015, non rendono la sanzione irrogata automaticamente illegale, perchè non operano in maniera generalizzata in favor rei. Si consideri, ad esempio, che il testo rinnovato del suddetto art. 7, comma 3, per effetto del D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 16, comma 1, lett. c), n. 1, prevede oggi non più che la sanzione può essere, bensì che la sanzione è aumentata fino alla metà nei confronti di chi, nei tre anni precedenti, sia incorso in altra violazione della stessa indole non definita ai sensi degli artt. 13, 16 e 17, o in dipendenza di adesione all’accertamento di mediazione e di conciliazione, salvo quanto previsto dal comma 4, sulla manifesta sproporzione tra l’entità del tributo cui si riferisce la violazione e la sanzione; inoltre, l’introduzione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 3, e art. 5, comma 4 bis, ha determinato l’appesantimento del trattamento sanzionatorio per le ipotesi ivi previste.

Si è quindi escluso che la mera deduzione, in sede di legittimità, dello ius superveniens, senza specifiche allegazioni riferite al caso concreto idonee ad influire sui parametri di commisurazione della sanzione entro la cornice edittale, imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata (Cass. 7 ottobre 2016, n. 20141; 3 febbraio 2017, n. 2880; 12 aprile 2017, n. 9505).

A differenza, tuttavia, del caso, esaminato di recente da questa Corte (con sentenza 14 aprile 2017, n. 9670), in cui ci si era limitati ad allegare che la sanzione più grave era stata commisurata nel minimo fissato all’epoca dell’irrogazione, senza indicare gli elementi considerati dall’Amministrazione, nell’ipotesi in esame la contribuente in memoria ha richiamato le pagine dell’avviso di accertamento concernenti l’irrogazione delle sanzioni;

e si legge a pagina 6 dell’avviso, allegato al ricorso per cassazione, che “ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7, per ognuna delle violazioni accertate vengono assunte le misure minime previste”.

Occorre quindi che il giudice del merito rinnovi la propria valutazione, al fine di verificare se il nuovo valore del minimo previsto per la sanzione conseguente all’infedele dichiarazione dell’iva sia adeguato alla specifica fattispecie, in considerazione degli elementi soggettivi ed oggettivi rilevanti e se risulti favorevolmente modificato il complessivo trattamento sanzionatorio.

Per quest’aspetto va cassata la sentenza, con rinvio per tale profilo, nonchè per la regolazione delle spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione.

PQM

 

la Corte:

rigetta i primi otto motivi di ricorso e, pronunciando sul nono, cassa la sentenza impugnata nei sensi di cui in motivazione e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 7 marzo 2017 ed il 19 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2017

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