Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14401 del 25/05/2021

Cassazione civile sez. III, 25/05/2021, (ud. 23/09/2020, dep. 25/05/2021), n.14401

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28857/2019 proposto da:

S.A., elettivamente domiciliato in Perugia, via Campo di Marte

6D, presso lo studio dell’avv. ANNA LOMBARDI BAIARDINI, che lo

rappresenta e difende per procura speciale in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO

PROTEZIONE INTERNAZIONALE FIRENZE SEZIONE PERUGINA;

– resistente –

avverso la sentenza n. 463/2019 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 26/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/09/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

S.A., cittadino della Guinea, propone ricorso per cassazione articolato in tre motivi ed illustrato da memoria nei confronti del Ministero dell’Interno, notificato il 24.9.2019, avverso la sentenza n. 463/2019 della Corte d’Appello di Perugia, pubblicata in data 26.7.2019, con la quale la corte d’appello gli ha negato lo status di rifugiato e ha ritenuto non sussistere il suo diritto nè alla protezione sussidiaria nè alla protezione umanitaria.

Questa la vicenda personale narrata dal ricorrente:

dichiarava di aver intrattenuto, nel suo paese di origine, una relazione con una ragazza di diversa fede religiosa, circostanza vista con sfavore da entrambe le famiglie, in particolare da quella della fidanzata, che la ragazza era rimasta incinta, che il padre della ragazza si era presentato presso la sua famiglia e le due famiglie avevano litigato. Per questo motivo il ricorrente dichiarava di essere fuggito, pur riconoscendo di non aver subito minacce dirette e di non essere stato fatto oggetto di violenze da parte dei membri della famiglia della ragazza.

Il giudice di merito riteneva non credibile la versione dei fatti fornita dal ricorrente per le sue intime contraddizioni; escludeva, sul presupposto della non credibilità soggettiva, la possibilità di una persecuzione o discriminazione per ragioni politiche o religiose, o altri aspetti previsti dalla Convenzione di Ginevra, e reputava la situazione del Paese di origine ormai tranquillizzata (sulla base di COI risalenti al 2015-2017) e tale da non consentire il riconoscimento del beneficio della protezione sussidiaria, non sussistendo ipotesi di violenza indiscriminata tale da mettere a rischio la popolazione; negava il riconoscimento della protezione umanitaria, non essendo documentate condizioni di particolare vulnerabilità specifica del ricorrente che potessero portare ad un esito favorevole del giudizio di comparazione.

Il Ministero ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si dichiara disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Diritto

RITENUTO

che:

Il ricorrente evidenzia vari fatti dei quali la sentenza non avrebbe tenuto adeguato conto: la sua fede musulmana, la fede cristiana della fidanzata, la vigenza della Sharia in Guinea, l’avvenuta denuncia dell’accaduto all’Imam, il lungo percorso di fuga per sottrarsi alle riferite minacce attraverso Mali, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Niger, Libia, la traversata sul barcone per giungere in Italia. Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente in particolare denuncia la violazione dei criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, ovvero che non sia stata rispettata la procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri obiettivi a quanto narrato dal richiedente, ma secondo la griglia predeterminata di criteri fornita appunto dall’art. 3, comma 5 (cita Cass. n. 8282 del 2013 ed altre).

Il ricorrente evidenzia che si tratta di criteri tutti incentrati sulla buona fede soggettiva.

Il motivo è infondato.

Nella sentenza impugnata non si riscontra alcuna violazione del rispetto della considerazione dei criteri imposti dall’art. 3, comma 5. Piuttosto, è proprio alla buona fede soggettiva del ricorrente, al di là e a prescindere della mancanza di riscontri obiettivi, che non ha creduto la corte d’appello: non ha ritenuto credibile che il ricorrente abbia abbandonato la ragazza, incinta, senza nemmeno poi cercare di contattarla, che non abbia neppure tentato di risolvere la situazione parlando con la famiglia, che non abbia provato a cercare alcuna protezione da parte delle autorità. Ritenendo poco credibile la sua versione dei fatti, da un lato ha escluso che corresse concretamente il rischio di essere sottoposto a persecuzione per motivi religiosi, dall’altro ha ritenuto che al più si trattasse di una vicenda familiare priva di rilevanza esterna (e quindi ha escluso, legittimamente, la configurabilità delle ipotesi di cui all’art. 14, lett. a e b).

Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, sempre in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, del quale denuncia la violazione degli artt. 2,3,4,56 e 14 nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008 e sostiene che l’organo giudicante non sia neppure entrato nel merito della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), con l’affermazione, errata in diritto, per cui il giudizio di non credibilità personale incide anche sul riconoscimento della protezione sussidiaria.

Il motivo, connesso al precedente, è anch’esso infondato.

Ciò che lamenta il ricorrente è in questo caso la violazione dell’art. 14, lett. b), (che tutela con la protezione sussidiaria chi è esposto al rischio di un danno grave consistente nella tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine).

Una volta che la corte territoriale ha ritenuto legittimamente (come precisato in rif. al motivo 1) non credibile il suo racconto, era superfluo che verificasse l’entità del rischio della sottoposizione alla sharia per situazioni consimili nel suo paese di provenienza, perchè non ha ritenuto provato che il ricorrente sia fuggito per sottrarsi ad un rischio individualizzato ed effettivo, integrato nel caso di specie nell’assunto del ricorrente da una persecuzione di carattere religioso, conformemente a quanto recentemente affermato da questa Corte (Cass. n. 11936 del 2020 “In materia di riconoscimento della protezione sussidiaria allo straniero, al fine di ritenere integrate le due fattispecie normative di cui all’art. 14, lett. a) (condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte) e lett. b) (tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante), del D.Lgs. n. 251 del 2007, è necessario, diversamente da quanto disposto del medesimo art. 14, lett. c), che i rischi ai quali sarebbe esposto il richiedente in caso di rientro in patria siano “effettivi” (come richiesto dall’art. 2, comma 1, lett. g), dello stesso decreto) e, cioè, “individuali” o almeno “individualizzati” e non già configurabili in via meramente ipotetica o di supposizione”). La necessità della esposizione ad un rischio individualizzato, per la configurabilità delle ipotesi di cui all’art. 14, lett. a) e b) è confermata, tra le altre, anche da Cass. n. 13756 del 2020.

Con il terzo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione ancora una volta del D.Lgs. n. 251 del 2007, n. 25, del 2008, e anche del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, e censura in particolare la sentenza impugnata ove ha rigettato la domanda volta alla concessione della protezione umanitaria per mancanza della prova di una sua condizione di vulnerabilità soggettiva. Denuncia anche, a questo proposito, il mancato rispetto del dovere di cooperazione istruttoria gravante sul giudicante.

Segnala che la corte di merito non avrebbe affatto tenuto in considerazione il fatto che egli sia transitato attraverso la Libia, e le sofferenze connesse, di aver affrontato il viaggio ancora minorenne, e produce una serie di documenti rilevanti ai fini della prova di un seri percorso di integrazione che non sarebbero stati presi adeguatamente in considerazione, nè tanto meno sarebbero stati considerati i patimenti e le vessazioni sofferti durante l’esperienza in Libia, e l’arresto ingiustificato, pur evidenziati.

Il motivo è fondato e va accolto: dalla lettura della sentenza impugnata emerge con chiarezza la mancata attivazione, da parte del giudice, del proprio potere-dovere di cooperazione istruttoria: la corte d’appello avrebbe dovuto effettuare i suoi accertamenti officiosi sulle condizioni di vita nel paese di provenienza, anche qualora, come nella specie, non avesse ritenuto convincenti le motivazioni personali alla fuga addotte dal ricorrente, ai fini della valutazione comparativa sottesa alla domanda di rilascio della protezione umanitaria. Invece, non procede affatto alla comparazione, ritenendo a pag. 4 che, laddove il richiedente non sia credibile sulla sua storia personale e sulle motivazioni che lo hanno spinto a lasciare il paese, non si possa dare alcun ingresso alle circostanze relative al c.d “rischio paese”. Quindi, il dovere di cooperazione istruttoria, per ricostruire la condizione di vulnerabilità del richiedente la protezione umanitaria ed in particolare se nel paese di provenienza o nel paese in cui abbia dovuto necessariamente transitare e dovrebbe ritransitare in caso di rimpatrio sia stato sottoposto ad una deprivazione dei diritti umani sotto la soglia incomprimibile della dignità umana, non è stato attivato, sulla base del presupposto – errato in diritto, per cui la non credibilità della vicenda personale narrata dal richiedente ai fini dell’ottenimento delle protezioni maggiori non consentirebbe di prendere in considerazione la sua vicenda umana, sfrondata da quei particolari che si ritengono non credibili e tuttavia idonea a rilevare, nel suo narrato di privazione dei diritti fondamentali, quanto meno sotto il profilo della protezione umanitaria.

In accoglimento del terzo motivo la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte di Appello di Perugia in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

PQM

Rigetta i primi due motivi, accoglie il terzo, cassa e rinvia anche le spese alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2021

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