Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14390 del 14/07/2016


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Cassazione civile sez. lav., 14/07/2016, (ud. 17/05/2016, dep. 14/07/2016), n.14390

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 950/2015 proposto da:

CONSORZIO PER L’AREA DI SVILUPPO INDUSTRIALE ASI DI AGRIGENTO IN

LIQUIDAZIONE GESTIONE SEPARATA IRSAP, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO

LUIGI ANTONELLI, 10, presso lo studio dell’avvocato ANDREA

COSTANZO, rappresentato e difeso dall’avvocato MASSIMILIANO

MARINELLI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.R.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1881/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 14/10/2014, R.G. N. 754/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/05/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato MASSIMILIANO MARINELLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del 4 motivo, per

il rigetto del l, 2 e 3 motivo, assorbito il 5 motivo del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Palermo, confermando la sentenza del Tribunale di Agrigento, accoglieva l’impugnazione di G.R. del licenziamento intimatogli in data 21 agosto 2012 dal Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale (ASI) di Agrigento in liquidazione – Gestione separata dell’IRSAP con conseguente condanna del Consorzio alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento a quello della reintegrazione.

A base del decisum, e per quello che rileva in questa sede, la Corte del merito rilevato, preliminarmente, che il deposito del ricorso ex art. 700 c.p.c., valeva ai fini del rispetto del termine di decadenza di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, così come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 38, riteneva viziato il procedimento disciplinare perchè non era stata rispettata la collegialità dell’istituito Ufficio per i Procedimenti disciplinari e la determinazione conclusiva non era stata assunta dal Direttore generale; ma dal Commissario straordinario sicchè, trattandosi di violazione di norma imperativa, la conseguenza non poteva che essere la reintegrazione nel posto di lavoro trovando applicazione il regime reintegratorio precedente alla riformulazione, ex L. n. 92 del 2012, cit., della L. n. 300 del 1970, art. 18. Nè secondo la predetta Corte, sussistevano dubbi di legittimità costituzionale rientrando nella discrezionalità del legislatore la previsione di una disciplina differenziata tra i rapporti di lavoro alle dipendenze del datore privato e di quello pubblico.

Avverso questa sentenza l’ASI ricorre in cassazione in ragione di cinque censure.

La parte intimata non svolge attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo parte ricorrente, deducendo violazione della L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, nel testo modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 38, e della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48, sostiene l’erroneità della sentenza della Corte territoriale in punto di ritenuta osservanza del termine di decadenza con la proposizione del ricorso ex art. 700 c.p.c..

Con la seconda censura parte ricorrente, denunciando violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4, assume che la Corte del merito erroneamente interpretando la richiamata disposizione ha ritenuto viziato il procedimento disciplinare per il mancato rispetto della collegialità prevista dell’istituito Ufficio per i Procedimenti disciplinari.

Con la terza critica parte ricorrente, assumendo violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, e art. 55 bis, comma 4, sostiene che la Corte territoriale, nel ritenere altresì viziato il procedimento disciplinare sul rilievo che la determinazione conclusiva non era stata assunta dal Direttore generale1 ma dal Commissario straordinario, non ha tenuto conto che anche il dirigente generale era stato coinvolto nei fatti addebitati al G., sicchè l’unico organo di vertice per la determinazione conclusiva non poteva che essere il Commissario straordinario.

Con il quarto motivo parte ricorrente, allegando violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo L. n. 92 del 2012, ex art. 1, e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, critica la sentenza impugnata per non aver applicato la nuova disciplina della tutela reale introdotta con la citata L. n. 92 del 2012, con la conseguenza che, se correttamente applicato il nuovo regime, non poteva farsi luogo alla tutela reintegratoria ma solo a quella indennitaria trattandosi di vizi formali.

Con l’ultimo motivo si solleva questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 41 e 97 Cost., della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, nel testo introdotto dall’art. 1 della L. n. 92 del 2012, ove interpretato nel senso dell’inapplicabilità al rapporto di pubblico impiego.

Il primo motivo del ricorso è fondato.

La questione che viene sottoposta all’esame di questa Corte riguarda l’interpretazione del denunciato L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, nel testo modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 38, ed in particolare la risposta al quesito se, ai fini della conservazione dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, nelle ipotesi regolate dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, può valere anche il ricorso ex art. 700 c.p.c., ovvero è necessario comunque e, nel termine ivi previsto, che sia proposto ricorso secondo il c.d. rito Fornero (L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48 cit.).

Dispone la richiamata L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, nel testo modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 38, che “L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.

La L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 47 e 48, rispettivamente stabiliscono: “47. Le disposizioni dei commi da 48 a 68, si applicano alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.

48. La domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento di cui al comma 47, si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il ricorso deve avere i requisiti di cui all’articolo 125 del codice di procedura civile. Con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47, del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi. A seguito della presentazione del ricorso il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti. L’udienza deve essere fissata non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso. Il giudice assegna un termine per la notifica del ricorso e del decreto non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza, nonchè un termine, non inferiore a cinque giorni prima della stessa udienza, per la costituzione del resistente. La notificazione è a cura del ricorrente, anche a mezzo di posta elettronica certificata.

Qualora dalle parti siano prodotti documenti, essi devono essere depositati presso la cancelleria in duplice copia”.

Nel caso in cui si verta come nella specie, nelle ipotesi di licenziamento che ricade nell’ambito di applicazione di cui allaL. n. 300 del 1970, art. 18, i richiamati commi (37, 47 e 48) della citata L. n. 92 del 2012, art. 1, devono essere necessariamente interpretati in maniera coordinata poichè la regola della conservazione dell’efficacia della impugnazione stragiudiziale del licenziamento stabilita dalla novellata L. n. 604 del 1966, art. 6, trova applicazione anche con riferimento alla c.d. tutela reale per la quale è sancito che l’impugnativa giudiziale deve essere proposta secondo il c.d. rito Fornero regolato, appunto, dai commi 48 e seguenti della menzionata L. n. 92 del 2012, art. 1.

Si tratta, come sottolineato dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. 18 settembre 2014 n. 19674), di un nuovo speciale rito finalizzato all’accelerazione dei tempi del processo, che si caratterizza per l’articolazione del giudizio di primo grado in due fasi: una fase a cognizione semplificata (o sommaria) e l’altra, definita di opposizione, a cognizione piena nello stesso grado. Mentre la prima fase è caratterizzata, ancorchè il ricorso debba avere i requisiti di cui all’art. 125 c.p.c., dalla mancanza di formalità, poichè rispetto al rito ordinario delle controversie di lavoro non è previsto il rigido meccanismo delle decadenze e delle preclusioni di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c., e l’istruttoria, semplificata, è limitata agli “atti di istruzione indispensabili”, la seconda fase è invece introdotta con un atto di opposizione proposto con ricorso.

Tale opposizione, come precisato dalle Sezioni Unite nella citata pronuncia, “non è una revisio prioris istantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado, ricondotto in linea di massima al modello ordinario, con cognizione piena a mezzo di tutti gli “atti di istruzione ammissibili e rilevanti”. In sostanza “dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata – mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata e ad assegnargli un vantaggio processuale (da parte ricorrente a parte eventualmente opposta), ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei soli “atti di istruzione indispensabili” – il procedimento si riespande, nella fase dell’opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena con accesso per le parti a tutti gli “atti di istruzione ammissibili e rilevanti”. L’esigenza di “evitare che la durata del processo ordinario si risolva in un pregiudizio per la parte che intende far valere le proprie ragioni” (Corte cost. 28 gennaio 2010 n. 26) va coniugata sempre con l’effettività e pienezza della tutela. La diversità e peculiarità della materia giustificano – un binario accelerato nei limiti in cui come ha avvertito la Corte costituzionale con riferimento a moduli processuali speciali finalizzati ad accelerare la definizione delle controversie (Corte cost. 10 novembre 1999 n. 42) – “non sia pregiudicato lo scopo e la funzione del processo e non sia compromessa l’effettività della tutela giurisdizionale”. (…)”. Ne consegue che la prima fase del giudizio di primo grado è semplificata e sommaria e la sommarietà riguarda le caratteristiche dell’istruttoria, e non una sommarietà della cognizione del giudice, nè l’instabilità del provvedimento finale. L’idoneità al giudicato è espressamente prevista per la sentenza resa all’esito dell’opposizione ma, come rileva la Corte nella citata pronuncia, non può essere esclusa per l’ordinanza conclusiva della fase sommaria, irrevocabile fino alla conclusione di quella di opposizione (Cfr. in termini Cass. 20 novembre 2014 n. 24790).

Stante, quanto al contenuto del ricorso introduttivo della prima fase del rito in parola, il richiamo all’art. 125 c.p.c., consegue che detto atto introduttivo deve necessariamente indicare la causa petendi ed il petitum.

Tale prescrizione non è,tuttavia,prevista dall’art. 669 bis c.p.c., relativamente al ricorso con il quale si attiva la richiesta del provvedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c..

Questa sostanziale diversità induce a ritenere che il legislatore del 2012, nell’ipotesi in esame, ha inteso riferirsi, ai fini della conservazione dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, esclusivamente al ricorso introduttivo dello speciale rito regolato della L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 48 e seguenti, con esclusione, quindi, del ricorso ex art. 700 c.p.c..

Nè può sottacersi la eloquenza della formula della L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, là dove equipara – in termini di idoneità ad escludere la decadenza – al ricorso depositato presso la cancelleria del giudice del lavoro la comunicazione del tentativo di conciliazione o di arbitrato e poi, a chiusura, là dove reitera la previsione dell’atto dovuto a pena di decadenza, indicandolo nel deposito del ricorso al giudice del lavoro entro sessanta giorni dalla chiusura infruttuosa di quel tentativo, in tal modo rendendo palese che quell’atto ultimo da depositare, che non può essere che il ricorso ordinario, è quello stesso atto previsto ab initio come modalità alternativa per escludere la decadenza.

Si deve pertanto affermare il seguente principio di diritto: la L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, nel testo modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 38, deve essere interpretato, nel caso d’impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, e successive modificazioni, nel senso che, ai fini della conservazione dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, è necessario che, nel termine previsto, venga proposto ricorso secondo il rito di cui alla predetta L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48 e ss..

Nel caso in esame la Corte del merito, nel ritenere che il deposito del ricorso ex art. 700 c.p.c., valeva ai fini del rispetto del termine di decadenza di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, così come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 38, non si è attenuta al detto principio sicchè non è corretta in diritto.

Conseguentemente la sentenza impugnata, in accoglimento del motivo in esame, nel quale rimangono assorbiti gli altri, va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, decidendosi nel merito va dichiarata l’inefficacia delle impugnativa del licenziamento.

Le spese dell’intero processo vanno compensate in considerazione della assoluta novità della questione trattata.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito dichiara inefficace l’impugnativa del licenziamento e compensa le spese dell’intero processo.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2016

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