Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14388 del 08/06/2017

Cassazione civile, sez. VI, 08/06/2017, (ud. 20/04/2017, dep.08/06/2017),  n. 14338

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13948/2016 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

GIUSEPPE SPAGNUOLO;

– ricorrente –

contro

CA.GI., elettivamente domiciliata in ROMA, CIRCONVALLAZIONE

TRIONFALE 34, presso lo studio dell’avvocato ETTORE TRAVARELLI,

rappresentata e difesa dall’avvocato BERNARDINO ZINNO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 620/2016 del TRIBUNALE di SALERNO, depositata

il 11/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 20/04/2017 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che, con ricorso affidato a tre motivi, C.G. ha impugnato la sentenza del Tribunale di Salerno dell’11 febbraio 2016, che aveva dichiarato inammissibile l’appello dal medesimo C. proposto avverso l’ordinanza del Giudice di pace di Salerno che, nel dichiarare la propria incompetenza territoriale su accordo delle parti, lo aveva condannato al pagamento delle spese processuali;

che il giudice di appello riteneva inesistente, e non sanabile neppure con la costituzione della appellata Ca.Gi., la notificazione dell’impugnazione, “essendo l’atto (quello originale e la copia) privo della firma digitale” e non essendo, peraltro, accoglibile l’istanza di rimessione in termini in carenza prova sulla “non imputabilità della mancanza di firma”;

che resiste con controricorso Ca.Gi.;

che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti costituite, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale il ricorrente ha depositato memoria;

che il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata.

Considerato che:

a) con il primo mezzo, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 125 e 342 cod. proc. civ., assumendosi che l’atto di appello era stato notificato via PEC, dall’indirizzo del difensore dell’appellante, alla parte appellata e da questa ricevuto, sicchè la copia notificata era sicuramente riconducibile al predetto difensore;

b) con il secondo mezzo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 156, 121 e 348 cod. proc. civ., per aver la notificazione dell’appello raggiunto il suo scopo con la costituzione dell’appellato, il quale non aveva neppure evidenziato quale pregiudizio al diritto di difesa avesse subito; inoltre, sarebbe erroneo il diniego di rimessione in termini dell’appellante in ragione della scadenza del termine breve di impugnazione, non essendo stata mai notificata l’ordinanza del Giudice di pace impugnata;

c) con il terzo mezzo si prospetta “vizio di omessa motivazione circa fatto decisivo”, non avendo il Tribunale “fornito alcuna motivazione per ritenere del tutto inesistente l’atto introduttivo”, che invece era “completo e regolare con l’omessa indicazione del formato elettronico, che può essere integrato”, dovendo quindi il giudice del gravame concedere la rimessione in termini per la notificazione, non essendo onere dell’appellante “giustificare un vizio della procedura informatica nella trasformazione del documento elaborato e trasmesso” ed avendo la stessa parte espressamente dichiarato la conformità della copia all’originale;

che i motivi – che possono essere congiuntamente scrutinati – sono inammissibili, mancando essi di aggredire l’effettiva ratio decidendi che sorregge la sentenza impugnata (così da rendere inconsistente anche la richiesta di rimessione della questione in pubblica udienza);

che il giudice di appello, infatti, ha ritenuto inesistente la notificazione dell’atto di gravame non solo perchè la copia di esso trasmessa via PEC dal difensore dell’appellante era carente della firma digitale, ma, soprattutto, in quanto l’originale del medesimo atto ne era privo;

che, invero, come già posto in rilievo anche da Cass. n. 22781/2015 (con attenzione particolare alla firma digitale della sentenza, ma con ricognizione normativa di più ampia portata sul documento digitale), la firma digitale è pienamente equiparata, quanto agli effetti, alla sottoscrizione autografa in forza dei principi contenuti nel D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e successive modificazioni (cfr., segnatamente, art. 1, comma 1, lett. p) e s), art. 20, comma 3 e art. 21) applicabili anche al processo civile in forza di quanto disposto dal D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24 – e delle specifiche disposizioni, di rango secondario (ma in attuazione del citato D.L. n. 193 del 2009), di cui al combinato disposto del D.M. n. 44 del 2011, artt. 11 e 34 e (in base al predetto art. 34) delle specifiche tecniche dettate dall’art. 12 del provvedimento del Ministero della giustizia del 16 aprile 2014;

che, pertanto, essendo la firma digitale – al pari della sottoscrizione dell’atto analogico (cd. cartaceo) ai sensi dell’art. 125 cod. proc. civ. (cfr. tra le altre Cass. n. 1275/2011) – requisito di validità dell’atto introduttivo del giudizio (anche di impugnazione), in quanto essa attiene alla formazione dello stesso e alla sua riconducibilità a chi lo ha formato (nella specie, necessariamente al difensore munito di procura), l’inammissibilità dell’appello derivava già da siffatta carenza, non sanabile (e in tal senso, essendo corretto in diritto il dispositivo della sentenza, ne va parzialmente corretta la motivazione ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ.);

che il ricorrente incentra le proprie doglianze (che ribadisce con la memoria successivamente depositata) unicamente sul profilo della notificazione dell’atto di appello, ossia sulla copia notificata di tale atto, cui si riferiscono anche le argomentazioni sulla trasmissione via PEC, la quale, seppure attesti la provenienza dell’atto dal mittente, non si correla affatto, nè pertanto può surrogare, la sottoscrizione, digitale, dell’originale dell’atto;

che, quindi, risulta inconferente il precedente di questa Corte richiamato nell’istanza di fissazione dell’udienza e nella memoria – Cass. n. 26102/2016 – giacchè attiene non già alla sottoscrizione dell’originale del ricorso per cassazione, ma alla notificazione della copia informatica dell’atto originariamente formato su supporto analogico (copia informatica di cui, per l’appunto, si ritiene non necessaria la sottoscrizione con firma digitale, essendo sufficiente l’attestazione di conformità all’originale);

che, del pari, risultano inconferenti i precedenti richiamati in ricorso – cfr. p. 3: Cass. n. 4548/2011 e altri – che enunciano tutti il principio per cui la mancanza della sottoscrizione del procuratore abilitato a rappresentare la parte in giudizio nella copia notificata della citazione non incide sulla validità di questa, ove, però, detta sottoscrizione sussista nell’originale e la copia notificata fornisca alla controparte sufficienti elementi per acquisire la certezza della sua rituale provenienza da quel procuratore;

che, in definitiva, è assente ogni censura avverso l’accertamento (assorbente) del giudice del merito sulla assenza di firma digitale dell’originale dello stesso anzidetto atto, nè tantomeno si assume in ricorso, in modo diretto e inequivoco, che esso era firmato digitalmente, nè, in ogni caso, si provvede, in funzione dell’esistenza di siffatta firma, alla specifica localizzazione processuale del documento, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6;

che il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo in conformità ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014.

PQM

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 600,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6-3 Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 20 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2017

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