Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14370 del 25/05/2021

Cassazione civile sez. I, 25/05/2021, (ud. 04/03/2021, dep. 25/05/2021), n.14370

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13673/2016 proposto da:

Aziende Industriali Municipali Vicenza AIM s.p.a., a socio unico, in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in Roma P.za B. Cairoli 6 presso lo studio dell’avvocato

Piero Guido Alpa che lo rappresenta e difende unitamente agli

avvocati Giulia Ferrarese e Antonio Francesco Rosa, in forza di

procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Integra s.r.l., Ingegneria Tecnologia Gestione Risorse Ambientali,

già Ecoveneta s.p.a.;

– intimato –

e contro

Integra s.r.l. Ingegneria Tecnologia Gestione Risorse Ambientali,

già Ecoveneta s.p.a. in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma Piazza Venezia n. 11,

presso lo studio dell’avvocato Lamberto Lambertini che la

rappresenta e difende, in forza di procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2722/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 30/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/03/2021 dal Consigliere UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato il 30/12/2010 la s.p.a. Aziende Industriali Municipali di Vicenza (di seguito, semplicemente, AIM) ha azionato la clausola compromissoria contenuta nel contratto del 30/12/2005 intercorso con Ecoveneta s.p.a. (poi divenuta Integra s.p.a.) con il quale Ecoveneta le aveva ceduto le proprie quote di partecipazione nella società AIMECO.

Il 26/5/2003 le due società Ecoveneta e AIM si erano impegnate a costituire una nuova società, ossia una Newco, poi denominata AIMECO, nella quale AIM avrebbe detenuto fino al 50% del capitale sociale e le restanti quote sarebbero spettate a Ecoveneta; la nuova società era destinata a sostituirsi a Ecoveneta nelle obbligazioni derivanti dalla sottoscrizione di una lettera di intenti che concedeva una opzione nell’acquisto di un ramo di azienda della società Servizi Costieri Marghera e nell’affitto dello stesso ramo aziendale; AIM e Ecoveneta si erano inoltre impegnate a dotare la società delle necessarie risorse e strutture.

In data 27/5/2003 Servizi Costieri di Marghera ed Ecoveneta avevano sottoscritto il contratto di affitto di ramo di azienda, relativo all’attività di trattamento e smaltimento di rifiuti pericolosi e non pericolosi, speciali e tossico-nocivi, con opzione di acquisto da esercitarsi entro il 31/12/2005; dal 1/6/2003 Ecoveneta aveva assunto in gestione la piattaforma di (OMISSIS), anche in nome e per conto di AIM; il 25/11/2003 era stata costituita AIMECO, partecipata al 50% da Ecoveneta al 45 % da AIM e al 5% da Tre V Ambiente.

L’8/3/2004 la piattaforma di (OMISSIS) era stata sequestrata dalla Procura della Repubblica di Venezia; il 9/3/2004 AIMECO era subentrata nell’affitto a Ecoveneta; il 29/3/2004 l’Amministratore delegato di AIMECO aveva ricevuto mandato di intraprendere ogni iniziativa diretta a sospendere l’efficacia del trasferimento del contratto di affitto di azienda; il 29/9/2004 era stata disposta la sospensione dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività e con parziale e progressivo dissequestro, subordinato allo smaltimento dei rifiuti, a partire dal dicembre 2004.

Il 2/8/2004 Servizi Costiere ed Ecoveneta avevano pattuito il versamento da parte di Ecoveneta di Euro 165.000,00 a titolo di acconto sul prezzo di acquisto, con sospensione dei canoni di affitto fino a tutto il 31/12/2004 o fino alla data della revoca del sequestro, se anteriore, con impegno per entrambe di non agire per la risoluzione del contratto sino a tale data.

Il 30/12/2005 era stata sottoscritta una convenzione fra Ecoveneta e AIM con la quale la prima aveva ceduto alla seconda le proprie quote in AIMECO al costo di 1 Euro l’una, con versamento di Euro 100.000,00 a saldo e stralcio per ogni credito di Ecoveneta, accollo a carico di AIMECO dei costi di smaltimento dei rifiuti sequestrati e manleva da ogni pretesa risarcitoria nei confronti degli amministratori di AIMECO designati da Ecoveneta e previsione di una clausola compromissoria.

Il 7/2/2008 il Tribunale di Venezia aveva accertato la responsabilità di Ecoveneta per illecito smaltimento e traffico di rifiuti con condanna al risarcimento del danno ambientale e dei danni subiti dalle parti civili.

Il 4/8/2009 S.G., amministratore AIMECO di nomina Ecoveneta, aveva dichiarato di volersi avvalere della manleva di AIM.

Con la domanda di arbitrato AIM aveva chiesto che fosse dichiarata la nullità delle clausole del contratto del 30/12/2005 che prevedevano la manleva da parte sua per le pretese avanzate nei confronti degli amministratori di AIMECO e l’accollo a esclusivo carico di AIMECO dei costi dei rifiuti sottoposti a sequestro penale l’8/3/2004; in subordine aveva chiesto l’accertamento della responsabilità di Ecoveneta per dolo incidente ex art. 1440 c.c., anche con riferimento alla clausola che prevedeva la limitazione ai due anni del trasferimento della quota per eventuali sopravvenienze passive causate da condotta dolosa o colposa degli amministratori designati da Ecoveneta con condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni; in ulteriore subordine, aveva chiesto la condanna di Ecoveneta al risarcimento dei danni per violazione della buona fede.

Ecoveneta si era costituita nel giudizio arbitrale, eccependo il difetto di interesse ad agire e chiedendo il rigetto delle domande avversarie.

Con lodo del 26/11/2012 il Collegio arbitrale, ritenuti interesse e legittimazione attiva di AIM e legittimazione passiva di Ecoveneta, aveva rigettato le domande di nullità delle clausole n. 4 e 5 del contratto del 30/12/2005, nonchè quelle di accertamento della responsabilità di Ecoveneta per dolo incidente e per violazione del dovere precontrattuale di buona fede con riferimento alle clausole di cui all’art. 5 (relativo all’accollo del costo di smaltimento dei rifiuti) e all’art. 6, comma 5 (relativo alle sopravvenienze passive emerse nel biennio dal trasferimento della quota) del contratto.

Il Collegio aveva invece accertato la responsabilità di Ecoveneta con riferimento alla clausola di cui all’art. 4, comma 5 (relativo alla manleva prestata in favore degli amministratori AIMECO designati da Ecoveneta) quantificando anche il danno risarcibile, di cui era stata chiesta la liquidazione in separato giudizio, seppur temperando significativamente l’entità del risarcimento in ragione del concorso colposo del danneggiato nella causazione dei danni.

2. Il lodo è stato impugnato dinanzi alla Corte di appello di Venezia da AIM in via principale e da Integra s.r.l. – Ingegneria Tecnologia Gestione Risorse Ambientali (di seguito, Integra) nella quale si era fusa Ecoveneta il 14/6/2013.

Con sentenza del 30/11/2015 la Corte lagunare, dopo aver preliminarmente ritenuto che la disciplina transitoria di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, precludesse l’impugnazione del lodo per violazione di regole di diritto, in difetto di espressa previsione contrattuale, dovendosi prestar riferimento alla data di proposizione della domanda di arbitrato e non alla data della convenzione di arbitrato, ha rigettato l’impugnazione principale e quella incidentale, a spese compensate.

3. Avverso la predetta sentenza, non notificata, con atto notificato il 27/5/2016 ha proposto ricorso per cassazione AIM svolgendo quattro motivi.

Con atto notificato il 5/7/2016 ha proposto controricorso Integra, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione.

Entrambe le parti hanno illustrato con memoria le rispettive difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 829 c.p.c., comma 3.

1.1. La ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto che tale disposizione, introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 24, preclusiva dell’impugnazione per violazione di regole di diritto, salvo accordo tra le parti, si applicasse anche ai lodi resi in forza di clausole di arbitrato anteriori al 2/3/2006, per tale ragione considerando inammissibili il primo, il terzo e il quarto motivo di impugnazione del lodo.

1.2. La controricorrente dissente dalla tesi propugnata da AIM e sollecita invece questa Corte a un ripensamento dell’orientamento espresso dalla sentenza n. 9284 del 9/5/2016 delle Sezioni Unite, invocato dalla ricorrente.

1.3. La Corte ritiene che la censura in diritto posta a primo sostegno del motivo sia fondata.

Infatti del tutto correttamente, quanto alla possibilità di impugnazione per violazione delle regole di diritto, il ricorrente si riferisce al testo dell’art. 829, anteriore alla Novella del 2006, poichè la clausola compromissoria risaliva al 2005, senza che diversamente si potesse ritenere, come ha fatto la Corte veneziana, che il discrimine temporale dovesse essere individuato nella data di proposizione della domanda di arbitrato (20/12/2010, posteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006)

1.3.1. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, oramai consolidata dopo la pronuncia n. 9284 del 2016 delle Sezioni Unite, in tema di impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, l’art. 829 c.p.c., comma 3, come riformulato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all’art. 27 dello stesso decreto, a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore della novella (2 marzo 2006).

Tuttavia, per stabilire se sia ammissibile tale impugnazione, la legge, cui l’art. 829 c.p.c., comma 3, rinvia, deve essere identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato, sicchè, in caso di procedimento arbitrale attivato dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina – ma in forza di convenzione stipulata anteriormente – nel silenzio delle parti è applicabile l’art. 829 c.p.c., comma 2, nel testo previgente, che ammette l’impugnazione del lodo per violazione delle norme inerenti al merito, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile (Sez. 6 – 1, n. 14352 del 05/06/2018, Rv. 649147 01; Sez. 1, n. 17339 del 13/07/2017, Rv. 644972 – 01; Sez. U, n. 9284 del 09/05/2016, Rv. 639686 – 01; Sez. 1, n. 6148 del 19/04/2012, Rv. 622519 – 01; Sez. 1 3/6/2014, n. 12379, Rv. 631488; Sez. 1, 18/6/2014, n. 13898; Sez., 19/1/2015, n. 745, Sez. 1 19/1/2015, n. 748; Sez. 1 28/10/2015, n. 22007, nonchè per la diversa ipotesi dell’arbitrato societario Sez. U, n. 9285 del 09/05/2016, Rv. 639687 – 01).

1.3.2. Un’ampia esposizione delle ragioni che militano a sostegno della soluzione accolta poi dalle Sezioni Unite si rinviene nella citata sentenza n. 6148 del 20:L2, che, nel motivare a sostegno dell’interpretazione prevalsa, aveva indicato i rischi di collisione con i principi costituzionali dell’opposto orientamento.

In quella sede era stato affermato – con osservazioni condivise dal Collegio – che costituisce principio generale del nostro ordinamento, discendente dall’applicazione dell’art. 11 preleggi, che le condizioni di efficacia e gli effetti di un atto negoziale, che sia espressione di una valida manifestazione di volontà delle parti, sono disciplinati dalla legge in vigore al momento in cui esso è adottato e non possono essere modificati da una legge successiva; che l’irretroattività della legge, se pur non elevata, fuori della materia penale, a dignità costituzionale, rappresenta, del resto, una regola essenziale del sistema, cui, salvo un’effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini (Corte costituzionale n. 155/90); che in materia contrattuale, l’unica eccezione a tale principio è costituita dall’intervento di una nuova disposizione di legge che, introducendo una norma imperativa condizionante l’autonomia negoziale delle parti, incida sul contenuto dei contratti di durata anteriormente stipulati, o di quelli che non hanno ancora avuto esecuzione alla data della sua entrata in vigore, determinando la sopravvenuta nullità o inefficacia della clausola pattizia in essi inserita che sia eventualmente in contrasto con la norma imposta, la quale sostituisce o integra per l’avvenire la clausola difforme, relativamente agli effetti che il contratto dovrà produrre e non ha ancora prodotto; che non era questo il caso della clausola compromissoria stipulata anteriormente all’entrata in vigore della legge di riforma dell’arbitrato, non essendovi alcuna norma, fra quelle introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, artt. 20 e 25, che ne avesse decretato la sopravvenuta invalidità; che di conseguenza l’art. 829 c.p.c., comma 3, riformato, nell’escludere l’impugnazione del lodo per la violazione di regole di diritto relative al merito della controversia, salva l’espressa diversa volontà delle parti, si era limitato ad operare un capovolgimento del regime anteriore, riconducendo a regola ciò che era in precedenza previsto come eccezione e ad eccezione ciò che era in precedenza previsto come regola; che ritenere che, per effetto della disposizione transitoria dell’art. 27 la nuova regola debba essere obbligatoriamente applicata anche alle convenzioni di arbitrato concluse prima del 2/3/2006 solo perchè il giudizio arbitrale era stato introdotto in data successiva (e che perciò sia preclusa alle parti l’impugnazione del lodo per violazione di norme sostanziali ancorchè, all’epoca della stipulazione del patto compromissorio esse non fossero tenute a manifestare espressamente una volontà in tal senso) porterebbe, in assenza di una ragione giustificatrice, a un contrasto con i principi generali in materia di irretroattività della legge e di immodificabilità della disciplina contrattuale per effetto di mutamenti successivi della legislazione; che tale interpretazione implicherebbe l’automatica sostituzione del contenuto della convenzione di arbitrato a suo tempo previsto e voluto dai contraenti, ricollegando al loro silenzio un significato diametralmente opposto a quello stabilito dalla legge al momento della stipulazione del patto, così privandoli di un mezzo di impugnazione al quale, in quel momento, certamente non intendevano rinunciare; che gli effetti giuridici della volontà negoziale, validamente manifestata dalle parti, verrebbero dunque ad essere modificati d’imperio da una legge successiva, pur se ancora tutelati e riconosciuti dall’ordinamento in favore di tutti coloro che, avendo stipulato il patto dopo il 2/3/2006, avevano avuto cura di prevedere espressamente l’impugnabilità del lodo per violazione delle regole di diritto; che, così interpretata, la norma transitoria violerebbe, inoltre, i principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost.; in primo luogo, perchè determinerebbe disparità di trattamento non solo fra i contraenti che hanno stipulato la convenzione arbitrale in data anteriore e quelli che l’hanno invece stipulata in data posteriore all’entrata in vigore della legge di riforma (consentendo solo a questi ultimi di scegliere se conservare la possibilità di impugnare il lodo per violazione di norme sostanziali), ma persino fra tutti gli appartenenti alla prima delle due categorie, i quali manterrebbero o meno il diritto a detta impugnazione a seconda della data di promovimento del giudizio arbitrale, e dunque in dipendenza di un fattore del tutto casuale, non essendo certamente prevedibile la data di insorgenza della lite; in secondo luogo, la norma comprimerebbe il diritto delle parti alla tutela giurisdizionale, nonostante la contraria volontà dalle stesse manifestata allorchè sottoscrissero la clausola compromissoria senza escludere espressamente l’impugnabilità del lodo per violazione delle regole di diritto sostanziale, nella vigenza di un regime in cui tanto bastava a consentire l’impugnazione; neppure potrebbe ipotizzarsi che, una volta entrata in vigore la legge di riforma, fosse dovere dei contraenti attivarsi per modificare il testo della clausola compromissoria, aggiungendovi espressamente la previsione che in precedenza vi era implicitamente inclusa visto che a tal fine non basterebbe, infatti, l’iniziativa di una delle parti, ma occorrerebbe l’accordo di entrambe; nè la mancata attivazione potrebbe essere interpretata come rinuncia a far valere motivi di nullità del lodo per violazione di norme sostanziali, posto che la volontà di rinunciare ad un diritto si può desumere solo da un comportamento concludente, che non può consistere nella mera inerzia del titolare.

1.3.3. Neppure possono condividersi i dubbi avanzati dalla controricorrente sulla pretesa contraddittorietà della sentenza n. 9284 del 2016 delle Sezioni Unite, che al contempo escluderebbe e affermerebbe nell’art. 829 c.p.c., l’individuazione della norma di legge che funge da chiave di volta per il rinvio dell’art. 829 novellato, comma 3.

La sentenza delle Sezioni unite, interrogandosi quale fosse la “legge” la cui espressa previsione può rendere ammissibile l’impugnazione del lodo arbitrale anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, ha dapprima riconosciuto che doveva “trattarsi ovviamente di una legge diversa dallo stesso art. 829 c.p.c., comma 3” (novellato); poi ha affermato che doveva trattarsi di una legge che disciplini la convenzione di arbitrato, volta a definire, anche per volontà delle parti, i limiti di impugnabilità del lodo; quindi ha concluso che la norma di legge in questione poteva essere art. 829 c.p.c., comma 2 (testo ante Novella), che prevedeva che l’impugnazione per nullità è altresì ammessa se gli arbitri nel giudicare non hanno osservato le regole di diritto, salvo che le parti li avessero autorizzati a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile.

Secondo le Sezioni Unite è l’art. 829, comma 2, ante Novella, vigente al momento della stipulazione della clausola compromissoria la norma di legge capace di ascrivere al silenzio delle parti un significato normativamente predeterminato, che, in applicazione del sopravvenuto nuovo testo dell’art. 829 c.p.c., comma 3, ammette l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, in mancanza di contraria previsione delle parti.

Non vi è quindi alcuna contraddizione perchè le Sezioni Unite si sono riferite a due commi differenti e a due testi, variati nel tempo, del ridetto art. 829.

1.3.4. V’è solo da aggiungere per completezza che il “diritto vivente”, come sopra ricostruito, ha beneficiato dell’avallo del Giudice delle leggi.

La Corte Costituzionale con sentenza del 30/01/2018, n. 13 (poi ribadita con ordinanza del 21/02/2019, n. 21) ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 829 c.p.c., comma 3, come sostituito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 24, in combinato disposto con l’art. 27, comma 4, del medesimo D.Lgs., censurato, per violazione degli artt. 3 e 41 Cost., nella parte in cui precludeva la sindacabilità del lodo arbitrale per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, in assenza di una espressa previsione delle parti o della legge, e dispone che, secondo l’interpretazione costituente “diritto vivente”, il mutato regime di impugnabilità del lodo non sia applicabile ai giudizi arbitrali promossi dopo il 2/3/2006, se azionati in forza di convenzioni di arbitrato stipulate prima della riforma.

Secondo la Consulta è insussistente la violazione del principio di uguaglianza in quanto alla diversità di disciplina corrispondono situazioni non assimilabili: coloro che hanno stipulato una clausola compromissoria nella vigenza del vecchio testo dell’articolo impugnato – che prevedeva l’impugnabilità del lodo per violazione delle regole di diritto, salvo che le parti non avessero autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile – sono in una situazione obiettivamente diversa rispetto ai contraenti che, dopo il 2/3/2006, vigente la nuova regola, debbono esprimere una specifica volontà per realizzare il medesimo obiettivo dell’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto.

Il punto di riferimento ai fini della valutazione sulla identità delle fattispecie non può, infatti, essere individuato solo nella data di proposizione dell’arbitrato, in quanto così facendo si astrarrebbe la domanda dal suo contesto, trascurando il quadro normativo in cui la volontà delle parti si è formata e il ruolo che questa assume nell’arbitrato, come suo indefettibile fondamento.

Inoltre – secondo la Coite costituzionale – deve essere riconosciuta la natura sostanziale e non meramente processuale della regola posta dal novellato articolo, a nulla rilevando che all’arbitrato sia attribuita natura giurisdizionale, poichè la natura processuale dell’attività degli arbitri non esclude che sia pur sempre la convenzione di arbitrato a determinare i limiti di impugnabilità dei lodi.

Deve pure ritenersi insussistente la violazione del principio tempus regit processum, considerato che la presenza di un’esplicita disciplina transitoria priva di rilevanza esclusiva il riferimento alla natura processuale degli atti per risolvere le questioni di diritto intertemporale.

Non è violato neppure l’art. 41 Cost., atteso che, anche nel regime precedente alla riforma del 2006, l’autonomia negoziale si poneva come momento fondamentale della disciplina dell’arbitrato, in quanto la legge consentiva l’impugnazione del lodo, per violazione delle regole di diritto, salva diversa volontà delle parti. Il mutamento di disciplina, che restringe i motivi di impugnazione del lodo arbitrale non può, quindi, essere considerato come fondato sulla scelta di attribuire un maggiore rilievo all’autonomia delle stesse parti, visto che essa era pienamente salvaguardata anche nel vigore della precedente normativa.

1.3.5. Deve quindi ritenersi, diversamente da quanto affermato dalla Corte di appello e sostenuto dalla controricorrente, che l’impugnazione per nullità fosse ammessa per inosservanza delle regole di diritto, secondo il regime previgente alla Novella del 2006, applicabile ratione temporis all’arbitrato instaurato in forza di convenzione anteriore alla Novella del 2006.

1.4. Quanto ai motivi di impugnazione, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la denuncia di nullità del lodo arbitrale, ai sensi dell’art. 829 c.p.c., comma 2, per inosservanza delle regole di diritto in iudicando è ammissibile solo se circoscritta entro i medesimi confini della violazione di legge opponibile con il ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (Sez. 1, n. 16559 del 31/07/2020, Rv. 658604 – 01; Sez. 1, n. 21802 del 11/10/2006, Rv. 594366 – 01).

Inoltre la denuncia di nullità postula, in quanto ancorata agli elementi accertati dagli arbitri, l’esplicita allegazione dell’erroneità del canone di diritto applicato rispetto a detti elementi, e non è, pertanto, proponibile in collegamento con la mera deduzione di lacune d’indagine e di motivazione, che potrebbero evidenziare l’inosservanza di legge solo all’esito del riscontro dell’omesso o inadeguato esame di circostanze di carattere decisivo (Sez. 1, n. 28997 del 12/11/2018, Rv. 651474 – 01; Sez. 1, n. 19324 del 12/09/2014, Rv. 632214 – 01; Sez. 1, n. 23675 del 18/10/2013, Rv. 627973 – 01).

1.5. La controricorrente sostiene che i motivi dichiarati inammissibili dalla Corte territoriale (trascritti sia nella sentenza impugnata, sia nel ricorso principale alle pagine 19-29) sulla base della sopra disattesa interpretazione della disciplina intertemporale del novellato art. 829 c.p.c., dovrebbero comunque essere considerati e dichiarati inammissibili anche per altra ragione, ossia perchè – pur formalmente dedotti sub specie di violazione di regulae juris – sarebbero diretti a sollecitare dal giudice dell’impugnazione del lodo una inammissibile rivalutazione nel merito della decisione.

1.5.1. Quanto al primo motivo, la AIM ha dedotto violazione degli artt. 1175,1366,1367 e 1337 c.c., e sostiene che l’errore di diritto è consistito nell’aver escluso che l’introduzione in contratto delle due clausole (art. 5, comma 1, in tema di accollo dei costi di smaltimento dei rifiuti e art. 6, comma 5, in tema di sopravvenienze passive generate da condotte degli amministratori di nomina Ecoveneta) fosse frutto di dolo incidente o malafede precontrattuale della controparte.

La questione di diritto atterrebbe alla valutazione se vi fosse stata o meno violazione delle norme invocate sulla base dei presupposti di fatto accertati, con particolare riguardo alla consapevolezza della sola Ecoveneta di aver trattato e smaltito in modo illecito i rifiuti mentre AIM non sapeva, e anzi era stata rassicurata del contrario, che i rifiuti da smaltire erano conseguenza dell’illecito smaltimento da parte di Ecoveneta e degli amministratori da questa designati in AIMECO (vedi note 9, 10 e 13 di pag.21, 22 e 24 del ricorso).

1.5.2. Quanto al terzo motivo, AIM ricorda di aver dedotto la violazione degli artt. 1227 e 1337 c.c., con riferimento alla clausola di manleva. Ciò, in primo luogo, perchè la responsabilità di controparte era stata limitata in correlazione all’evitabilità del danno ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 2, il che poteva avvenire solo su eccezione di parte; in secondo luogo, perchè il danno era stato contenuto in base a una serie di circostanze non riconducibili alla previsione del concorso colposo del danneggiato di cui all’art. 1227 c.c., comma 1, (la corresponsabilità per omissione di vigilanza e mancata esternazione del dissenso degli altri amministratori AMIECO di designazione AIM; la mancata attivazione di AIM nei due anni successivi alla stipulazione del contratto del 30/12/2005 per verificare la configurabilità di responsabilità degli amministratori di nomina Ecoveneta; il concorso di colpa di AIM tramite gli amministratori AMIECO di sua nomina; la collocazione della clausola di manleva in seno a un contratto sinallagmatico e l’assunzione da parte sua della funzione di corrispettivo).

1.5.3. Anche quanto al quarto motivo di impugnazione del lodo la Corte di appello a pag.25, primo capoverso, ha ritenuto erroneamente per i motivi sopra esposti che la violazione di norme di diritto non fosse denunciabile ratione temporis, così rifiutandosi di esaminare la doglianza di AIM circa l’applicazione officiosa dell’eccezione di aggravamento del danno da parte del danneggiato ex art. 1227 c.c., comma 2, che richiede l’eccezione di parte (Sez. 3, n. 19218 del 19/07/2018, Rv. 649740 – 01; Sez. 3, n. 15750 del 27/07/2015, Rv. 636176 – 01; Sez. 3, n. 12714 del 25/05/2010, Rv. 613017 – 01; Sez. 3, n. 23734 del 10/11/2009, Rv. 610120 01).

Se pure nel corpo illustrativo del primo motivo di ricorso la ricorrente non ha richiamato espressamente il quarto motivo di impugnazione del lodo, a ciò sopperiscono la specifica e inequivoca indicazione della parte di sentenza impugnata (ricorso, pag.5, sub 4) e la sintesi dei motivi (pag.7 che collega il primo motivo alla parte sub 4 e pag.9, primo alinea).

1.6. Con riferimento a quanto lamentato con il terzo motivo di impugnazione e riassunto nel p. 1.5.2., le censure proposte da AIM erano ammissibili e non sollecitavano nè nuovi accertamenti di fatto, nè la rinnovazione del giudizio sul merito.

La Corte territoriale era infatti a chiamata ad esprimere un giudizio di diritto sulla rilevabilità d’ufficio o meno delle eccezioni di cui ai due commi dell’art. 1227 c.c., e a valutare se la condotta degli amministratori di AIMECO di nomina AIM potesse assumere o meno rilievo ai fini del concorso colposo del danneggiato o del mancato contenimento dei danni.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricomprende tanto quello di violazione di legge, ossia l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una previsione normativa, implicante un problema interpretativo della stessa, quanto quello di falsa applicazione della legge, consistente nella indebita sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur corretta interpretazione (Sez. 5, n. 23851 del 25/09/2019, Rv. 655150 – 02).

La deduzione del vizio di violazione di legge consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (cd. vizio di sussunzione) postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito (Sez. 3, n. 6035 del 13/03/2018, Rv. 648414 – 01; Sez.2 n. 6806 dell’8/3/2019; Sez.2 n. 11775 del 6/5/2019; Sez. L, n. 1379 del 18/01/2019,Rv. 652601 – 01).

Anche le Sezioni Unite hanno recentemente ribadito che la deduzione del vizio di violazione di legge non determina, per ciò stesso, lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, occorrendo che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (Sez. U, n. 25573 del 12/11/2020, Rv. 659459 – 02).

1.7. Più delicata appare la valutazione delle censure prospettate con il primo motivo di impugnazione e riassunto nel p. 1.5.1. con cui nell’ambito della dedotta violazione di legge AIM aveva sollecitato la Corte di appello ad esprimersi sulla possibilità di sussumere la condotta della sua controparte nelle clausole generali ricomprese nelle norme invocate (correttezza e buona fede).

1.7.1. Anche con riferimento a tali censure deve pervenirsi alla conclusione nel senso dell’ammissibilità del motivo di impugnazione per violazione di regole del diritto, nei limiti in cui la ricorrente, già impugnante per nullità del lodo, si era limitata a lamentare l’errore di sussunzione della fattispecie concreta, così come accertata dagli arbitri, nelle norme invocate e per la precisione nelle “clausole generali” che ne costituiscono segmenti e ne compongono la formulazione.

1.7.2. Le clausole generali sono disposizioni di limitato contenuto, che richiedono di essere concretizzate dall’interprete tramite valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica; la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, a condizione però che la contestazione in tale sede contenga una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli standards esistenti nella realtà sociale e non si traduca in una richiesta di accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo, accertamento che è riservato ai giudici di merito (Sez. L, n. 7426 del 26/03/2018, Rv. 647669 – 01; Sez. L, n. 6498 del 26/04/2012, Rv. 622158 – 01).

Infatti, in tema di clausole generali, nell’esprimere il relativo giudizio di valore necessario ad integrare il parametro generale contenuto nella norma, il giudice deve provvedere all’interpretazione della stessa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza comune sia di principi che la disposizione implicitamente richiama, dando concretezza a quella parte mobile della medesima che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale, ovvero a determinate situazioni non esattamente ed efficacemente specificabili a priori. Il suddetto giudizio è, pertanto, censurabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 quando esso si ponga in contrasto con i principi dell’ordinamento e con quegli standard valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono, con i menzionati principi, a comporre il diritto vivente. (Sez. 2, n. 8047 del 21/03/2019, Rv. 653484 – 03; Sez. 2, n. 30939 del 29/11/2018, Rv. 651600 – 02).

1.7.3. Nello stesso senso si sono espresse anche le Sezioni Unite, (n. 2572 del 22/02/2012) con riferimento alle “norme elastiche”, configurabili quando una disposizione di limitato contenuto (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) delinea un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, laddove hanno affermato che “non diversamente da quando un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorchè la legge richieda tale elemento ovvero un licenziamento viene ritenuto sorretto o meno da giusta causa o giustificato motivo, così, nella individuazione delle gravi ed eccezionali ragioni la cui concorrenza autorizza all’esercizio del potere discrezionale di compensare le spese, il giudice di merito è dunque chiamato ad integrare il contenuto della norma: tale attività di precisazione e integrarazione è censurabile in sede di legittimità al pari di ogni giudizio fondato su norme giuridiche, atteso che, nell’esprimere il giudizio di valore necessario ad integrare il parametro generale contenuto nella norma elastica, il giudice compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico-sociale ovvero a determinate situazioni non esattamente ed efficacemente specifica bili a priori”.

1.8. Nessun dubbio può sorgere sulla natura del quarto motivo di impugnazione del lodo (p. 1.5.3.) in tema di applicazione officiosa dell’eccezione di aggravamento del danno da parte del danneggiato, per il quale è palese la denuncia di violazione di regole di diritto.

1.9. In conseguenza di quanto sopra esposto, il primo motivo di ricorso va accolto, con il conseguente rinvio alla Corte territoriale che dovrà valutare le doglianze per violazione e falsa applicazione di legge formulate da AIM espresse con il primo, il terzo e il quarto motivo di impugnazione, con esclusivo riferimento al quadro fattuale accertato dagli arbitri.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, 4 e 5, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 101 c.p.c., comma 2, e art. 829 c.p.c., comma 1, n. 9, nonchè motivazione omessa e insufficiente.

2.1. AIM recrimina sul rigetto dell’impugnazione del lodo che aveva deciso d’ufficio alcune questioni che – secondo la ricorrente non erano state ritualmente sollevate o allegate in giudizio da Ecoveneta, con violazione del contraddittorio, in particolare con riferimento a quelle relative ai quattro accertamenti sulla base dei quali il collegio arbitrale aveva limitato l’entità del danno risarcibile.

2.2. L’art. 829, comma 1, n. 9, consente l’impugnazione del lodo per nullità, se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la deduzione della violazione del contraddittorio deve essere esaminata non sotto il profilo formale ma nell’ambito di una ricerca volta all’accertamento di una effettiva lesione della possibilità di dedurre e contraddire, onde verificare se l’atto abbia egualmente raggiunto lo scopo di instaurare un regolare contraddittorio e se, comunque, l’inosservanza non abbia causato pregiudizio alla parte; ne consegue che la nullità del lodo e del procedimento devono essere dichiarate solo ove nell’impugnazione, alla denuncia del vizio idoneo a determinarle, segua l’indicazione dello specifico pregiudizio che esso abbia arrecato al diritto di difesa (Sez. 1, n. 18600 del 07/09/2020, Rv. 658811 – 01).

Il limite del rispetto del principio del contraddittorio va comunque opportunamente adattato al giudizio arbitrale, dovendo essere offerta alle parti, al fine di consentire loro un’adeguata attività difensiva, la possibilità di esporre i rispettivi assunti, di esaminare e analizzare le prove e le risultanze del processo, di presentare memorie e repliche e conoscere in tempo utile le istanze e richieste avverse (Sez. 1, n. 8331 del 04/04/2018, Rv. 648141 – 01; Sez. 2, n. 10809 del 26/05/2015, Rv. 635441 – 01).

Il procedimento arbitrale deve infine essere condotto nel rispetto delle norme di ordine pubblico, che fissano i principi cardine del processo, di rango costituzionale, come il principio del contraddittorio, rafforzato dalla specifica previsione della lesione di tale principio come motivo di nullità del lodo, ai sensi dell’art. 829 c.p.c., comma 9, (Sez. 1, n. 17099 del 10/07/2013, Rv. 627240 – 01).

2.3. La violazione del principio del contraddittorio, così inteso, è ravvisabile in presenza di un vulnus inferto al diritto di difesa che si traduca nell’impossibilità di contraddire alle avversarie deduzioni e non già in caso di semplice violazione dei termini e delle regole procedurali che non riverberino in tale impossibilità.

2.4. Secondo la Corte di appello, le questioni (i “quattro accertamenti” operati dagli arbitri rilevanti per la limitazione quantitativa dei danni) per le quali AIM lamenta il vulnus erano state oggetto di precisi rilievi da parte di Ecoveneta sui quali si era svolto o ben avrebbe potuto svolgersi il contraddittorio (sentenza impugnata, pag.25, primo paragrafo); la fattispecie era stata quindi ricostruita sulla base delle allegazioni in fatto delle parti, senza far luogo a quella pronuncia “a sorpresa” che il principio del contraddittorio mira essenzialmente a precludere (sentenza impugnata, pag.24, penultimo capoverso); sempre secondo la Corte distrettuale, gli arbitri avevano operato e deciso sulla base ed entro i limiti del quadro fattuale e probatorio offerto dalle parti (sentenza impugnata pag.24, primo capoverso), senza coinvolgervi questioni rimaste totalmente estranee al dibattito processuale e comportanti nuovi e imprevisti sviluppi della lite.

2.5. La ricorrente sostiene che la controparte avrebbe introdotto i temi de quibus solamente con la memoria di replica a conclusionale nel procedimento arbitrale e avrebbe indotto la Corte di appello a credere che invece le relative deduzioni fossero già state svolte con la comparsa di costituzione e risposta in sede arbitrale, con una affermazione fuorviante contenuta nella comparsa di risposta in “appello” (rectius: nel giudizio di impugnazione).

Dal punto di vista teorico, il vizio prospettato, e cioè la presa in considerazione da parte degli arbitri di circostanze nuove dedotte da una delle parti solo con la memoria di replica, comporterebbe effettivamente la violazione del principio del contraddittorio nell’accezione pocanzi tratteggiata, poichè la controparte non avrebbe avuto una possibile istanza processuale per lo sfogo delle proprie difese contro tali tardive deduzioni.

Non così per ogni altra ipotesi di deduzione formulata nel corso del procedimento, ancorchè intempestiva rispetto ai termini fissati, che avrebbe determinato semmai una violazione delle regole processuali, ma non la violazione del fondamentale principio del contraddittorio, consentendo comunque la difesa e la replica, anche in rito, dell’avversario.

Tuttavia la ricorrente si è limitata a sostenere che Ecoveneta aveva formulato le deduzioni solo con la memoria di replica e non le aveva introdotte con la comparsa costitutiva nel giudizio arbitrale; invece la Corte di appello aveva affermato semplicemente che le deduzioni erano state formulate e sottoposte al contraddittorio.

Perciò il motivo non appare specifico e autosufficiente, laddove non considera l’ipotesi, fra l’altro ampiamente sottolineata dalla controricorrente, che le deduzioni de quibus fossero state formulate in una fase processuale intermedia e in particolare con la seconda memoria autorizzata, come sostiene Integra (controricorso, pagg.26 e 27 con riferimento alle pagine 12, 13, 17 e 24 della predetta memoria).

2.6. Il motivo va pertanto dichiarato inammissibile.

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 112 c.p.c., e art. 829 c.p.c., comma 1, n. 4, nonchè motivazione omessa e insufficiente.

3.1. Secondo la ricorrente tali violazioni erano state commesse dalla Corte allorchè aveva respinto il suo quarto motivo di impugnazione ed escluso il denunciato difetto di ultrapetizione, in particolare con riferimento ai quattro accertamenti con i quali il collegio arbitrale aveva limitato l’entità del danno risarcibile.

3.2. L’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 4, ammette l’impugnazione per nullità del lodo pronunciato fuori dei limiti della convenzione d’arbitrato, ferma la disposizione dell’art. 817, comma 4, o che abbia deciso il merito della controversia in ogni altro caso in cui il merito non poteva essere deciso.

Il precedente testo, invocato da AIM, si riferiva invece al caso in cui “il lodo ha pronunciato fuori dei limiti del compromesso o non ha pronunciato su alcuno degli oggetti del compromesso o contiene disposizioni contraddittorie, salva la disposizione dell’art. 817”.

In ogni caso la pronuncia fuor dai limiti del patto compromissorio non riguarda l’ipotesi dedotta del vizio di ultrapetizione, che costituisce violazione di legge, comunque prospettata sotto tale corretto profilo con il primo motivo (in particolare vedasi p. 1.5.3.) sopra accolto.

4. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 2697 c.c., nonchè motivazione omessa e insufficiente.

4.1. La ricorrente lamenta che la Corte di appello (a pag.26, ultimo capoverso e pag.27, lettera c)) abbia respinto il suo quarto motivo di impugnazione, che lamentava il difetto di prova, come volto inammissibilmente a proporre questioni di fatto a fronte della decisione arbitrale emessa sulla base delle deduzioni delle parti; al contrario, la doglianza proposta da AIM era che i fatti fossero stati solo tardivamente allegati da controparte ma non provati.

4.2. La censura si sovrappone a quelle già accolte con il primo motivo e lamenta il difetto di prova delle circostanze di fatto sulla base delle quali gli arbitri avevano ravvisato il concorso colposo del danneggiato AIM e l’aggravamento dei danni da parte sua, validamente censurate in questa sede sotto il profilo del mancato esame delle violazioni di legge sostanziale dedotte e della denuncia di indebito rilievo officioso dell’eccezione di aggravamento del danno.

4.3. Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., si configura solo nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, ma non anche laddove si contesti il concreto apprezzamento delle risultanze istruttorie, assumendosi che le stesse non avrebbero dovuto portare al convincimento raggiunto dal giudice di merito (Sez. 2, 24/01/2020, n. 1634; Sez. lav., 19/08/2020, n. 17313; Sez. 6, 23/10/2018 n. 26769; Sez.3, 29/5/2018, n. 13395; Sez.2, 7/11/2017 n. 26366).

4.4. Il quarto motivo di impugnazione del lodo, così come ricostruito alle pagine 12 e 13 della sentenza impugnata e alle pagine 15 e 16 del ricorso, non contiene alcun riferimento alla violazione delle regole del riparto dell’onere probatorio ma lamenta semplicemente che fossero stati valorizzate circostanze sfornite di prova: in particolare la mancata attivazione di AIM nei due anni successivi al 30/12/2005 (enucleate sub b), a pagina 15 del ricorso) e la maggior onerosità delle condizioni di cessione in difetto di introduzione della clausola di manleva (enucleate sub d), a pagina 16 del ricorso).

4.5. E’ del tutto evidente, alla luce del contenuto di un tale motivo che la doglianza, lungi dal censurare in diritto, come era teoricamente consentito, un errore nell’individuazione della parte onerata della prova, si limitano a criticare l’apprezzamento circa il raggiungimento della prova compiuto dagli arbitri.

Appare quindi ineccepibile la risposta della Corte lagunare secondo la quale l’asserita mancanza di prova involgeva una inammissibile prospettazione di questioni di fatto.

Il motivo deve pertanto essere rigettato.

5. In sintesi, deve essere accolto il primo motivo di ricorso, respinti o dichiarati inammissibili ut supra gli altri, e deve essere cassata la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiarati inammissibili il secondo e il terzo, rigettato il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 4 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2021

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