Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1437 del 25/01/2021

Cassazione civile sez. trib., 25/01/2021, (ud. 03/11/2020, dep. 25/01/2021), n.1437

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 18179/2012 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore elettivamente

domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, pro tempore, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come

per legge;

– ricorrente –

contro

GE. S.R.L., in persona del legale rappresentante, rappresentata e

difesa, giusta procura a margine del controricorso, dagli avv.ti

Adriano Rossi e Anna Rossi, con domicilio eletto presso il loro

studio in Roma, Viale delle Milizie, n. 1;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 149/09/11 della Commissione tributaria

regionale dell’Abruzzo depositata il 27 maggio 2011;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 novembre 2020

dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale, Dott. De Matteis Stanislao, che ha concluso chiedendo il

rigetto del terzo motivo di ricorso e l’accoglimento del primo, del

secondo e del quarto motivo di ricorso;

udito il difensore della parte ricorrente, avv. Emanuele Valenzano;

uditi il difensore della parte controricorrente, avv. Adriano Rossi.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo n. 149/09/11, depositata il 27 maggio 2011, non notificata, con la quale, in riforma della decisione resa dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti ed in accoglimento parziale dell’appello della società contribuente Ge. s.r.l., e.l’attività di vendita di oggetti di gioielleria e oreficeria, sono stati annullati i rilievi nn. 1), 2), 3), 4) e 5) contestati con l’avviso di accertamento, con il quale l’Amministrazione finanziaria aveva accertato maggior imponibile ai fini IRPEG, IRAP e I.V.A. in relazione all’anno d’imposta 2005.

2. In particolare, con i rilievi nn. 1) e 3) l’Ufficio aveva rideterminato il valore delle rimanenze, iniziali e finali, avendo riscontrato un incremento delle rimanenze finali in assenza di acquisti effettuati nel corso dell’anno; con il rilievo n. 2), dopo avere esaminato gli acquisti sulla scorta delle fatture e avere determinato il ricarico praticato mediante il raffronto tra il costo di acquisto ed il prezzo di vendita rilevato dai listini prezzi, aveva proceduto alla ricostruzione di ricavi non dichiarati; con il rilievo n. 4) aveva contestato l’omessa contabilizzazione e dichiarazione di canone già maturato, dell’importo di Euro 5.089,32, e dell’ulteriore importo di Euro 9.000,00, dato a garanzia, in relazione ad un contratto di locazione avente ad oggetto la gestione di un bar ristorante in Chieti; con il rilievo n. 5) aveva recuperato a tassazione la somma di Euro 618.291,12 quale sopravvenienza attiva non dichiarata (ex art. 88 t.u.i.r.).

3. I giudici di secondo grado hanno statuito che:

a) la rideterminazione da parte dell’Ufficio del valore delle rimanenze iniziali (oggetto del rilievo n. 1) costituiva operazione “meramente congetturale, in difetto di qualsivoglia verifica da parte degli accertatori della consistenza fisica delle giacenze di magazzino”, per cui doveva essere annullato anche il rilievo n. 3), afferente alle rimanenze finali;

b) i maggiori ricavi per Euro 269.204,18 (di cui al rilievo n. 2) erano stati determinati induttivamente mediante applicazione di una percentuale di ricarico diversa e maggiore rispetto a quella del 50 per cento desumibile dalle scritture contabili; risultando incongruo il maggior ricarico applicato dall’Ufficio sui prodotti di oreficeria (pari al 140 per cento), doveva essere applicato il ricarico nella misura del 70 per cento applicata ai prodotti di gioielleria;

c) la censura concernente il rilievo n. 4) era fondata limitatamente alla somma di Euro 9.000,00, che era stata versata da un affiliato a garanzia dell’adempimento degli obblighi derivanti dal contratto e non a titolo di corrispettivo imponibile;

d) con riguardo al rilievo n. 5), l’Ufficio non aveva provato, come era suo onere, che il debito della contribuente nei confronti dei fornitori Po. s.r.l. e Br. s.r.l. fosse stato oggetto di rimessione da parte dei creditori; la cessione del credito non aveva determinato la liberazione della società debitrice Ge. s.r.l., ma soltanto la sostituzione della persona del creditore (la cessionaria Ge- S. in luogo dei cedenti Po. s.r.l. e Br. s.r.l.), tanto che nell’anno 2005 il debito era stato parzialmente estinto mediante versamento alla cessionaria della somma di Euro 305.604,76, con la conseguenza che la fattispecie non era sussumibile nella previsione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 88, comma 1.

4. La società contribuente resiste mediante controricorso, ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c..

In prossimità dell’udienza pubblica il Sostituto Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte in forma di memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare la controricorrente eccepisce l’inammissibilità del ricorso perchè tardivamente proposto oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c..

Evidenzia che in calce alla relata di notifica risulta apposto un timbro che certifica la consegna del ricorso alla posta, per la sua notifica, in data 12 luglio 2012, mentre “dalla dichiarazione inviata dalla stessa amministrazione postale alla contribuente emerge che la raccomandata (OMISSIS) porta la data del 13/7/2012”.

L’eccezione va disattesa, in quanto in calce alla ricevuta di accettazione della raccomandata, allegata dalla parte ricorrente, emerge chiaramente che il ricorso per cassazione è stato consegnato all’ufficio postale per la notifica in data 12 luglio 2012, come certificato dal timbro apposto dalle Poste Italiane s.p.a..

Posto che l’impugnata sentenza della Commissione tributaria regionale è stata pubblicata, mediante deposito nella segreteria della stessa, in data 27 maggio 2011, risulta rispettato il cd. termine lungo di un anno e 46 giorni previsto dall’art. 327 c.p.c., comma 1, nel testo antecedente alla modifica introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 17, (che ha sostituito il termine di decadenza di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza all’originario termine annuale), applicabile al presente giudizio che è stato introdotto in data antecedente al 4 luglio 2009 (Cass., sez. 5, 5/10/2012, n. 17060; Cass., sez. 5, 17/04/2012, n. 6007; Cass., sez. 6-5, 21/06/2013, n. 15741; Cass., sez. 6-3, 6/10/2015, n. 19969; Cass., sez. 65, 6/10/2016, n. 20102; Cass., sez. 5, 15/07/2020, n. 15029).

2. Con il primo motivo del ricorso la difesa erariale, deducendo la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, e la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 censura la decisione impugnata nella parte in cui i giudici regionali hanno annullato i rilievi concernenti le rimanenze e sostiene che, vertendosi in ipotesi di accertamento induttivo, anche i meri indizi sono sufficienti a giustificare la pretesa fiscale e ad invertire l’onere probatorio sulla parte contribuente, che non l’ha assolto.

Rileva che non è indispensabile l’inventario fisico delle merci, in difetto di prova, da parte della società, di acquisti presso le imprese le cui merci risultavano inspiegabilmente incrementate a fine anno. In primo grado, la contribuente aveva solo accennato all’ipotesi che tali acquisti fossero stati fatti tramite un grossista, peraltro sempre appartenente alla famiglia S., senza tuttavia fornire prova di tale assunto e senza documentare la rivalutazione di tali giacenze in base al prezzo, e solo in secondo grado aveva addotto l’assenza di inventario fisico della merce.

2.1. In controricorso la società contribuente ha eccepito l’inammissibilità del mezzo in esame, sottolineando che, come si evince dall’avviso di accertamento notificato – prodotto unitamente al controricorso

l’Amministrazione ha svolto l’accertamento, non ai sensi del combinato disposto di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 40 e art. 39, comma 2, neppure richiamato, ma piuttosto ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), non procedendo, pertanto, a determinare globalmente il reddito di impresa presunto, ma provvedendo ad individuare specifici rilievi sulla base della contabilità tenuta dalla contribuente.

Ha, quindi, dedotto che la doglianza fatta valere con il motivo di cui si discute è nuova, in quanto essa pretende di applicare il disposto del citato art. 39, comma 2 al solo fine dell’inversione dell’onere della prova, considerato che la norma richiamata nell’atto impositivo è quella dello stesso art. 39 citato, comma 1, lett. d).

2.2. Il motivo è inammissibile perchè trattasi di censura nuova.

2.3. Dall’esame dell’avviso di accertamento, prodotto dalla ricorrente, in omaggio al principio dell’autosufficienza e nel rispetto del principio di specificità, emerge che l’Ufficio, in sede di verifica, ha proceduto alla rettifica del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), contestando specifici rilievi, quali: la diversa indicazione delle rimanenze iniziali e finali, l’omessa contabilizzazione di maggiori ricavi conseguenti all’applicazione di percentuali di ricarico diverse da quella dichiarata, la mancata contabilizzazione di somme derivanti da canoni di locazione e l’omessa contabilizzazione di una sopravvenienza attiva.

2.4. I giudici di appello, alla luce di quanto prospettato dall’Ufficio a fondamento della pretesa impositiva, oltre che in ragione delle contestazioni sollevate dalla società contribuente, hanno ritenuto che gli elementi presuntivi offerti non fossero sufficienti a supportare l’accertamento svolto con specifico riferimento alle rimanenze di magazzino, affermando che la ricostruzione operata dall’Ufficio appariva “meramente congetturale”, in assenza di un riscontro da parte dei verificatori della consistenza fisica delle giacenze di magazzino, ed hanno, conseguentemente, annullato i rilievi riguardanti le rimanenze, iniziali e finali, ritenendoli, implicitamente, non supportati da presunzioni connotate dai requisiti della gravità, precisione e concordanza.

2.5. Va rammentato che, per costante orientamento di questa Corte, il discrimine tra l’accertamento condotto con metodo cd. analitico extracontabile (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d)) e l’accertamento condotto con metodo induttivo puro (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, comma 2, in materia di imposte indirette) va ricercato rispettivamente nella “parziale od assoluta” inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili.

Nel primo caso, la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non è tale da non consentire di prescindere dalle scritture contabili, essendo legittimato l’Ufficio accertatore solo a “completare” le lacune riscontrate utilizzando ai fini della dimostrazione della esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati ovvero della inesistenza di componenti negativi dichiarati anche presunzioni semplici rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c.. Nel secondo caso, invece, “le omissioni o le false od inesatte indicazioni” risultano tali da inficiare la attendibilità – e dunque la utilizzabilità, ai fini dell’accertamento – anche degli “altri” dati contabili, con la conseguenza che in questo caso l’Amministrazione finanziaria può “prescindere in tutto od in parte dalle risultanze del bilancio o delle scritture contabili in quanto esistenti” ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c. (Cass., sez. 5, 18/12/2019, n. 33604; Cass., sez. 5, 8/03/2019, n. 6861).

Ciò significa che la determinazione del reddito d’impresa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2 può essere compiuta dall’Amministrazione finanziaria, prescindendo dalle presunzioni dotate dei caratteri della gravità, precisione e concordanza, quando le omissioni o le false o inesatte indicazioni accertate ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica.

Si tratta, dunque, di una metodologia di accertamento che presuppone la ricorrenza di precise condizioni caratterizzate da irregolarità di particolare gravità e solo in presenza di tali circostanze i verificatori hanno facoltà di prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze delle scritture contabili nei casi in cui sono esistenti e possono utilizzare anche elementi indiziari connotati da una valenza dimostrativa non particolarmente pregnante, ossia le cd. presunzioni semplicissime.

Ne discende che la denuncia, con il motivo in esame, della violazione dell’art. 39 citato, comma 2 anzichè del comma 1, lett. d), del medesimo articolo richiamato nell’atto impositivo, costituisce censura nuova, come tale inammissibile.

Peraltro, poichè la censura attinge la valutazione di merito svolta dal giudice regionale, essa avrebbe dovuto essere formulata non come vizio di violazione di legge, ma piuttosto come vizio di motivazione.

Infatti, l’eventuale errore commesso dal Giudice di merito nel “qualificare” il tipo di accertamento svolto in concreto dalla Amministrazione finanziaria, non rileva mai “ex se” (sotto il profilo della violazione o falsa applicazione della norma descrittiva degli elementi costitutivi della fattispecie attributiva del potere amministrativo – e dunque in relazione al parametro della violazione di norma di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), ma si risolve sempre o in un errore attinente all’attività processuale, censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (nel caso in cui venga prospettata la illegittima acquisizione di elementi di prova in violazione dei limiti alla ammissibilità delle prove stabiliti dalle norme processuali tributarie) o in un errore di fatto concernente la selezione e la valutazione del materiale probatorio utilizzato a fondamento della decisione e si risolve in un vizio della motivazione censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. 5, 24/07/2013, n. 17952).

2.6. Neppure è ravvisabile la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 in quanto il rilievo del mancato controllo fisico delle merci, che la ricorrente asserisce essere stato tardivamente sollevato solo in grado di appello, costituisce circostanza di fatto ricompresa nella contestazione di sostanziale inattendibilità della ricostruzione delle giacenze iniziali e finali operata dall’Ufficio, fatta valere dalla società contribuente già con il ricorso introduttivo.

3. Con il secondo motivo denuncia omessa motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), lamentando che la sentenza impugnata non spiega perchè si sia ritenuto incongruo il ricarico come calcolato dall’Ufficio, nè per quali ragioni lo stesso debba essere uguale per gli oggetti di gioielleria e per quelli di oreficeria, sebbene la stessa parte contribuente avesse ammesso che “è scontato che il prezzo dei prodotti di gioielleria vada assoggettato ad un ricarico maggiore rispetto a quello della oreficeria”.

3.1. In controricorso, la contribuente ha sottolineato che la doglianza è inammissibile perchè in contrasto con quanto sostenuto dall’Ufficio nell’avviso di accertamento, nel quale era stato evidenziato che il ricarico per gli oggetti di oreficeria era maggiore di quello applicato agli altri prodotti in vendita (gioielli e bigiotteria).

3.2. La censura è inammissibile.

3.3. La parte ricorrente non ha assolto all’onere, imposto a pena di inammissibilità dall’art. 366-bis c.p.c., della chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa, ovvero delle ragioni per le quali la motivazione sarebbe insufficiente ed inidonea a giustificare la decisione, non potendo tale onere essere adempiuto mediante la sola illustrazione del motivo di ricorso.

La esposizione del motivo risulta, infatti, estremamente generica, poichè manca l’individuazione di “fatti” controversi in senso tecnico, nonchè l’evidenziazione del carattere decisivo degli stessi, ossia della idoneità del vizio denunciato a determinare una diversa ricostruzione del fatto.

3.4. Come questa Corte ha chiarito, la nozione di punto decisivo della controversia, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 sotto un primo aspetto si correla al fatto sulla cui ricostruzione il vizio di motivazione avrebbe inciso ed implica che il vizio deve avere inciso sulla ricostruzione di un fatto che ha determinato il giudice all’individuazione della disciplina giuridica applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio di merito e, quindi, di un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo od estintivo del diritto.

Sotto un secondo aspetto, la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, asserisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo, peraltro, necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa. Infatti, se il vizio di motivazione per omessa considerazione di punto decisivo fosse configurabile sol per il fatto che la circostanza di cui il giudice del merito ha omesso la considerazione, ove esaminata, avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione del fatto diversa da quella adottata dal giudice del merito, oppure se il vizio di motivazione per insufficienza o contraddittorietà fosse configurabile sol perchè su uno specifico fatto appaia esistente una motivazione logicamente insufficiente o contraddittoria, senza che rilevi se la decisione possa reggersi, in base al suo residuo argomentare, il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5 si risolverebbe nell’investire la Corte di Cassazione del controllo sic et simpliciter dell’iter logico della motivazione, del tutto svincolato dalla funzionalità rispetto ad un esito della ricostruzione del fatto idoneo a dare luogo ad una soluzione della controversia diversa da quella avutasi nella fase di merito (Cass., sez. L, 14/02/2013, n. 3668).

3.5. Va, quindi, ribadito che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, prevede “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” non più “circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio”, bensì circa un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”, sicchè i “fatti” in ordine ai quali assume rilievo il vizio di motivazione sono i “fatti principali”, ossia i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi del diritto controverso come individuati dall’art. 2697 c.c. (Cass., sez. 5, 5/02/2011, n. 2805; Cass., sez. 5, 29/07/2011, n. 16655; Cass. n. 21152 del 8/10/2014; Cass., sez. 5, 3/10/2018, n. 24035).

3.6. I giudici regionali hanno rilevato che l’Amministrazione ha proceduto alla contestazione del rilievo di omessa contabilizzazione di maggiori ricavi applicando una percentuale di ricarico diversa e maggiore rispetto a quella del 50 per cento desumibile dalle scritture contabili e, considerando non congruo il ricarico applicato dall’Ufficio sui prodotti di oreficeria, pari al 140 per cento, hanno ritenuto di dover applicare lo stesso ricarico utilizzato per i prodotti di gioielleria (pari al 70 per cento).

A fronte dell’apprezzamento compiuto dal giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità, la ricorrente ha omesso di evidenziare elementi di fatto e contabili rilevati dai verbalizzanti nel corso delle indagini, e trascurati dai giudici di appello, che avrebbero potuto condurre ad una diversa decisione, non potendo a tal fine considerarsi fatto dirimente la deduzione difensiva contenuta nel ricorso introduttivo (“è scontato che il prezzo dei prodotti di gioielleria vada assoggettato ad un ricarico maggiore rispetto a quello della oreficeria”), di per sè non idonea ad inficiare le argomentazioni che sorreggono la motivazione dei giudici di appello che hanno piuttosto ritenuto, in difetto di ragioni che possano giustificare un diverso trattamento, non rinvenibili nell’avviso di accertamento, che la percentuale di ricarico da applicare ai vari articoli oggetto di vendita (oreficeria e gioielleria) debba essere identica.

4. Con il terzo motivo deduce violazione dell’art. 6 del t.u.i.r. e sostiene che il fatto che l’assegno dell’importo di Euro 9.000,00 fosse stato consegnato a titolo di garanzia non ne escludeva la tassablilità, costituendo pur sempre titolo di pagamento; la circostanza che il medesimo assegno potesse essere restituito all’esito della regolare esecuzione del contratto non poteva esimere dall’includerlo tra i redditi societari.

4.1. Il motivo è infondato.

4.2. Occorre premettere che costituisce principio consolidato di questa Corte quello secondo cui l’emissione di un assegno in bianco o postdatato, cui di regola si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia – nel senso che esso è consegnato a garanzia di un debito e deve essere restituito al debitore qualora questi adempia regolarmente alla scadenza della propria obbligazione, rimanendo nel frattempo nelle mani del creditore come titolo esecutivo da far valere in caso di inadempimento – è contrario alle norme imperative contenute nel R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, artt. 1 e 2 e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume enunciato dall’art. 1343 c.c.. (Cass., sez. 2, 19/04/1995, n. 4368; Cass., sez. 1, 24/05/2016, n. 10710).

Pertanto, il patto con cui due soggetti si accordano per il rilascio di un assegno bancario a scopo di garanzia è nullo, ma tale nullità non toglie che l’assegno valga comunque come promessa di pagamento, a norma dell’art. 1988 c.c., o come titolo pagabile a vista, e che possa essere portato all’incasso in qualsiasi momento dal creditore, implicando una presunzione iuris tantum dell’esistenza del rapporto sottostante, fino a che l’emittente non fornisca la prova dell’inesistenza, dell’invalidità o dell’estinzione di tale rapporto (Cass., sez. 2, 16/11/1990, n. 10617; Cass., sez. 2, 19/04/1995, n. 4368).

4.3. Sulla base di quanto emerge dalla sentenza e dalle stesse prospettazioni difensive delle parti, la società contribuente, in qualità di affiliante, ha affidato ad altra ditta la gestione di un ristorante sito in (OMISSIS), concordando la corresponsione del canone di Euro 5.089,32, somma comprensiva di I.V.A., e dell’importo di Euro 9.000,00, oltre I.V.A., a garanzia degli ulteriori obblighi assunti.

E’, dunque, incontestato che l’assegno dell’importo di Euro 9.000,00 è stato consegnato a titolo di garanzia e che l’incremento del reddito per Euro 5.089,32 corrisponde al canone di locazione non dichiarato; a fronte dell’integrale recupero a tassazione, la C.T.R. ha ritenuto imponibile solo l’importo dei canoni maturati nell’esercizio (pari ad Euro 5.089,32) ed ha invece annullato il rilievo limitatamente all’importo di Euro 9.000,00.

Poichè l’adempimento dell’obbligazione, a garanzia del quale è stato emesso e rilasciato l’assegno, fa sorgere l’obbligo di restituzione dell’importo portato dal titolo, risulta evidente che l’assegno ricevuto a garanzia dell’esatto adempimento, non determinando un accrescimento dell’imponibile, non integra reddito e il relativo importo non deve essere iscritto tra i componenti positivi di reddito.

5. Con il quarto motivo la difesa erariale censura la sentenza per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 88, comma 1, e art. 2697 c.c., oltre che per omessa motivazione.

Deduce che dall’accertamento emerge che “sia la registrazione su libro giornale che i mastri dei conti interessati evidenziano unicamente la chiusura del debito nei confronti dei due fornitori e la contestuale imputazione del credito vantato da questi ultimi all’amministratrice, senza alcun movimento finanziario: al venir meno del primo debito doveva corrispondere una sopravvenienza attiva, mentre la seconda annotazione non aveva alcuna giustificazione, e come si è detto nulla risulta dalla nota integrativa e dai verbali di assemblea. Dalla cessione di credito dedotta ex adverso, poi, non c’è prova alcuna: la sentenza la dà per scontata, senza spiegare da dove tragga elementi per ritenerla avvenuta. Parimenti, non vi è prova del pagamento eseguito all’amministratrice, che solo risulta contabilizzato, ma senza alcuna documentazione della sua realtà e senza indicazione di movimenti finanziari…”; assume, pertanto, che trattasi di manovra elusiva dell’imposizione delle sopravvenienze attive per mancati pagamenti, ex art. 88 del t.u.i.r..

5.1. Il motivo è infondato.

5.2. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 88, comma 1, qualifica sopravvenienza attiva da iscrivere in bilancio anche “…la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite ed oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi”.

L’insussistenza delle passività è stata intesa come “sopravvenuta” da questa Corte in tutti i casi in cui, per qualsiasi ragione, la posizione debitoria, già annotata come tale, debba ritenersi cessata e assuma quindi nel bilancio una connotazione attiva, come liberazione di riserve, con il conseguente assoggettamento ad imposizione, con riferimento all’esercizio in cui tale posta attiva emerge in bilancio ed acquista certezza (Cass., sez. 5, 22/09/2006, n. 20543; Cass., sez. 5, 8/06/2011, n. 12436; Cass., sez. 5, 2/08/2017, n. 19219; Cass., sez. 5, 23/01/2020, n. 1508).

5.3. La sentenza impugnata ha accertato che l’Ufficio non ha dimostrato che il debito della società contribuente nei confronti dei due fornitori Po. s.r.l. e Br. s.r.l. sia stato oggetto di rirnessione da parte dei creditori.

Ricostruendo la vicenda fattuale, i giudici di merito hanno rilevato che per effetto della cessione dei crediti da parte dei due fornitori in favore di Ge. S., amministratrice della società contribuente, il credito non si è estinto, ma è stato soltanto trasferito ad un altro creditore, per cui la società non è stata liberata dal debito.

Considerato che la cessione del credito è negozio a forma libera, che non richiede alcuna forma specifica per essere validamente concluso (Cass., sez. 3, 15/05/1974, n. 1396), e che soltanto la sua opponibilità al debitore risulta subordinata alla notifica o all’accettazione da parte di quest’ultimo (art. 1264 c.c.), hanno correttamente ritenuto non sussistente una sopravvenienza attiva imponibile, in difetto di prova, da parte dell’Amministrazione finanziaria, che la situazione debitoria della società fosse venuta meno, risultando solo una parziale estinzione del debito mediante il versamento alla cessionaria della somma di Euro 305.604,76.

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 3 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2021

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