Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14369 del 25/05/2021

Cassazione civile sez. I, 25/05/2021, (ud. 26/02/2021, dep. 25/05/2021), n.14369

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5323/2017 proposto da:

V.E.A., V.E., V.F., elettivamente

domiciliate in Roma, Via Piemonte n. 117, presso lo studio

dell’avvocato Perin Giulia, che le rappresenta e difende unitamente

agli avvocati Pailli Giacomo, Simoni Alessandro, giuste procure in

calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Comune di Firenze, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in Roma, Via Polibio n. 15, presso lo studio

dell’avvocato Lepore Giuseppe, rappresentato e difeso dagli avvocati

Peruzzi Sergio, Cappelletti Alessandra, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1917/2016 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata

il 15/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/02/2021 dal cons. DI MARZIO MAURO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – V.E., V.E. e V.F. hanno agito in giudizio dinanzi al Tribunale di Firenze nei confronti del Comune di Firenze, chiedendo accertarsi la violazione da parte del convenuto degli obblighi nascenti dagli artt. 7,10 e 146 del codice della privacy e condannarsi il medesimo convenuto al relativo adempimento, ed accertarsi altresì l’esistenza di dati personali o sensibili ad esse attrici riferibili, consentendo l’accesso a tali dati per chiederne eventualmente la cancellazione, il tutto con i danni e le spese.

2. – A fondamento della domanda le attrici hanno riferito:

-) erano cittadine rumene ed avevano vissuto per un certo tempo in Italia senza fissa dimora, traendo sostentamento da forme di mendicità, condotta a fronte della quale la polizia municipale di Firenze aveva loro pretestuosamente contestato violazioni del regolamento comunale in materia di decoro urbano;

-) nell’ambito dell’attività difensiva svolta per resistere a dette contestazioni, era emerso che il Comune di Firenze svolgeva nei loro confronti una vera e propria attività di schedatura e controllo, il che aveva trovato conferma in un articolo di stampa pubblicato sull’edizione locale del quotidiano La Repubblica del 19 marzo 2014;

-) avevano rivolto perciò al Comune di Firenze un’istanza ai sensi dell’art. 7 del codice della privacy al fine di esercitare il controllo che loro competeva, e dunque chiedendo la conferma dell’esistenza o meno di dati personali loro riferiti e, in caso di esistenza, la comunicazione dei medesimi, senza, tuttavia, che il Comune avesse dato riscontro all’istanza;

-) il comportamento omissivo del Comune induceva a ritenere vero quanto riferito dalla stampa nell’articolo citato e, dunque, l’effettuazione da parte del Comune di una raccolta illecita di dati personali sensibili, raccolta come tale fonte di risarcimento.

3. – Nel contraddittorio con il Comune, che ha resistito alla domanda, il Tribunale adito l’ha respinta ed ha osservato:

-) pur essendo vero che le attrici avevano avanzato l’istanza di cui all’art. 7 citato e che il Comune non vi aveva dato risposta, ciò non dimostrava l’effettuazione di una illegittima raccolta e tenuta di dati personali e sensibili riguardanti le attrici medesime;

-) l’istruttoria svolta aveva infatti smentito l’assunto di base, giacchè il giornalista autore dell’articolo già menzionato, sentito come teste, aveva ridimensionato quanto da detto articolo risultante, riferendo che nessuno dell’amministrazione comunale gli aveva effettivamente comunicato di una raccolta quale quella descritta nell’atto introduttivo del giudizio, trattandosi viceversa dell’identificazione su base statistica dei luoghi in cui veniva esercitata la mendicità, senza che detta mappatura consentisse di risalire al nome o ad altre caratteristiche individualizzati delle persone coinvolte.

4. – Per la cassazione della sentenza V.E., V.E. e V.F. hanno proposto ricorso per quattro mezzi.

5. – Il Comune di Firenze ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso contiene tre motivi.

1.1. – Il primo mezzo denuncia violazione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, artt. 7, 8 e 146 nonchè violazione dell’art. 112 c.p.c. per infrapetizione.

La tesi delle ricorrenti si riassume in ciò, che:

-) da un lato, il giudice, a fronte dell’accertamento della violazione dell’obbligo di riscontrare l’istanza inoltrata al Comune, di cui si è detto in espositiva, avrebbe “omesso di pronunciarsi sulle relative domande svolte dalle ricorrenti, ed ha solo utilizzato tale circostanza ai fini della compensazione delle spese”;

-) dall’altro lato del Tribunale avrebbe errato nel sostenere che le domande svolte dalle ricorrenti “postulano tutte il fatto che il Comune di Firenze abbia illegittimamente raccolto e ottenuto dati personali sensibili che riguardassero dette ricorrenti”, giacchè, al contrario, le ricorrenti avevano lamentato che non fosse stato dato riscontro all’istanza già ricordata, nè giudizialmente” nè stragiudizialmente, con conseguente domanda di accertare e dichiarare l’inadempimento degli obblighi dettati dalle disposizioni richiamate in rubrica, condannare il Comune all’adempimento, con le pronunce conseguenziali e la fissazione di una penale ex art. 614 bis c.p.c., oltre ai danni.

1.2. – Il secondo mezzo denuncia violazione degli artt. 210,245 e 257 c.p.c., nonchè dell’art. 2697 c.p.c. e del principio di vicinanza della prova da esso sancito.

Secondo le ricorrenti, il Tribunale avrebbe dovuto alternativamente procedere come segue: “o si consente al ricorrente di assolvere detto onere ammettendo le proprie richieste, o si sposta tale onere sul soggetto che ha nella sua immediata disponibilità il fatto da provare secondo il principio di vicinanza della prova”, il tutto riferito al fatto che il Tribunale non aveva ammesso l’interrogatorio formale del sindaco, l’audizione a teste dell’allora capo della polizia municipale, l’ordine di esibizione del materiale raccolto dal giornalista per il proprio articolo, la richiesta di sentire ex art. 257 c.p.c. taluni testi di riferimento.

1.3. – Il terzo mezzo denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, avendo il Tribunale “omesso di esaminare quanto emerso dalla testimonianza del teste F.”, ed in particolare la circostanza che il Comune fosse in possesso di dati relativi alla disabilità dei mendicanti.

2. – Il ricorso va respinto.

2.1. – E’ in parte manifestamente infondato ed in parte inammissibile il primo motivo.

2.1.1. – Il motivo è manifestamente infondato laddove lamenta la violazione degli artt. 7,8 e 146 del codice della privacy.

L’art. 7 del codice della privacy, nel testo antecedente all’abrogazione disposta dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, stabiliva che l’interessato avesse diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardassero. Egli, senza formalità particolari, poteva così accedere a tutte le informazioni relative, anche al fine di verificare se un trattamento dei dati fosse effettivamente in atto o meno, fatta eccezione per particolari dati, sui quali non mette conto soffermarsi, per i quali era possibile solo una segnalazione al Garante, dati attinenti a materie governate da un’esigenza di bilanciamento tra finalità di pubblico interesse, di sicurezza pubblica o di giustizia e la tutela privata delle ragioni individuali. A seguito della richiesta di accesso, il titolare del trattamento dati (o il responsabile) era tenuto a fornire “idoneo riscontro senza ritardo”, ai sensi dell’art. 8, comma 1, del codice della privacy, come all’epoca vigente: sul che questa Corte ha a suo tempo affermato che il termine andava fissato in 15 giorni (Cass. 9 gennaio 2013, n. 349).

Una volta decorso detto termine, la previsione normativa consentiva all’interessato di assumere le iniziative previste, rivolgendosi al Garante ovvero al giudice ordinario, nel che l’inosservanza dell’obbligo di fornire “idoneo riscontro” rimaneva evidentemente assorbito, giacchè il responsabile poteva in quella sede fornire il riscontro mancato in precedenza. Sicchè, come si premetteva, è manifestamente infondato l’assunto del ricorrente secondo cui il giudice avrebbe dovuto dichiarare l’inadempimento degli obblighi dettati dalle disposizioni richiamate in rubrica, con le ulteriori pronunce richieste.

Viceversa, una volta constatato che l'”idoneo riscontro” non era stato fornito, il giudice doveva verificare se dati personali concernenti le attrici vi fossero o no. E ciò è quanto il Tribunale ha fatto, giacchè, posto che il Comune ha recisamente negato l’esistenza di dati personali concernenti le attrici, e più in generale di un database dei mendicanti, contenente il loro nome, così dando riscontro in sede giudiziale all’istanza conoscitiva delle attrici, ha in breve osservato che l’esistenza di un simile database era totalmente privo di prova, avendo in buona sostanza il giornalista che aveva propalato la notizia ampiamente ridimensionato il contenuto di essa.

2.1.2. – Il motivo è poi inammissibile laddove lamenta la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c..

In sede di legittimità occorre tenere distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda, o la pronuncia su domanda non proposta dal caso in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa: solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c. per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale. Nel caso in cui venga invece in contestazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un tipico accertamento in fatto, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (Cass. 20 agosto 2002, n. 12259; Cass. 5 agosto 2005, n. 16596; Cass. 7 luglio 2006, n. 15603; Cass. 18 maggio 2012, n. 7932).

Nel caso in esame, la censura mira per l’appunto a sostenere che il Tribunale avrebbe errato nel ritenere che le originarie ricorrenti avessero inteso dolersi esclusivamente dell’esistenza di un database dei mendicanti tenuto dal Comune di Firenze, ipoteticamente contenente i loro nomi: ma tale è la domanda che il Tribunale ha ritenuto proposta, e ad essa ha risposto,, affermando che l’esistenza di tale database era carente di prova.

2.2. – E’ inammissibile il secondo motivo.

L’iniziativa giudiziaria delle attrici è scaturita, come si è detto, da un articolo giornalistico in cui si dava conto di un database dei mendicanti tenuto dal Comune di Firenze, sicchè il giudice ha sentito come teste il giornalista, il quale gli ha riferito che in realtà le cose stavano diversamente, e che cioè si trattava non di una schedatura, bensì di nient’altro che della individuazione dei luoghi di stazionamento dei mendicanti, senza nominativo alcuno.

A fronte di ciò le ricorrenti lamentano che, al fine di provare il fatto costitutivo della domanda, non sia stato ammesso l’interrogatorio formale del sindaco (dal corpo del motivo non si sa su quale capitolo), la testimonianza dell’allora capo della polizia municipale (dal corpo del motivo non si sa su quali capitoli), l’ordine di esibizione del materiale raccolto dal giornalista per il proprio articolo (dal corpo del motivo non si sa quale materiale), la richiesta di sentire testi di riferimento (dal corpo del motivo non si sa chi e su che cosa).

Ma è cosa nota che il giudice di merito non è tenuto a respingere espressamente e motivatamente le richieste di tutti i mezzi istruttori avanzate dalle parti qualora nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, insindacabili in sede di legittimità, ritenga sufficientemente istruito il processo. Al riguardo la superfluità dei mezzi non ammessi può implicitamente dedursi dal complesso delle argomentazioni contenute nella sentenza (Cass. 12 luglio 2005, n. 14611). Inutile dire poi che l’assunzione della testimonianza di riferimento è potere discrezionale del giudice di merito (Cass. 11 febbraio 2020, n. 3144).

Nel caso in esame è di tutta evidenza che il giudice ha ritenuto la causa sufficientemente istruita, visto che proprio colui il quale aveva dato la notizia del database, ne aveva poi ridotto la portata nei termini già indicati, essendo conseguentemente del tutto implausibile che gli approfondimenti istruttori (di contenuto peraltro come si è visto del tutto vago) potessero condurre ad alcunchè di utile.

2.3. – E’ inammissibile il terzo motivo.

Esso non ha ad oggetto un fatto storico decisivo e controverso (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053), ma l’omessa considerazione di una testimonianza: testimonianza che peraltro il Tribunale ha considerato, trattandosi della testimonianza del giornalista sulla base della quale ha deciso la causa.

Dopodichè, anche a voler ritenere che la testimonianza, nell’economia del motivo, sia solo un mezzo per l’individuazione del fatto decisivo e controverso, è evidentemente arduo individuare qualcosa come un fatto storico nell’affermazione del testimone: “Non ricordo chi mi parlò delle disabilità, confermo che fu una delle persone che incontrai quella mattina… nell’ufficio dei vigili”. Ed ancor più arduo è capire cosa possano mai avere a che fare le attrici, che non risulta neppure allegato siano disabili, con il tema – in tal modo ventilato alla lontana dal teste – della disabilità: sicchè rimane totalmente oscuro il profilo, che alle ricorrenti competeva di illustrare, della decisività della circostanza.

4. – Le spese seguono la soccombenza. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2021

 

 

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