Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14358 del 08/07/2020

Cassazione civile sez. I, 08/07/2020, (ud. 23/06/2020, dep. 08/07/2020), n.14358

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

C.J., alias C.J., rappr. e dif. dall’avv. Antonio

Gregorace, antoniogregoraceordineavvocatiroma.org, elett. dom.

presso lo studio dello stesso in Roma, via della Giuliana n. 32,

come da procura spillata in calce all’atto;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappr. e dif.

ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui Uffici è

domiciliato, in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

per la cassazione del decreto Trib. Roma 14.1.2019, cron. 457/2019,

in R.G. 33349/2018;

udita la relazione della causa svolta dal Consigliere relatore Dott.

Ferro Massimo, alla camera di consiglio del 23 giugno 2020.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

1. C.A., alias C.J., impugna il decreto Trib. Roma 14.1.2019, cron. 457/2019, in R.G. 33349/2018 che ne ha rigettato il ricorso avverso il provvedimento della competente Commissione territoriale (notificato il 18.4.2018), la quale aveva escluso i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e altresì quella umanitaria con concessione del permesso di soggiorno;

2. il tribunale, premesso che il giudizio ha per oggetto il diritto soggettivo del ricorrente alla protezione invocata e ciò assorbendo ogni profilo di eventuale nullità del provvedimento amministrativo, ha così: a) rilevato la non credibilità del narrato del richiedente, giunto in Italia in giugno 2016, con prospettazione di un espatrio per impedimenti all’esercizio in (OMISSIS) della fede (OMISSIS), contraddittoriamente esposta e non suffragata da alcun riscontro di analoga persecuzione secondo le fonti consultate, circostanza non chiarita in sede di audizione giudiziale; b) ritenuto l’assenza di una situazione persecutoria rilevante sotto il profilo sensibile di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8 mancando connessione con gruppi di appartenenza o affiliazione politica; c) apprezzata l’estraneità di quanto comunque riferito alla qualificazione dei danni gravi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 anche per l’assenza di un riscontro individualizzante; d) negato la sussistenza di un conflitto generalizzato nel Paese di provenienza; e) negato il diritto alla protezione umanitaria, stante l’insufficiente integrazione sociale e comunque la mancata prova di uno stato di vulnerabilità, null’altro avendo allegato il ricorrente;

3. il ricorso descrive sei motivi di censura (pur diversamente numerati), cui resiste con controricorso il Ministero dell’Interno.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che:

1. con il primo motivo si contesta l’omessa pronuncia sulla richiesta di CTU medico-legale sulle condizioni di salute del ricorrente conseguenti ai fatti aggressivi subiti nel Paese di provenienza; con il secondo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 2 e art. 13, comma 7 per omesso esame, da parte del tribunale, della mancata traduzione nella lingua del ricorrente ((OMISSIS)) o in altra veicolare del provvedimento della commissione territoriale, contenendo solo la relata di notifica in inglese l’impiego nella fase amministrativa della lingua veicolare; con il terzo motivo si deduce la violazione della Direttiva 2004/83/CE, così censurando l’omesso dovere di cooperazione istruttoria in tema di condizioni di vulnerabilità del richiedente; con il quarto motivo si contesta l’omesso esame delle fonti accreditate sulla situazione in (OMISSIS); con il quinto motivo si censura l’omessa concessione della protezione sussidiaria stante la situazione nel Paese di provenienza; con il sesto motivo si contesta la omessa concessione della protezione umanitaria, che s’imporrebbe alla luce dei fatti esposti e con il rischio in caso di rimpatrio, anche deducendo l’omessa attivazione istruttoria officiosa;

2. il primo motivo è inammissibile, limitandosi esso, al di là della configurazione redazionale (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ad invocare il fatto in sè dell’omessa pronuncia del tribunale sull’istanza di nomina del C.T.U. medico-legale, senza dar conto sia del criterio ordinante gerarchico con cui, ritenuta la non credibilità del narrato in capo al ricorrente, il tribunale ha implicitamente negato anche le condizioni di un approfondimento di circostanze – quali lo stato di salute attuale – dubitato di relazione diretta con il pregresso, non convincente; dall’altro lato, non trattandosi di controversia che di per sè, per il suo contenuto, richieda una consulenza tecnica, proprio la ricostruzione motivata dell’apprezzamento del giudice di merito sulla complessiva inattendibilità del narrato esclude si sia in presenza di motivazione apparente, non risultando perciò superati i limiti ora posti al relativo vizio dalla novella dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e tratteggiati da Cass. s.u. 8053/2014; si può conclusivamente ribadire che “quando il giudice disponga di elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza, sufficienti a dar conto della decisione adottata, non può essere censurato il mancato esercizio di quel potere” a disporre la C.T.U. (Cass. 72/2011);

3. il secondo motivo è inammissibile; analogamente alla fattispecie decisa da altro precedente (Cass. 16470/2019), anche nella presente vicenda si può ripetere che “il ricorrente allega che il provvedimento della Commissione territoriale non sarebbe stato tradotto per intero nella cd. lingua veicolare, ma non lo riporta neanche per stralcio, con conseguente difetto di specificità del motivo”; mentre va dato seguito al principio ivi espresso per cui “la comunicazione della decisione negativa della Commissione territoriale competente, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5, deve essere resa nella lingua indicata dallo straniero richiedente o, se non sia possibile, in una delle quattro lingue veicolari (inglese, francese, spagnolo o arabo, secondo l’indicazione di preferenza), determinando la relativa mancanza l’invalidità del provvedimento; tale vizio, tuttavia, analogamente alle altre nullità riguardanti la violazione delle prescrizioni inderogabili in tema di traduzione, può essere fatto valere solo in sede di opposizione all’atto che da tale violazione sia affetto, ivi compresa l’opposizione tardiva, qualora il rispetto del termine di legge sia stato reso impossibile proprio dalla nullità”; nella specie, nemmeno consta che la omessa traduzione abbia inciso sulla tempestività della prima impugnazione e sulle possibilità di difesa espletate avanti al tribunale stesso nel chiedere il pieno esame dei presupposti di accesso ad ogni forma di protezione internazionale;

4. va inoltre sottolineato che la disposizione invocata non appare appropriata, laddove equipara due situazioni affatto diverse, come puntualizzato da Cass. 30105/2018 laddove ha statuito che “è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.P.R. n. 303 del 2004, art. 4 (vigente “ratione temporis”), D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 e art. 702 bis c.p.c. nonchè della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5 in relazione agli artt. 3,24 e 10 Cost. ed all’art. 6 Cedu, per le diverse conseguenze derivanti dalla mancata traduzione del provvedimento della Commissione territoriale rispetto a quelle derivanti dalla mancata traduzione del decreto di espulsione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, poichè, nel primo caso, il disposto del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 9, oggi D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis – che richiede una statuizione di merito in ordine alla spettanza o meno del diritto alla protezione internazionale, senza prevedere una decisione di mero annullamento del provvedimento negativo della Commissione territoriale – si giustifica poichè la rimozione di tale atto non è idonea ad incidere sulla situazione giuridica sostanziale del richiedente protezione, mentre, nel secondo caso, l’annullamento del provvedimento di espulsione di per sè ripristina il diritto sostanziale dell’espellendo illegittimamente inciso, così realizzando il suo interesse protetto ponendo termine al processo. E, inoltre, infondato il richiamo all’art. 24 Cost. e art. 6 Cedu poichè il diritto ad un equo processo risulta garantito pienamente, al pari di quello dell’espellendo, mediante la possibilità per il richiedente di adire il giudice e così dispiegare compiutamente ogni sua difesa nell’ambito del processo”; il che dà conto della correttezza della statuizione del tribunale che ha rimarcato l’assorbimento, anche in questo senso, dei vizi del procedimento amministrativo nella doverosa disamina, invero condotta, sui presupposti del diritto soggettivo alla protezione internazionale e non sulla mera legittimità dell’atto della citata commissione territoriale;

4.i motivi dal terzo al quinto, da affrontare unitariamente per l’intima connessione, sono complessivamente inammissibili; va invero ripetuto che “il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, trova applicazione tanto con riguardo alla domanda volta al riconoscimento dello “status” di rifugiato, tanto con riguardo alla domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, in ciascuna delle ipotesi contemplate dall’art. 14 stesso D.Lgs., con la conseguenza che, ove detto vaglio abbia esito negativo, l’autorità incaricata di esaminare la domanda non deve procedere ad alcun ulteriore approfondimento istruttorio officioso, neppure concernente la situazione del Paese di origine” (Cass.15794/2019); peraltro la valutazione sulla omessa prospettata individualizzazione di pericoli o gravi rischi, quale esplicitamente enunciata dal tribunale, non è avversata in modo specifico, nè sono allegate possibili specifiche circostanze di pericoli o gravi rischi che sarebbero connessi al rimpatrio, così individualizzando i requisiti di protezione in relazione alla situazione del Paese di provenienza; il ricorso omette di riportare in quali termini eventuali diverse circostanze siano state ritualmente, tempestivamente e con puntualità rappresentativa introdotte avanti al giudice di merito, così impedendo – in questa sede e dato il loro richiamo generico effettuato con il ricorso in cassazione – ogni controllo di trascuratezza, pur negli stretti limiti della verifica di legittimità sulla motivazione; ciò vale per la presunta discriminazione o persecuzione religiosa che avrebbe riguardato l’espatrio del richiedente, circostanza confutata dal tribunale e non idoneamente contestata;

5. va altresì ricordato, sul punto, che l’obbligo di acquisizione delle informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti e ai motivi svolti nella richiesta di protezione internazionale, “non potendo per contro il cittadino straniero lamentarsi della mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi riferita a circostanze non tempestivamente e ritualmente dedotte, ai fini del riconoscimento della protezione” (cfr. Cass. n. 30105 del 2018, in motivazione, ribadita dalle più recenti Cass. n. 9842 del 2019, nonchè Cass. 1532 e 1533 del 2020); il tribunale ha infatti condotto, con apprezzamento di merito insindacabile in questa sede alla luce degli stringenti limiti di censurabilità della motivazione (Cass. s.u. 8053/2014), una verifica sui presupposti delle tipologie di protezione oggetto di domanda;

6. così come, si aggiunge, non ha comunque trovato alcuna censura la motivata indicazione di insussistenza, nel Paese di riferimento, di conflitto armato, per gli effetti di tutela D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c) stante l’insufficiente prospettazione dei danni a livello dei requisiti di cui alle lettere a) e b) art. cit. e il mero richiamo a fonti diverse da quelle esplicitate dal tribunale; si può ribadire che “ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia” (Cass. 18306/2019);

7. La censura sul diniego di protezione umanitaria, per quanto alfine ripresa nel sesto motivo, è inammissibile, dovendosi ripetere, con Cass. 23778/2019 (pur sulla scia di Cass. 4455/2018), che “occorre il riscontro di “seri motivi” (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale, mediante una valutazione comparata della vita privata e familiare del richiedente in Italia e nel Paese di origine, che faccia emergere un’effettiva ed incolmabile sproporzione nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, da correlare però alla specifica vicenda personale del richiedente… altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 cit., art. 5, comma 6″; si tratta di principio ribadito da Cass. s.u. 29460/2019, facendo qui difetto i termini oggettivi di un’effettiva comparabilità, al fine di censire la vulnerabilità del ricorrente, negata dal tribunale, che ha escluso, per la insufficienza e genericità dei richiami offerti, la rilevanza più specifica di altri fattori; si tratta di prospettazione tanto più necessaria a fronte della perentoria valutazione d’irrilevanza operata dal decreto; l’odierna censura è così inammissibile per genericità e perchè si risolve in un vizio di motivazione, oltre però il limite del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

8. sul punto, va invero aggiunto che “la ritenuta inattendibilità del richiedente la protezione rende comunque impossibile una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass. 1088/2020, 780/2019, 25075/2017);

il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con condanna alle spese secondo la regola della soccombenza e liquidazione come meglio in dispositivo; sussistono i presupposti processuali per il cd. raddoppio del contributo unificato (Cass. s.u. 4315/2020).

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente alle spese del procedimento, liquidate in Euro 2.100, oltre alle spese prenotate a debito; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2020

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