Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1435 del 25/01/2021

Cassazione civile sez. II, 25/01/2021, (ud. 10/09/2020, dep. 25/01/2021), n.1435

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4188/2016 proposto da:

P.D., rappresentato e difeso in proprio, ed elettivamente

domiciliato in USMATE-VELATE, VIA VENEZIA 15;

– ricorrente –

contro

U.A., rappresentato e difeso dall’Avvocato MARCHESETTI

ROBERTA, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv.

Alessia Ciprotti, in ROMA, V.le GIULIO CESARE 14;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4443/2014 della CORTE d’APPELLO di MILANO,

depositata il 10/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10/09/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 522/2010, depositata in data 9.2.2010, il Tribunale di Monza respingeva la domanda proposta dall’avv. P.D. nei confronti dell’ex cliente U.A. per il pagamento della somma complessiva di Euro 6.763,19, che l’attore asseriva dovuta per prestazioni professionali a suo tempo svolte.

Il Tribunale basava la propria decisione sulla ritenuta fondatezza dell’eccezione di prescrizione presuntiva ex art. 2956 c.c. e art. 2957 c.c., comma 2 (risalendo le prestazioni svolte agli anni 1999-2000) e sul rigetto della domanda di cancellazione di frasi sconvenienti e offensive avanzata dal convenuto ex art. 89 c.p.c. (sul rilievo che tali frasi risulterebbero correlate al diritto di difesa e continenti).

Avverso detta sentenza proponeva appello l’avv. P., lamentando che il primo Giudice sarebbe incorso in errore, non avendo rilevato l’inammissibilità dell’eccezione di prescrizione presuntiva sollevata dal convenuto debitore, che aveva contestato “integralmente, in fatto e in diritto la richiesta avversaria” e che non aveva affermato di aver pagato quanto richiestogli, rendendo così impraticabile il giuramento decisorio, il cui mancato deferimento il Tribunale aveva pure richiamato a sostegno del rigetto delle pretese attoree. L’appellante chiedeva la riforma della sentenza impugnata, il rigetto dell’eccezione di prescrizione presuntiva e la condanna dell’appellato al pagamento della somma già indicata, oltre accessori e spese.

Si costituiva in giudizio l’appellato, insistendo

preliminarmente per la cancellazione ex art. 89 c.p.c., delle espressioni offensive e sconvenienti riproposte in sede di appello e per la condanna dell’appellante al risarcimento del danno così subito; nel merito, chiedeva il rigetto dell’appello, nonchè, in via di appello incidentale, la riforma della sentenza del Tribunale in punto di spese, con la condanna dell’avv. P. alla loro integrale rifusione.

Con sentenza n. 4443/2014, depositata in data 10.12.2014, la Corte d’Appello di Milano rigettava l’appello principale e, in parziale accoglimento dell’appello incidentale, condannava l’avv. P. a rifondere ad U.A. le spese di entrambi i gradi del giudizio.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione l’avv. P. sulla base di quattro motivi e con “formulzione del giuramento decisorio”; resiste U.A. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione all’art. 166 c.p.c. e artt. 2954 c.c. e segg.. Sulla natura della prescrizione presuntiva in relazione ai rapporti regolati da rapporto scritto, e quindi se sia applicabile ai mandati professionali assistiti da prova scritta, in questo caso da procura alle liti”.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrete eccepisce la “Violazione art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione all’art. 166 c.p.c. e artt. 2659 c.c. e segg.. Se l’eccezione di prescrizione presuntiva sia ammissibile qualora il debitore non dichiari espressamente di aver pagato e di aver pagato esattamente quanto richiesto”. Osserva il ricorrente che nella comparsa di costituzione il convenuto non aveva affermato di aver pagato e di aver pagato esattamente quanto preteso dal creditore, ma si era limitato a rilevare il lungo tempo trascorso dal termine delle prestazioni professionali, risalenti agli anni 1999-2000. Tali omissioni, a detta del ricorrente, renderebbero inammissibile l’eccezione di prescrizione presuntiva.

1.3. – Con il terzo motivo, il ricorrente richiede “Il deferimento del giuramento decisorio. Violazione art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Se la genericità della contestazione possa valere a formulare il capitolo di prova per il deferimento del giuramento decisorio: vero che la somma richiesta dall’avv. P. è stata pagata dal sig. U.A., sebbene mai abbia dichiarato di averla pagata”.

2. – In considerazione della loro connessione logico-giuridica e la analoga modalità di formulazione, i motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

2.1. – I motivi stessi non possono trovare accoglimento.

2.2. – In primo luogo (quanto alla loro inammissibilità), va rilevato che, in materia di ricorso per cassazione, l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce ragione d’inammissibilità quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass. n. 6734 del 2020; Cass. n. 26790 del 2018).

Pertanto, nella formulazione del motivo di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei ed incompatibili, facenti riferimento (come nella specie) alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione e la analisi di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto (che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma) e quello del vizio di motivazione (che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione) (cfr. anche Cass. n. 26874 del 2018; conf. Cass. n. 19443 del 2011).

Ma anche a voler ritenere ammissibile il ricorso, il quale cumuli in un unico motivo le censure di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, allorchè esso comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (cfr. Cass. sez. un. 9100 del 2015; Cass. n. 8915 del 2018), la ragione di inammissibilità, nella specie, va ravvisata nella mancata specificità del profilo riguardante l’asserito vizio di violazione e falsa applicazione di legge, così come riferito congiuntamente a plurime disposizioni del codoce civile.

2.3. – Ciò premesso, va infatti rilevato (con riguardo sempre al profilo attinente alla censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa. Viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie).

Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Risulta, quindi, inammissibile la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della mera indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Ciò in quanto, il controllo affidato alla Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014).

2.4. – Quanto poi al profilo attinente alle censure riferite alla violazione del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 10 dicembre 2014) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente – con riguardo e nei limiti della richiamata peculiare ampiezza dell’ambito decisionale del giudizio di rinvio – avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è alcuna idonea e spcifica indicazione.

2.5. – Viceversa, dal canto loro, così come articolate, le censure di violazione di legge si risolvono sostanzialmente nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte, così mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Rilievo, questo, reso altresì ancor più evidente in considerazione della formulazione delle richieste avanzate dal ricorrente a questa Corte (svolte nelle intestazioni dei motivi) di dare essa risposta ai dubbi riguardanti, testualmente: la “natura della prescrizione presuntiva in relazione ai rapporti regolati da rapporto scritto, e quindi se sia applicabile ai mandati professionali assistiti da prova scritta, in questo caso da procura alle liti” (primo motivo); “se l’eccezione di prescrizione presuntiva sia ammissibile qualora il debitore non dichiari espressamente di aver pagato e di aver pagato esattamente quanto richiesto” (secondo motivo); “se la genericità della contestazione possa valere a formulare il capitolo di prova per il deferimento del giuramento decisorio: vero che la somma richiesta dall’avv. P. è stata pagata dal sig. U.A., sebbene mai abbia dichiarato di averla pagata” (terzo motivo). Ciò appalesando un ulteriore profilo di mancata specificità dei motivi stessi.

3. – Peraltro, in secondo luogo, questa Corte ha chiarito che la prescrizione presuntiva ha natura e disciplina radicalmente diversa rispetto alla prescrizione estintiva (Cass. n. 8735 del 2014). Quest’ultima viene definita alla stregua di una vicenda estintiva del diritto che consegue al mancato esercizio del diritto stesso per un determinato periodo di tempo e cioè al fine di perseguire l’insopprimibile esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici. La prescrizione presuntiva (o impropria) invece ha tutt’altra struttura e finalità, in quanto essa muove dalla presunzione che un determinato credito, data la sua particolare natura, sia stato pagato, o che si sia comunque estinto per effetto di una qualche causa: vi sono infatti alcuni rapporti della vita quotidiana nei quali l’estinzione del debito avviene di regola contestualmente all’esecuzione della prestazione ovvero non molto tempo dopo. In sintesi la prescrizione presuntiva può definirsi una presunzione legale iuris tantum con limitata possibilità di prova contraria (artt. 2059 e 2060 c.c.).

La prescrizione estintiva e la prescrizione presuntiva sono, dunque, ontologicamente differenti, logicamente incompatibili e fondate su fatti diversi, in quanto elementi costitutivi della prima sono il decorso del tempo e l’inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio che estinguono il debito, sicchè il debitore può giovarsene, liberandosi dalla pretesa, sia che contesti l’esistenza del credito sia che ammetta di non aver adempiuto l’obbligazione; mentre la seconda è fondata su una presunzione iuris tantum, ovvero mista, di avvenuto pagamento del debito, esponendosi colui che la oppone al suo rigetto non solo se ammette di non aver estinto l’obbligazione ma anche se ne contesta la stessa insorgenza (Cass. 3443 del 2005).

Poste tali premesse, è pertanto ben diverso l’onere probatorio posto a carico rispettivamente del debitore e del creditore nell’ambito della prescrizione presuntiva. Ed invero, in tema di prescrizione presuntiva, mentre il debitore, eccipiente, è tenuto a provare il decorso del termine previsto dalla legge, il creditore ha l’onere di dimostrare la mancata soddisfazione del credito, e tale prova può essere fornita soltanto con il deferimento del giuramento decisorio, ovvero avvalendosi dell’ammissione, fatta in giudizio dallo stesso debitore, che l’obbligazione non è stata estinta (Cass. n. 785 del 1998).

3.1. – Orbene, rispetto alle censure riportate dai motivi (chiarito che la prescrizione presuntiva dei crediti dei professionisti, sancita dall’art. 2956 c.c., n. 2, si fonda sulla natura del contratto d’opera intellettuale, nel quale l’adempimento del cliente suole avvenire senza dilazione e senza quietanza scritta: Cass. n. 13144 del 2015), va rilevato che, proprio in forza dell’invocata prescrizione presuntiva, la prova risulta essere stata, dai giudici di merito, legittimamente posta a carico del professionista, il quale ai sensi dell’art. 2960 c.c., avrebbe potuto deferire giuramento per accertare se si fosse verificata l’estinzione del debito (giuramento decisorio che, peraltro, non può ora trovare ingresso nel giudizio di cassazione, neppure allo scopo che la causa venga rinviata al giudice del merito per l’ammissione e l’espletamento del giuramento non deferito nella fase istruttoria: Cass. n. 8998 del 2001; Cass. n. 434 del 1994).

Nè, d’altra parte, ricorre nella fattispecie l’ipotesi di cui all’art. 2959 c.c., in quanto, come hanno giustamente ritenuto i giudici di merito (con adeguenta e coerente argomentazione, non soggetta al vaglio di legittimità), il convenuto non aveva comunque ammesso in giudizio che l’obbligazione non fosse stata estinta, mancando al riguardo un qualsiasi elemento da cui dedurre tale circostanza.

4. – Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, ex “art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 (la) violazione di legge e degli artt. 91 e 92 c.p.c. e della Tariffa D.M. n. 55 del 2014”, giacchè, tenuto conto del valore modesto della causa (Euro 4.853,14), anche applicando i valori medi si sarebbe ottenuto un importo inferiore alla richiesta accolta dalla Corte di merito.

4.1. – Il motivo è inammissibile.

4.2. – Tale richiesta non configura un autonomo motivo di ricorso in cassazione (e, come tale, non può essere considerata nel merito e trattata in rito), ma risulta costituire, nei termini in cui è stata prospettata, una pretesa meramente consequenziale all’accoglimento dei giudizi di merito e del presente di legittimità.

5. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 1.500,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2021

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