Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14348 del 14/07/2016


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Cassazione civile sez. III, 14/07/2016, (ud. 07/04/2016, dep. 14/07/2016), n.14348

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10455-2013 proposto da:

COMUNE DI OTRANTO, (OMISSIS) in persona del Sindaco p.t.

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL PODERE DI S. GIUSTO 158,

presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA PICCHIONI, rappresentato e

difeso dall’avvocato VINCENZO STEFANO giusta procura speciale in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.M.G., M.M., M.L., B.

M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA COSSERIA, presso lo

studio dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentati e difesi

dall’avvocato PIETRO QUINTO;

– controricorrente –

e contro

V.P., REGIONE PUGLIA, S.M.;

– intimati –

nonchè da:

V.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA E.Q. VISCONTI

99, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BATTISTA CONTE, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARIO BUCELLO,

SIMONA VIOLA giusta procura speciale a margine del controricorso e

ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

COMUNE DI OTRANTO (OMISSIS), M.L., B.M., D.

M.G., M.M., REGIONE PUGLIA, S.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 81/2013 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 28/01/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/04/2016 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito l’Avvocato STEFANO VINCENZO;

udito l’Avvocato PAOLO MIGLIACCIO per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con atto di citazione del 15 febbraio 2001 M.L., M. M., V.P., S.M., B.M. e D.M. G. convenivano davanti al Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Maglie, il Comune di Otranto, esponendo di esserne stati incaricati con delibera del 22 luglio 1997 di redigere il progetto definitivo del porto turistico, e che pertanto M. L., in proprio e quale capogruppo del Raggruppamento professionale, sottoscriveva convenzione di incarico professionale col Comune; avevano dunque realizzato il progetto, che il Comune approvava con delibera del 5 settembre 1997. Peraltro, il Tar di Lecce, con sentenza del 18 novembre 1997 – poi confermata dal Consiglio di Stato con sentenza del 26 gennaio 1999 -, annullava il bando di gara e quindi la delibera di affidamento dell’incarico al raggruppamento, cui il Comune non pagava l’opera. Chiedevano perciò la condanna del Comune a pagar loro la somma di Euro 394.686.845 quale corrispettivo professionale e, in subordine, la sua condanna a pagare un’indennità per arricchimento senza causa.

Il Comune di Otranto si costituiva all’udienza di prima comparizione, resistendo. In particolare, eccepiva difetto di competenza del Tribunale per clausola compromissoria ravvisabile nell’art. 12 della convenzione e attinente alle controversie riguardanti i compensi;

inoltre chiedeva di chiamare in causa la Regione Puglia quale reale legittimata passiva. Adduceva pure inadempimento contrattuale e mancato utilizzo del progetto.

Il Tribunale autorizzava la chiamata in causa della Regione, la quale, costituendosi, eccepiva la tardività della chiamata stessa e comunque la propria estraneità ai fatti.

Con sentenza del 31 maggio 2005 il Tribunale dichiarava la propria incompetenza per clausola arbitrale. Contro questa sentenza proponevano appello M.L., M.M., B.M. e D.M.G.; contro di essa proponeva appello anche V. P. in altra causa, poi riunita a quella dei suddetti appellanti.

Si costituivano resistendo il Comune e la Regione. Con ordinanza del 4 aprile 2007 il contraddittorio fu integrato nei confronti del S., che rimase contumace.

Con sentenza non definitiva 7 ottobre-20 dicembre 2010 la Corte d’appello di Lecce si dichiarò competente, ritenendo nulla, in conseguenza dell’annullamento del bando, la clausola compromissoria, e ritenendo formato un giudicato implicito sulla giurisdizione come questione antecedente alla competenza; decideva quindi di procedere nel merito, per cui, con separata ordinanza resa in pari data, disponeva c.t.u. Le parti costituite, tranne la Regione Puglia, all’udienza seguente si riservavano di impugnare la sentenza.

Con sentenza definitiva del 6 dicembre 2012-28 gennaio 2013, la Corte d’appello dichiarava inammissibile per tardività la chiamata in causa della Regione, condannando il Comune rifonderle le spese di entrambi gradi, e altresì condannava il Comune a pagare al raggruppamento, quale indennizzo ex art. 2041 c.c., la somma di Euro 118.785 oltre accessori, e a rifondere a esso le spese di entrambi gradi nella misura di due terzi, compensando il residuo terzo.

2. Ha presentato ricorso il Comune di Otranto, sia contro la sentenza non definitiva che contro la sentenza definitiva.

Riguardo alla sentenza non definitiva, il ricorrente propone tre motivi: il primo denunciante violazione e falsa applicazione dell’art. 808 c.p.c., il secondo violazione e falsa applicazione dell’art. 37 c.p.c. e il terzo violazione e falsa applicazione degli art. 24 Cost., artt. 329, 342, 345 e 354 c.p.c..

Riguardo alla sentenza definitiva, il ricorrente presenta quattro motivi: il primo denunciante violazione e falsa applicazione dell’art. 269 c.p.c., il secondo violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., il terzo violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame di fatto decisivo e discusso, e il quarto violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c..

Si difendono con controricorso M.L., M.M., B.M. e D.M.G., chiedendo che sia dichiarato inammissibile e, in subordine, che sia rigettato.

Si difende con controricorso anche V.P., che presenta pure ricorso incidentale articolato su tre motivi, il primo denunciante violazione e falsa applicazione di norme per avere il giudice d’appello respinto la domanda di pagamento del corrispettivo contrattuale, il secondo denunciante vizio motivazionale in rapporto alle conclusioni della c.t.u. e il terzo denunciante motivazione contraddittoria sul fatto controverso e decisivo attinente alla decorrenza del calcolo dell’indennità per l’arricchimento senza causa.

Il ricorrente incidentale ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso del Comune di Otranto è infondato.

3.1 In primo luogo devono essere esaminati i motivi proposti avverso la sentenza non definitiva.

3.1.1 Il primo motivo lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 808 c.p.c..

Rileva il ricorrente che la clausola compromissoria costituisce un contratto ad effetti processuali a sè stante, anche quando è inserita nell’atto contenente il contratto cui attengono le controversie che ne sono oggetto. Quindi tra i due contratti, “data la loro autonoma funzione, non sussiste tecnicamente un rapporto d’accessorietà”, come espressamente riconosce l’art. 808, comma 3, (il ricorrente fa riferimento alla norma – antecedente alla riforma di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e ratione temporis applicabile nel caso di specie che stabilisce: “La validità della clausola compromissoria deve essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce; tuttavia, il potere di stipulare il contratto comprende il potere di convenire la clausola compromissoria”). Da ciò deriverebbe che, nel caso in cui sia contestata la validità del contratto in cui la clausola compromissoria è inserita e altresì nel caso in cui viene contestata la validità della clausola compromissoria, la decisione spetta agli arbitri. La giurisprudenza di legittimità invocata dalla corte territoriale, cioè Cass., sez. 1, 8 febbraio 2005 n. 2529 –

per cui le cause di invalidità esterne al negozio e comuni a esso, come appunto la nullità dell’atto di aggiudicazione, investono anche la clausola compromissoria -, violerebbe l’art. 808 c.p.c. se fosse applicata nel caso in esame.

Il giudice d’appello ha seguito effettivamente l’insegnamento di questa Suprema Corte nell’arresto sopra citato, il quale da un lato riconosce che la clausola compromissoria non integra un accessorio del contratto in cui è inserita, perchè è dotata di una propria individualità e autonomia rispetto a tale contratto, con evidente conseguenza della non estensione delle cause di invalidità del contratto alla clausola compromissoria. Logicamente, peraltro, non può qualificarsi contagio di causa di invalidità del contratto alla clausola compromissoria l’incidenza di una causa di invalidità che non ha radici nel contratto, bensì esterne ad esso, e sulla base di tale sua natura esterna investe tanto il contratto quanto la clausola compromissoria. Ciò, infatti, non viene a ledere l’autonomia della clausola di compromissoria dal contratto in cui è inserita, poichè i due negozi mantengono il loro parallelismo, che peraltro non può svincolarli da una comune subornazione a quell’elemento esterno che apporta ad entrambi invalidità. E questo in effetti riconosce la pronuncia sopra citata, che applica il principio a un’ipotesi di atto di aggiudicazione di appalto pubblico affermando che la invalidità dell’atto di aggiudicazione dell’appalto di un servizio pubblico, la quale esclude che l’amministrazione potesse legittimamente stipulare il contratto con l’apparente aggiudicatario, e perciò inserire nello stesso una clausola compromissoria, determina la invalidità anche di questa.

E in modo correttamente conforme a quanto appena rilevato, dunque, la corte territoriale ha deciso, aderendo alla prospettazione degli appellanti che avevano appunto dedotto che, “nella peculiare fattispecie che vede a monte della conclusione del contratto una procedura di evidenza pubblica annullata dal Giudice Amministrativo con sentenza passata in giudicato”, l’invalidità della procedura di evidenza pubblica si è riflessa “su tutti gli atti negoziali successivamente stipulati che hanno avuto come presupposto i provvedimenti amministrativi caducati”: e nel caso in esame la causa di invalidità si colloca “nell’invalidità dell’atto di aggiudicazione, la quale esclude che l’amministrazione possa legittimamente stipulare il contratto con l’apparente aggiudicatario, e per ciò stesso posta nel medesimo inserire una clausola compromissoria”.

Il motivo dunque non è fondato.

3.1.2 Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 37 c.p.c.. Il ricorrente Comune avrebbe, come risulterebbe dagli atti, “sempre ritenuto” che la questione rientri nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi della L. n. 205 del 2000, art. 6; e il giudice d’appello, che ha richiamato i principi di economia processuale e di ragionevole durata, non avrebbe potuto comunque desumerne l’esonero dall’obbligo di rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione, pur in mancanza di appello incidentale al riguardo.

Tenta il ricorrente di schivare uno dei più celebri e rilevanti interventi del giudice nomofilattico dell’ultimo decennio, che ha colto la diretta incidenza dei principi costituzionali di conformazione del processo in ragionevole celerità e in parimenti ragionevole limitazione del suo oggetto, così sostanzialmente venendo a sradicare un uso distorto – anche su stimolo di parte – del potere ufficioso del giudice (S.U. 9 ottobre 2008 n. 24883, così massimata: “L’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (“asse portante della nuova lettura della norma”), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 c.p.c. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice decidere il merito “per saltum”, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito.”); intervento che, in forza del suo peculiare spessore, ha immediatamente conformato il diritto vivente (ex multis, v. tra le successive pronunce sulla stessa linea S.U. 27 ottobre 2008 n. 257703, S.U. 30 ottobre 2008 n. 26019, S.U. 18 novembre 2008 n. 27344, S.U. 20 novembre 2008 n. 27351, S.U. 18 dicembre 2008 n. 29523 e S.U. 23 aprile 2009 n. 9661). Del tutto condivisibile, quindi, risulta il rilievo di formazione, nel caso in esame di giudicato implicito sulla giurisdizione operato dal giudice d’appello nella sentenza impugnata, con conseguente infondatezza del motivo.

3.1.3 Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli art. 24 Cost., artt. 329, 342, 345 e 354 c.p.c., adducendo che, “pronunciandosi sulla competenza”, la corte territoriale “non solo ha statuito la competenza del giudice ordinario, stante l’invalidità della clausola compromissoria, ma ha ritenuto essa stessa competente per la decisione”, in tal modo violando il principio devolutivo e il diritto di difesa ex art. 24 Cost. spettante al Comune, per non avergli consentito di esaminare compiutamente il merito davanti al giudice di primo grado, al quale avrebbe dovuto rimettere la causa per consentire una completa istruttoria.

Questo motivo non ha pregio, dal momento che – a tacer d’altro – una volta adito, il giudice d’appello deve giudicare nel merito se non ricorrono i casi, tassativamente previsti, di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c.: erroneo diniego di giurisdizione da parte del giudice di primo grado, dichiarazione di nullità della notificazione della citazione, accertamento della mancata integrazione del contraddittorio nel giudizio di primo grado o dell’erronea estromissione di una parte, sentenza non sottoscritta dal giudice, erronea dichiarazione di estinzione del giudizio di primo grado (sulla impossibilità di regresso al di fuori dei suddetti casi cfr.

da ultimo, ex multis, Cass. sez.1, 5 febbraio 2016 n. 2302, Cass. sez. 1, 21 settembre 2015 n. 19578, Cass. sez.6-3 ord. 2 luglio 2015 n. 13623 e Cass sez 1, 18 giugno 2014 n. 13907).

3.2 Devono ora essere esaminati i quattro motivi proposti contro la sentenza definitiva.

3.2.1 Di questi, il primo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 269 c.p.c..

Adduce il ricorrente che il giudice di prime cure ha ritenuto legittima la chiamata in causa della Regione Puglia, autorizzandola –

per cui la chiamata, essendo stata effettuata su sua autorizzazione, sarebbe divenuta effettivamente legittima -, nonostante avesse il potere di rilevare d’ufficio la tardività della relativa istanza (in effetti il Comune si era costituito all’udienza di comparizione, anzichè i 20 giorni prima necessari alla tempestività della sua costituzione come convenuto). Nella sua sentenza, poi, evidenzia il ricorrente che il Tribunale non esaminò la questione, che fu riproposta come eccezione al giudice d’appello: erroneamente, quindi, quest’ultimo avrebbe riaperto una questione risolta appunto dal primo giudice col suo provvedimento autorizzativo ex art. 269 c.p.c..

Il motivo non presenta fondatezza, in quanto si fonda su un preteso potere sanatorio della violazione dell’art. 269 c.p.c. che sarebbe insito nell’autorizzazione di chiamata tardiva da parte del giudice di primo grado: e ciò mentre lo stesso ricorrente riconosce che la chiamata ai sensi di tale norma non rientra nel potere dispositivo delle parti, laddove ammette che il giudice ha il potere di rilevare la tardività dell’istanza anche d’ufficio. Non è sostenibile che il giudice possa sanare il vizio processuale, considerato che il rilievo d’ufficio è oggetto di un potere-dovere, quel che non rientra nel potere dispositivo delle parti non essendo affatto trasferito in una sorta di potere dispositivo – nel senso, appunto, di potere sanatorio – del giudice, al quale altrimenti si dovrebbe riconoscere, in contrasto con i principi basilari del sistema, una discrezionalità nell’applicazione della legge (sul rilievo d’ufficio della tardività della chiamata ex art. 106 c.p.c. cfr. da ultimo Cass. sez. 2, 14 maggio 2014 n. 10610; sull’estraneità ai poteri discrezionali del giudice istruttore dell’autorizzazione di una chiamata ex art. 106 c.p.c. che sia tardiva v. Cass. sez. 3, 6 luglio 2006 n. 15362 – per cui rientra nei poteri discrezionali del giudice istruttore soltanto autorizzare o non autorizzare la chiamata in causa, ma non anche autorizzare la chiamata tardiva – e Cass. sez. 3, 24 aprile 2008 n. 10682).

3.2.2 Il secondo motivo proposto contro la sentenza definitiva lamenta violazione e falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c. per avere il giudice d’appello condannato il ricorrente a rifondere alla Regione Puglia le spese di entrambi i gradi. Ad avviso del ricorrente, invece, non vi era alcuna sua soccombenza, essendosi il giudice d’appello limitato all’accertamento della legittimità o meno della chiamata in causa della Regione.

Il motivo si mostra manifestamente infondato, dal momento che la soccombenza nel rapporto processuale tra le parti non sorge soltanto nel caso in cui il giudice giunga a decidere nel merito l’oggetto del rapporto processuale suddetto, ma discende anche dall’accertamento da parte del giudice della violazione delle norme di rito in tale rapporto, com’è avvenuto nel caso di specie, nel quale il giudice ha accertato l’irrituale instaurazione del rapporto.

3.2.3 Il terzo motivo proposto contro la sentenza definitiva denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omesso esame di fatto decisivo e discusso.

In primo luogo, nel motivo si adduce che il giudice d’appello si sarebbe contraddetto: dopo aver ritenuto, al fine di respingere la domanda fondata sul contratto, che l’annullamento dell’atto di aggiudicazione aveva travolto gli atti consequenziali, ha invece attribuito validità come atto che riconobbe l’utilità del progetto la delibera del 5 settembre 1997 n. 530 della Giunta Comunale, delibera che anch’essa doveva ritenersi travolta.

A ciò dovrebbe aggiungersi, secondo il ricorrente, che il Comune aveva sempre addotto la presenza di carenze progettuali nell’opera del raggruppamento attoreo, tali da renderlo irrealizzabile: ma il giudice d’appello non avrebbe concesso su questo aspetto alcun approfondimento, e avrebbe determinato equitativamente l’indennizzo affidandosi in toto alla suddetta delibera. A questo punto il motivo richiama, per espletare quell’approfondimento che sostiene necessario, la c.t.u. disposta dalla stessa corte territoriale, giungendo a concludere che quest’ultima avrebbe quantificato un indennizzo irrealistico, e lamentando che l’unico spazio che sarebbe stato concesso alla difesa del ricorrente sarebbero state le osservazioni del suo consulente di parte, non considerate però dal c.t.u. Quindi la quantificazione operata dalla Corte d’appello “deve essere disattesa, in quanto non corrispondente alla realtà dei fatti”. E ancora, la corte avrebbe dovuto accertare l’utilità anche al di fuori del procedimento amministrativo, ma su ciò avrebbe omesso ogni esame, pur trattandosi di un punto decisivo; e in nessun grado è stata espletata l’istruttoria chiesta dal Comune ricorrente.

Deve anzitutto rilevarsi che il motivo, può prospettato come denunciante di violazione e falsa applicazione di “norme di diritto”, non indica quali norme di diritto sarebbero state violate, cosi arrestandosi a un inammissibile livello generico. Inoltre, aggiunge a questa censura un’ulteriore doglianza di vizio motivazionale, peraltro, pur rubricata in modo conforme all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 vigente – e cioè come omesso esame di fatto decisivo e discusso -, non illustrata secondo tale prospettazione, bensì come contraddittorietà motivazionale, regredendo quindi, ancora inammissibilmente, al previgente mezzo di impugnazione.

Anche qualora si volesse poi considerare, nonostante le suddette ragioni di inammissibilità, la prima delle censure in cui il motivo si dispiega, sarebbe sufficiente rilevare che, mentre le delibere riguardanti direttamente il contratto erano logicamente e giuridicamente dipendenti dal bando poi annullato e quindi da questo annullamento non potevano non essere travolte, la delibera considerata soltanto ai fini del riconoscimento di utilità logicamente non è più, sotto questo aspetto, connessa logicamente al bando, perchè l’utilità ivi riconosciuta prescinde dal rapporto contrattuale, per cui non sarebbe ravvisabile alcuna contraddizione nella motivazione offerta dalla corte territoriale.

E per quanto riguarda le ulteriori doglianze sopra sintetizzate, sarebbe parimenti sufficiente osservare che per sostenere che l’indennizzo è eccessivo il motivo si avvale di argomenti fattuali o comunque di evidente inconsistenza, come laddove afferma che il giudice d’appello ha omesso di accertare l’utilità al di fuori del procedimento amministrativo: affermazione non veritiera proprio perchè la corte territoriale non ha considerato l’utilità rispetto al contratto in cui era sfociato il procedimento amministrativo e che era risultato poi illegittimo; nè d’altronde nel caso in esame il giudice d’appello avrebbe potuto prescindere da atti amministrativi del Comune, visto che a esso spettava il riconoscimento dell’utilitas secondo la giurisprudenza prevalente all’epoca della sentenza impugnata (la quale poneva come requisito dell’azione ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. non solo il fatto materiale della esecuzione di un’opera o di una prestazione vantaggiosa, ma pure il riconoscimento, espresso o tacito, da parte dell’ente della rispondenza di tale opera o prestazione alle proprie finalità istituzionali, riconoscimento che, per il suo intrinseco contenuto, era stato inteso come esplicazione di un potere discrezionale riservato appunto all’ente – cosi da ultimo Cass. sez. 1, 7 marzo 2014 n. 5397 e Cass. sez. 1, 18 aprile 2013 n. 9486 -), solo successivamente superata da un intervento delle Sezioni Unite (S.U. 26 maggio 2015 n. 10798, per cui non costituisce requisito dell’azione il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito onde, qualora quest’ultimo sia la P.A., il depauperato che agisce nei suoi confronti ha solo l’onere di provare l’arricchimento, e non anche il suo riconoscimento da parte della P.A., che potrà soltanto eccepire che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, ovvero fu un arricchimento imposto).

Tutto il motivo, quindi, non merita accoglimento.

3.2.4 Il quarto motivo proposto avverso la sentenza definitiva adduce violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c..

Sostiene il ricorrente che il giudice d’appello avrebbe omesso di motivare sul perchè ha compensato solo per un terzo le spese tra il Comune e gli attori, nonostante questi avessero chiesto una somma superiore a quella al cui pagamento il Comune è stato condannato, cioè Euro 203.838,74. Inoltre il ricorrente non avrebbe potuto articolare compiutamente le sue difese sulle carenze del progetto redatto dal raggruppamento professionale, per cui, in ultima analisi, sarebbe stato violato ai suoi danni il principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c..

Il motivo nega quindi il rispetto del principio della soccombenza per essere stata la compensazione delle spese limitata dalla corte territoriale a un terzo, e vi aggiunge, pur non avendolo inserito nella rubrica, un preteso vizio motivazionale che è, a tacer d’altro, inammissibile trattandosi di questioni di diritto e non di accertamento di fatto. Compensando parzialmente il giudice non ha comunque violato gli artt. 91 e 92 c.p.c., la compensazione ex art. 92 c.p.c. essendo oggetto di un potere discrezionale del giudicante e la violazione dell’art. 91 c.p.c. (nel testo ratione temporis applicabile, cioè quello antecedente alla modifica introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 10) consistendo unicamente nell’imposizione, totale o parziale, delle spese a carico della parte completamente vittoriosa (ex multis, Cass. sez.3, 31 luglio 2006 n. 17450, Cass. sez. lav., 15 giugno 2006 n. 13783, Cass sez 1 8 settembre 2005 n. 17953, Cass. sez.3, 1 giugno 2004 n. 10478, Cass. sez. 3, 19 marzo 2004 n. 5606, Cass. sez.1, 28 novembre 2003 n. 17692, Cass. sez.1, 27 settembre 2002 n. 14023, Cass. sez.lav., 27 dicembre 1999 n. 14576; Cass. sez. lav., 23 novembre 1989 n. 5025;

Cass. sez. lav., 20 gennaio 1987 n. 473), salva naturalmente la condanna sanzionatoria resa legittima dal combinato disposto con l’art. 88 c.p.c. e art. 92 c.p.c., comma 1.

Quanto all’asserto che sarebbe stato violato il principio di soccombenza perchè il ricorrente non avrebbe potuto dimostrare sufficientemente le carenze del progetto, il ricorrente scende ancora una volta al piano fattuale, chiedendo al giudice di legittimità di valutare l’esistenza o meno di tali carenze, come già era stato – in ultima analisi – richiesto nella seconda parte del terzo motivo:

inammissibile è, pertanto, pure questo argomento.

Nessuno dei motivi presentati nel ricorso del Comune avverso le due sentenze del giudice d’appello risulta, in conclusione, fondato, per cui il ricorso deve essere rigettato.

4. Il ricorso incidentale proposto dal Viola si fonda, come si è visto nella sintesi sopra tracciata dello svolgimento del processo, su tre motivi.

4.1 Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, di “norme di diritto” per avere il giudice d’appello respinto la domanda di pagamento del corrispettivo contrattuale, non potendo influire invece la caducazione dell’aggiudicazione dell’opera. Sostiene il ricorrente che l’invalidità del contratto non può ledere i diritti acquisiti in buona fede del contraente nella sua esecuzione, in analogia con gli artt. 23 e 25 c.c., allo scopo richiamando giurisprudenza amministrativa per cui la caducazione del contratto incontrerebbe il duplice limite delle situazioni soggettive già consolidatesi in capo ai terzi fino alla domanda volta a far dichiarare l’inefficacia del contratto e delle prestazioni già eseguite nei contratti di durata.

Ne desume pertanto che nel disconoscimento del titolo ai compensi maturati durante l’esecuzione del contratto invalido sarebbe ravvisabile “la violazione del principio comunitario di tutela dell’affidamento”.

Il motivo non apporta reali fondamenti giuridici. Non sono affatto pertinenti, invero, gli artt. 23 e 25 c.c., e radicalmente generico è il riferimento ai principi comunitari: il motivo, in effetti, non presenta autosufficienza quanto alla individuazione delle norme che reputa violate. Parimenti, la questione in esame non ha nulla a che vedere con la tematica della inefficacia del contratto – trattandosi quindi nullità – o comunque con il contratto di durata – cui non era certo riconducibile il contratto, risultato nullo, di conferimento di un incarico di redazione di un determinato progetto. E comunque la tutela di chi ha adempiuto un contratto nullo è rinvenibile nel sistema del diritto nazionale, nelle modalità in cui la corte territoriale l’ha concessa, ovvero mediante lo specifico istituto di cui all’art. 2041 c.c., teleologicamente orientato appunto ad impedire un ingiusto depauperamento di chi viene a trovarsi in una situazione come quella prospettata dal ricorrente.

4.2 Il secondo motivo denuncia vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Secondo il ricorrente la corte territoriale “si è appiattita sulle errate conclusioni del c.t.u.” quanto al computo degli onorari professionali, mentre avrebbe dovuto valutare oggettivamente le risultanze istruttorie, anche disattendendo le conclusioni del consulente d’ufficio. Inoltre la corte non ha motivato sulle valutazioni del Consiglio dell’Ordine degli Ingegneri e sui criteri da quest’ultimo adottati.

Il motivo non ha consistenza. Esso infatti è chiaramente di natura fattuale ed è diretto ad ottenere dal giudice di legittimità una valutazione alternativa sul quantum della spettanza al ricorrente: il che lo conduce ad una evidente inammissibilità, per travalicamento dei confini della giurisdizione di legittimità.

4.3 Il terzo motivo denuncia motivazione contraddittoria in ordine a fatto controverso e decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere il giudice d’appello fatto decorrere il calcolo dell’indennizzo per arricchimento senza causa dal 1 ottobre 1997, anzichè dal giorno della consegna dell’opera (4 settembre 1997) o almeno dal giorno della delibera di approvazione del progetto (5 settembre 1997), compiendo in tal modo una scelta immotivata e contraddittoria con il resto della motivazione.

Si tratta di un motivo assolutamente generico nell’indicare la pretesa contraddittorietà con il residuo apparato motivazionale, contraddittorietà peraltro non denunciabile essendo applicabile l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel testo vigente. Per di più, non gode di adeguata autosufficienza, dal momento che non indica in quale atto sia stata trattata, antecedentemente al presente grado, la questione, ovvero quando sarebbero state poste in discussione le date diverse ora addotte per identificare il dies a quo per gli interessi dell’indennizzo: ne consegue non solo l’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (ex multis, da ultimo, Cass. sez. 2, 20 agosto 2015 n. 17049; Cass. sez.1, n. 19 agosto 2015 n. 16900; Cass. sez. 5, 15 luglio 2015 n. 14784; Cass. sez.6-3, ord. 3 febbraio 2015 n. 1926), ma altresì la constatazione che questo motivo introduce una questione nuova, il che lo inficia di un’ulteriore causa di inammissibilità (cfr. Cass. sez. 1, 18 ottobre 2013 n. 23675,Cass. sez. 1, 11 gennaio 2007 n. 324, Cass. sez. 3, 21 febbraio 2006 n. 3664, Cass. sez. 3, 10 maggio 2005 n. 9765, Cass. sez. 1, 14 maggio 2005 n. 10125; cfr. pure Cass. sez. 1, 15 luglio 2007 n. 15961 sugli elementi asseritamente pacifici; e sulla inammissibile introduzione nel grado di legittimità di novità fattuali, con correlata necessità di accertamento, da ultimo v., p.es., Cass. sez. 5, 11 novembre 2015 n. 23045 e Cass. sez. 2, 20 agosto 2015 n. 17409).

Anche il ricorso incidentale, dunque, deve essere rigettato.

In conclusione, il ricorso principale del Comune di Otranto deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione ai controricorrenti M.L., M.M., B.M. e D.M.G. delle spese processuali, liquidate come da dispositivo. Deve rigettarsi altresì il ricorso incidentale del V.. Vista la reciproca soccombenza tra di loro, si compensano le spese tra il Comune e il V..

Sussistono D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo.

PQM

Rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Condanna il Comune di Otranto a rifondere ai controricorrenti M.L., M.M., B.M. e D.M.G. le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 10.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre gli accessori di legge. Compensa le spese processuali del grado tra il Comune di Otranto e V.P..

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 7 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2016

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