Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14342 del 13/07/2016


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Cassazione civile sez. VI, 13/07/2016, (ud. 22/10/2015, dep. 13/07/2016), n.14342

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20241/2013 proposto da:

R.G., ((OMISSIS)) elettivamente domiciliato in

Roma, Via Alberico II 5, presso lo studio dell’avvocato ETTORE

TRAVARELLI, che lo rappresenta e difende, come da procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITALE, (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 5318/2013 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il

11/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/10/2015 dal Consigliere Ippolisto Parziale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. R.G. impugna la sentenza n. 5318/13 (RG. N. 61735/1l) resa dal Tribunale di Roma, pubblicata in data 11.3.13, non notificata, che ha dichiarato inammissibile il suo appello avverso la sentenza n. 104497 del 01.10.2009 depositata il 30.3.2011, con cui il Giudice di Pace di Roma accoglieva l’opposizione annullando il verbale n. (OMISSIS) e condannando il Comune di Roma alla spese processuali liquidate in totali Euro 75,00 oltre accessori di legge.

2. Il giudice unico del Tribunale di Roma rilevava che l’impugnazione era limitata al solo capo relativo alla liquidazione giudiziale delle spese, per “il mancato rispetto dei valuti numerari indicati nella tariffa professionale”.

Rilevava il giudicante, in primo luogo, che “la liquidazione, giudiziale era stata disposta ai sensi dell’art. 91 c.p.c., in applicazione del principio generale per cui le spese di giudizio sono poste a carico del soccombente”, con conseguente irrilevanza “di ogni deduzione in ordine alla carenza di motivazione sulla compensazione”.

Aggiungeva poi che “il potere del giudice d’appello di ridefinizione della liquidazione giudiziale presuppone che la pane indichi gli importi, nonchè le singole voci rientranti nei diritti e onorari, attraverso il deposito della nota spese”, rilevando che “la pane appellante, nonostante ne faccia riferimento nell’atto introduttivo, non produce alcuna nota spese e non specifica le voci egli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore”. Concludeva, quindi, il giudice dell’appello che “tale difetto vale a giustificare la statuizione di inammissibilità dell’appello, in ragione della inidoneità delle censure a consentire, comunque, la rideterminazione dei compensi professionale”.

3. Impugna tale decisione il R. che avanza due articolati motivi.

Nessuna attività in questa sede ha svolto la parte intimata. Parte ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I motivi del ricorso.

1.1 – Col primo motivo di ricorso si deduce: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, art. 92 c.p.c., comma 2, art. 118 dsip. att., comma 2, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, artt. 24 e 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – Violazione Tariffe Forensi vigenti, D.L. n. 223 del 2006 (c.d.

Decreto Bersani) conv. in L. n. 248 del 2006, art. 2, comma 2 – Erroneità dichiarazione di inammissibilità appello – Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione”.

Rileva il ricorrente di dover censurare, sotto un duplice profilo, la sentenza impugnata: a) nella parte in cui non è stata disposta l’integrazione delle spese liquidate in primo grado, in misura inadeguata e in via globale; b) per la dichiarata inammissibilità “in assenza di specifiche norme giuridiche comminanti tale devastante sanzione”.

In primo grado il giudice di pace aveva liquidato l’ammontare delle spese giudiziali (Euro 75,00) “in maniera assolutamente esigua (…) soprattutto alla luce delle all’epoca vigenti tariffe forarsi”, senza operare la necessaria distinzione tra “diritti e onorari di avvocato e le spese”, non consentendo così il controllo ex lege garantito.

Osserva il ricorrente che il giudice dell’appello ha così motivato:

“la parte appellante non produce alcuna nota spese e non specifica le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in onore … tale difetto vale a giustificare la statuizione di inammissibilità dell’appello, in ragione della inidoneità delle censure a consentire, comunque, la rideterminazione dei compensi professionali”. Osserva che, anche in assenza di nota spese, il giudice dell’appello avrebbe dovuto verificare la legittimità della liquidazione delle spese operata in primo grado, sia perchè effettuata globalmente, sia perchè effettuata al di sotto dei minimi tariffari, posto che, sulla base del primo scaglione di valore del tariffario forense all’epoca vigente (tabella A, Par.

2^, per le cause di esclusiva competenza funzionale del Giudice di pace), l’importo dovuto per gli onorari, liquidati al minimo, risulta superiore alla impugnata liquidazione di Euro 75,00 globali (considerando le voci necessariamente dovute, come studio della controversia, consultazioni con il cliente, preparazione e redazione dell’atto introduttivo del giudizio, assistenza a ciascuna udienza di trattazione, ecc). Inoltre tale verifica poteva essere agevolmente effettuata, posto che la causa era di natura prettamente documentale e la controversia si è conclusa immediatamente, al termine della prima udienza. Il giudice dell’appello disponeva quindi di tutti gli elementi per poter valutare il contento dell’appello e la correttezza della liquidazione operata. Non era, quindi, necessario per l’appellante ulteriormente specificare le censure oltre quanto già esposto.

Osserva poi il ricorrente che è stato violato la L. n. 248 del 2006, art. 2, comma 2, che prevede che “Il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio sulla base della tariffa professionale” (che non prevede un importo così esiguo a titolo di onorari, diritti e spese). Aggiunge che il giudice dell’appello non ha tenuto conto dei chiari orientamenti giurisprudenziali che prevedono l’obbligo del giudice di liquidare le spettanze anche in assenza di notula (Cass. 7 ottobre 2009, n. 21371), di non scendere al di sotto dei minimi tariffari (Cass. 20971/10, 13168/11, 13139/11) e di non procedere ad una liquidazione globale. In definitiva, osserva il ricorrente che il giudice del gravame era in possesso degli strumenti utili previsti dalla legge per ricavare quanto è necessario, non potendo così sanzionare con la dichiarata inammissibilità il gravame in questione. In ogni caso il ricorrente, nell’atto di appello, “ha precisamente e specificamente evidenziato gli elementi essenziali per la rideterminazione del compenso dovuto al professionista forense in re ipsa nel dettaglio delle norme ritenute violate – art. 91 c.p.c., comma 1, art. 92 c.p.c., comma 2, art. 118 disp. att., comma 2, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 111 Cost., tariffe forensi vigenti, di n. 223/2006 (cd. decreto Bersani) conv. in L. n. 248 del 2006, art. 2, comma 2 – da cui era inevitabile per il giudice del gravame riconoscere l’avvenuta violazione e porvi subito rimedia semplicemente applicando – in mancanza di nota spese – anche ai minimi ma non in misura inferiore, il primo scaglione di valore per le cause di competenza esclusiva del giudice di pace, tariffario forense ex D.M. n. 127 del 2004, tabella A, par. 2^, senza che all’uopo servisse o fosse funzionale alcuna osservazione e specificazione ulteriore da parte del ricorrente, considerato che il giudice è chiamato a dare applicazione alla legge. nel caso di specie al combinato del D.M. n. 127 del 2004, e alla L. n. 248 del 2006, art. 2, comma 2”. Aggiunge che “alcuna norma giuridica prevede che l’appellante, quando lamenti la violazione dei minimi tariffari, specifichi analiticamente gli importi non calcolati o erroneamente calcolati”.

Osserva il ricorrente ancora che “è solo con la L. 7 agosto 2012, n. 134, (successiva quindi all’introduzione della causa in esame) che l’atto di appello, legato all’esposizione sommaria dei fatti ed a motivi specifici è tramontato”. Quindi, osserva il ricorrente che “prima era richiesta l’esposizione sommaria dei fatti. mentre post novella bisogna indicare esattamente al giudice le parti appellate e le modifiche richieste: non va indicato solo quello che non va, ma anche come dovrebbe andare”. Tali principi e norme non si applicano al giudizio in questione. Richiama l’orientamento di questa Corte (Cass. n. 8067/11), secondo cui l’appello “è inammissibile quando la censura non fornisce al giudice d’appello sufficienti elementi per poter accertare la conformità degli importi liquidati al tariffario ed eventualmente rideterminare il compenso dovuto all’avvocato”. Nel caso concreto, sarebbe stato sufficiente individuare l’importo dovuto, anche calcolandolo al minimo del tariffario all’epoca vigente, per verificare l’inadeguatezza della liquidazione in primo grado.

Espone di seguito le voci liquidabili come segue, formulando due ipotesi.

“Ipotesi 1): Tariffe Forensi, Tabella A, Onorari Giudiziali, Paragrafi 1, Cause avanti ai giudici di pace, per l’intero giudizio fino al valore di Euro 600,00, applicando il Valore Minimo: Tot. Euro 55,00; Tabella 13, Diritti di Avvocato, fino al valore di Euro 600,00, posizione e archivio Euro 23,00, disamina Euro 6,00, domanda introduttiva del giudizio Euro 23,00, autentica firma Euro 6,00, iscrizione causa a ruolo Euro 6,00, formazione fascicolo e compilazione indice Euro 6,00, partecipazione ad udienza e precisazione delle conclusioni Euro 23,00, consultazioni con il cliente Euro 23,00, scritturazione facciata Euro 5,16 e fotocopiatura facciata 9,10 (Del Consiglio Ordine del 20.9.2000), esame decreto fissazione udienza Euro 6,00, vacazioni Euro 15,00, collazione scritti 7,00: tot. Euro 158,26;

Ipotesi 2): Tariffe Forensi, Tabella A, Onorari Giudiziali paragrafi 2, cause riservate alla esclusiva competenza funzionale del giudice di pace, valore del giudizio fino a Euro 5.200,00, applicando il Valore Minimo: Studio della controversia Euro 80,00, consultazioni con il cliente Euro 40,00, preparazione e redazione atto introduttivo Euro 70,00, assistenza ad udienza di trattazione e 25,00; Tot Euro 215,00”.

Rileva il ricorrente che “in entrambi i casi il calcolo effettivo degli importi dovuti alla parte vittoriosa avrebbe condotto ad una liquidazione complessiva a titolo di onorari e competenze (senza ancora aver calcolato le spese), di Euro 273,26 oppure nella seconda ipotesi (quella, ritentiamo, più corretta) di Euro 373,26, entrambe di oltre il triplo o il quintuplo superiori alla avvenuta illegittima liquidazione di Euro 75,00 complessivi”.

Rileva poi il ricorrente che, quanto alla tariffa forense da applicare “in presenza della successione avvenuta in data 23.8.12 con l’avvento dei Nuovi Parametri Forensi ai sensi del D.M. N. 140112”, la Corte di cassazione ha già affermato la “necessarietà dell’applicazione della previgente tara (ovvero sia quella del D.M. n. 127 del 2004) in casi del tutto analoghi alla presente fattispecie, considerando sostanzialmente che: malgrado l’entrata in vigore del dl 212/11 riformatore degli artt. 82 e 91 c.p.c. – i quali prevedono rispettivamente da una parte l’incremento di valore sino ad Euro 1.100,00 per le cause in ad le parti possono stare in giudizio personalmente, e dall’altra che in queste cause le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possano superare il valore della domanda; e nonostante l’evidente natura processuale delle disposizioni appena citate, le stesse non possono trovare applicazione alla controversia in esame avente ad oggetto la censura sulla quantificazione delle spese, cioè la liquidazione al di sotto dei minimi tariffari, poichè in tali casi prevale senza alcun minimo dubbio il principio dell’appello come revisio prioris istantiae, con la conseguenza che, essendo già stato in primo grado applicato il criterio della soccombenza, dovranno essere applicate le tariffe vigenti ration temporis (in virtù dell’altro principio tempus regit actum) al momento della decisione del (giudice di prime cure”.

1.2 – Col secondo motivo si deduce: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, art. 92 c.p.c., comma 2, e dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5”.

La decisione del giudice di pace di Roma, nonostante l’accoglimento dell’opposizione e, quindi, l’annullamento del provvedimento impugnato, risulta “solo in astratto favorevole per l’odierno ricorrente poichè, a causa della esigua liquidazione delle spese in primo grado, e la successiva contraddittoria condanna alle spese del (grado di appello, l’iniziativa giudiziaria rischia di rivelarsi particolarmente antieconomica”.

2. Il ricorso è fondato e va accolto.

Il giudice dell’appello ha errato nel dichiarare inammissibile l’impugnazione.

Occorre osservare, infatti, che, nella sostanza, l’odierno ricorrente si era doluto con l’appello dell’evidente inadeguatezza della liquidazione delle spese operata dal primo giudice, effettuata globalmente e palesemente al di sotto dei minimi tariffari applicabili. Proprio l’evidenza di tali doglianze consentiva all’appellante di prospettare le censure in termini sintetici, senza ulteriormente dettagliare le attività svolte, avendo sufficientemente descritto nello svolgimento del processo (risultante comunque dagli atti), le attività che necessariamente erano state espletate per giungere alla pronuncia della sentenza di primo grado.

Aveva poi l’appellante fornito tutte le indicazioni necessarie per individuare il valore della causa, risultando la selezione della tariffa professionale applicabile (e dei relativi importi quanto meno nella loro misura minima) agevolmente attuabile attraverso il tipo di controversia e le date di inizio c di fine del giudizio. Nè era necessario depositare una nota spese, che avrebbe invece imposto al giudice di operare l’ulteriore analitico esame di tutte le voci esposte.

In definitiva, il giudice d’appello, a fronte di censure che in sintesi indicavano la liquidazione effettuata al di sotto dei minimi e in modo largamente insufficiente, avrebbe dovuto verificare se, applicando i minimi inderogabili alle attività necessariamente svolte per l’espletamento della causa, sussistesse o meno la violazione indicata. In caso di verifica positiva (cioè di violazione dei minimi inderogabili) e in assenza di notula avrebbe poi dovuto il giudice dell’appello procedere ad una liquidazione secondo tariffa e con riguardo alle attività effettivamente e necessariamente svolte con esclusione di tutte le altre non documentate.

3. La sentenza impugnata va quindi cassata con rinvio ad altro magistrato del tribunale di Roma che si atterrà, nella liquidazione delle spese ai principi su indicati, e procederà anche alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altro magistrato del tribunale di Roma.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 22 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2016

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