Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14329 del 08/06/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 08/06/2017, (ud. 04/04/2017, dep.08/06/2017),  n. 14329

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO MAURO – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12282-2016 proposto da:

M.F., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della

Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avv. GIUSEPPE

FIORELLA e VINCENZO TOSCANO giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

MO.LU., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FONTI DEL

CLITUNNO 25, presso lo studio dell’avvocato FERNANDO AMODIO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIA SPANO’ in virtù

di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5644/2015 del TRIBUNALE di MILANO, depositata

il 06/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/04/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Nel 2001 M.F. e Mo.Lu., all’epoca legati da una relazione sentimentale, acquistavano in comunione e pro indiviso un immobile in (OMISSIS), per il cui acquisto si rese necessario anche contrarre un mutuo.

Inoltre, poichè l’immobile era al rustico furono necessari svariati lavori al fine di renderlo abitabile, ed a tal fine gli acquirenti accesero un conto corrente cointestato dal quale trarre i fondi per sostenere le spese necessarie.

Terminati e lavori e cessata la convivenza a seguito dell’allontanamento della Mo. dall’abitazione, quest’ultima evocava in giudizio il M. al fine di procedere allo. scioglimento della comunione

Il convenuto nel costituirsi in giudizio aderiva alla domanda di divisione, ed in via riconvenzionale chiedeva la restituzione degli importi dal medesimo anticipati con somme prelevate dal conto corrente cointestato, e necessari per le spese suddette. Modificata la domanda riconvenzionale con la memoria del 15/9/2006, il Tribunale di Milano con la sentenza n. 6471/2011, passata in cosa giudicata, disponeva lo scioglimento della comunione attribuendone la piena proprietà al M., ponendo a carico del medesimo il pagamento del conguaglio pari alla metà del valore del bene; calcolava l’indennità dovuta dal convenuto per il godimento esclusivo del bene al netto della quota delle rate di mutuo integralmente versate dallo stesso M., dichiarando il non luogo a provvedere sulla domanda riconvenzionale relativa alla somme anticipate per l’acquisto, la ristrutturazione e l’arredo dell’abitazione, proposta con la suddetta memoria in maniera subordinata all’ipotesi in cui al M. fosse stata attribuita una quota inferiore al 50 % della proprietà del bene.

Con successivo atto di citazione il M. conveniva in giudizio la Mo. al fine di ottenere la condanna della stessa al pagamento delle somme a suo tempo anticipate in via esclusiva per l’acquisto, la ristrutturazione e l’arredo del detto immobile a titolo di arricchimento sena causa.

La convenuta eccepiva l’inammissibilità della domanda in ragione del giudicato già intervenuto tra le parti.

Il Tribunale di Milano con la sentenza n. 5644 del 6 maggio 2015 accoglieva l’eccezione di improponibilità della domanda, ritenendo che la pronuncia n. 6471/2011 precludesse la riproposizione delle richieste oggetto della seconda domanda di parte attrice, attesa l’identità dei fatti storici posti a sostegno della due istanze.

La pronuncia sulla divisione del bene concerneva ogni rapporto nascente dalla comunione e quindi includeva negli effetti del giudicato anche quelli addotti a sostegno della pretesa dell’attore.

Avverso tale sentenza proponeva appello il M., e la Corte d’Appello di Milano con ordinanza del 9 marzo 2016, comunicata in pari data dichiarava inammissibile l’appello ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., ritenendo infondato sia il motivo di gravame con il quale la parte si doleva della mancata concessione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6 sia quello con il quale si contestava l’esistenza di un giudicato sulla domanda proposta con il nuovo atto di citazione, ritenendo quindi che l’appello non avesse ragionevoli probabilità di accoglimento.

M.F. ha proposto ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Milano sulla base di due motivi.

Mo.Lu. ha resistito con controricorso.

Preliminarmente occorre dare atto della tempestività del ricorso, posto che, essendo stata comunicata l’ordinanza della Corte di Appello di Milano, adottata ex art. 348 ter c.p.c., lo stesso giorno del suo deposito (9/3/2016), il ricorso inoltrato per la notifica in data 9/5/2016 è tempestivo, tenuto conto che la scadenza del sessantesimo giorno dalla stessa pubblicazione del provvedimento cadeva l’8 maggio, giorno festivo, con il conseguente differimento al giorno feriale successivo.

Occorre altresì disattendere l’eccezione di inammissibilità sollevata da parte controricorrente sul presupposto che l’ordinanza adottata dalla Corte d’Appello avrebbe carattere di decisorietà e contenuto tale da imporne la ricorribilità in quanto avente carattere sostanziale di sentenza.

Rileva il Collegio che la decisione della Corte d’Appello si è limitata a fornire la valutazione prognostica circa la non ragionevole probabilità di accoglimento del gravame, compiendo una valutazione di merito, conformemente alle finalità dell’istituto di cui all’art. 348 bis c.p.c., senza eccedere rispetto ai limiti che l’ordinamento ha assegnato a tale provvedimento.

Ne consegue che, alla luce anche di quanto ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte della pronuncia n. 1914/2016, correttamente la parte ha proposto ricorso avverso la sentenza del giudice di primo grado.

Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Lamenta la parte ricorrete che la sentenza sarebbe nulla ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 per la violazione degli artt. 112, 113, 115, 183 e 187 c.p.c., nonchè degli artt. 24 e 111 Cost., e lamenta altresì l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Deduce che nel corso del giudizio di primo grado aveva richiesto la concessione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, e che tale richiesta era stata disattesa dal Tribunale, il quale aveva invitato le parti a precisare le conclusioni.

Aggiunge che la Corte d’Appello, dinanzi alla quale era stato avanzato un motivo di appello volto a lamentare tale violazione processuale, aveva disatteso lo stesso affermando erroneamente che non emergeva dai verbali di causa che la parte in realtà avesse avanzato tale istanza, neppure menzionata nel foglio di conclusioni in primo grado, laddove la lettura del verbale dell’udienza del 26/6/2012 denota senza equivoci che la difesa del ricorrente aveva avanzato una siffatta richiesta.

Ritiene il Collegio che le doglianze siano prive di fondamento e che a tal fine debba farsi richiamo a quanto di recente sostenuto da questa Corte nella pronuncia n. 4767/2016, la cui massima recita che: “In forza del combinato disposto dell’art. 187 c.p.c., comma 1, e dell’art. 80-bis disp. att. c.p.c., in sede di udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione della causa ex art. 183 c.p.c., la richiesta della parte di concessione di termine ai sensi del comma 6 di detto articolo non preclude al giudice di esercitare il potere di invitare le parti a precisare le conclusioni ed assegnare la causa in decisione, atteso che, ogni diversa interpretazione delle norme suddette, comportando il rischio di richieste puramente strumentali, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo, oltre che con il “favor” legislativo per una decisione immediata della causa desumibile dall’art. 189 c.p.c.”.

Accanto a tale considerazione occorre altresì evidenziare che la mancata concessione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, non determina un vizio processuale (e la conseguente nullità della sentenza), se non nei casi in cui da tale mancata concessione sia conseguita in concreto una lesione del diritto di difesa della parte istante, la quale pertanto, laddove denunzi un tale vizio, deve allegare il pregiudizio che gliene sia derivato, essendo altrimenti la relativa eccezione inammissibile per difetto d’interesse, e deve in particolare specificare quale sarebbe stato il “thema decidendum” sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare ove fossero stati concessi i termini richiesti, e quali prove sarebbero state dedotte (cfr., in tal senso, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6343 del 21 marzo 2011; conf.: Sez. 3, Sentenza n. 23162 del 31 ottobre 2014; Sez. 2, Sentenza n. 17436 del 19 agosto 2011; Sez. 1, Sentenza n. 9169 del 9 aprile 2008).

Il motivo di ricorso in esame è del tutto carente sotto i profili indicati, e pertanto non è scrutinabile, in quanto, sebbene documenti di avere richiesto all’udienza di trattazione la concessione dei termini in questione, non deduce nè dimostra di avere reiterato la richiesta in sede di precisazione delle conclusioni, non chiarisce quali prove avrebbe richiesto laddove fossero stati concessi i termini, onde consentire la verifica dell’eventuale effettivo pregiudizio concreto derivante dalla dedotta violazione.

Il secondo motivo di ricorso risulta invece in parte manifestamente fondato.

Lamenta infatti il ricorrente la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113 c.p.c. e art. 2909 c.c., in quanto la sentenza impugnata avrebbe ravvisato l’esistenza di un giudicato preclusivo della riproposizione della domanda, in presenza di un giudicato di carattere meramente formale, con il quale il giudice precedentemente adito si era limitato a dichiarare l’improponibilità della domanda riconvenzionale a suo tempo proposta, astenendosi da una decisione nel merito.

Effettivamente, come emerge pacificamente dalle allegazioni di entrambe le parti, nonchè dal tenore della sentenza gravata, nel giudizio di divisione intrapreso dalla Mo., il M. aveva proposto una domanda riconvenzionale volta ad ottenere la restituzione della somme anticipate tratte dal conto corrente cointestato, dal quale erano state prelevate le risorse per il pagamento delle finiture dell’immobile nonchè delle rate di mutuo.

Nella successiva memoria autorizzata del 15 settembre 2006, il convenuto aveva espressamente subordinato l’accoglimento della riconvenzionale all’ipotesi in cui, all’esito della divisione, avesse ricevuto una quota dell’immobile inferiore al 50 %.

In sede di conclusioni aveva nuovamente richiesto la condanna dell’attrice alla restituzione delle somme de quibus.

Il Tribunale di Milano con la sentenza n. 6471/2011, passata in cosa giudicata, ha ritenuto che la domanda in oggetto andava valutata nella sua formulazione scaturente dalle modifiche avvenute con la memoria del 2006, sicchè la proposizione non più condizionata, avvenuta in sede di conclusioni era da reputarsi inammissibile.

Valutando quindi la richiesta come definitivamente avanzata per effetto delle modifiche di cui all’art. 183 c.p.c., comma 5 (norma applicabile ratione temporis al primo giudizio), e tenuto conto che per effetto della divisione al M. era stato attribuito il bene per intero, ha ritenuto che ricorressero le condizioni per una pronuncia di non luogo a provvedere, essendosi specificato che la richiesta non meritava, prima ancora che accoglimento, attenzione decisoria.

Emerge evidente la volontà del Tribunale inizialmente adito di astenersi dal pronunziare sul merito della domanda, avendo ritenuto ostativo alla decisione il fatto che non si era avverata la condizione alla quale lo stesso convenuto aveva subordinato la domanda riconvenzionale, in tal senso modificando la volontà così come manifestata nella comparsa di risposta.

Trattasi però di una pronuncia di carattere esclusivamente processuale e che ancorchè passata in cosa giudicata, ha efficacia di solo giudicato formale, non precludendo la riproponibilità della domanda stessa in un nuovo giudizio, essendo la sua efficacia limitata al solo rapporto processuale nel quale è stata pronunciata (in termini Cass. n. 26377/14; Cass. n. 15383/2014).

Ed invero, in disparte l’erroneità dell’affermazione secondo cui le richieste avanzate dall’attore costituirebbero il presupposto logico giuridico della domanda di divisione proposta in via principale nel giudizio del quale si invoca l’efficacia preclusiva della pronuncia passata in cosa giudicata (palesandosi evidente l’autonomia tra la domanda di divisione e quella proposta dal M., che trae invece origine da vicende personali dei condividenti), è pur sempre necessario che sia intervenuta una pronuncia nel merito, e non anche una manifesta volontà del giudice di astenersi dal pronunciare sul fondo.

Ne consegue che erroneamente è stata invocata l’efficacia del giudicato formatosi in precedenza nel successivo giudizio intrapreso da parte del ricorrente, sebbene si imponga una precisazione.

Ed, infatti, la pretesa, giustificata nel giudizio oggetto di causa ai sensi dell’art. 2041 c.c., ha ad oggetto il recupero delle somme anticipate dal M. sia per l’acquisto del bene, che per la ristrutturazione e la rifinitura dell’immobile (a suo tempo acquistato in precarie condizioni), che per il pagamento delle rate del mutuo contratto da entrambe le parti.

In relazione a tale ultima voce va però osservato che la sentenza n. 6471/2011, oltre a procedere allo scioglimento della comunione, da un lato ha determinato le somme dovute alla Mo. per effetto del godimento esclusivo del bene da parte del convenuto, a seguito del venir meno della coabitazione tra i condividenti, ma dall’altro ha compensato tale posta con le somme dovute al M. quale rimborso pro quota delle rate di mutuo versate in via esclusiva.

Ne consegue che in parte qua la sentenza n. 6471/2011, ancorchè a fronte di una formale dichiarazione del giudice di volersi astenere dal pronunciare nel merito della domanda riconvenzionale, la ha in parte delibata, pervenendo ad un suo parziale accoglimento, così che l’assenza di efficacia preclusiva del giudicato invocato, deve reputarsi limitata alle sole poste creditorie diverse da quelle relative alla restituzione delle somme impiegate per il pagamento delle rate di mutuo. L’accoglimento per quanto di ragione del secondo motivo di ricorso, determina quindi la cassazione della sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Milano ai sensi dell’art. 383 c.p.c., u.c. la quale provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

PQM

 

Accoglie, nei limiti di cui in motivazione il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo, e cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Milano che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2017

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