Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14327 del 08/06/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 08/06/2017, (ud. 10/03/2017, dep.08/06/2017),  n. 14327

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6254-2016 proposto da:

C.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ROCCA PRIORA,

6, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPINA PAOLA CHIEFARI,

rappresentato e difeso dall’avvocato MICHELE CAMPINI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1479/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 07/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/03/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorrente C.B. propone ricorso, articolato in due motivi a formulazione complessa, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna n. 1479/205 del 7 settembre 2015, che confermava la sentenza n. 1178/2008 del Tribunale di Ferrara. C.B. aveva convenuto G.G. e G.M. per sentirli condannare a rimuovere uno stenditoio in ferro ed il marciapiede alto 35 centimetri dall’area cortiliva di uso comune interposta tra le limitrofe proprietà in (OMISSIS). La Corte d’Appello, rigettando il gravame del C., osservava come già il Tribunale avesse accertato, sulla scorta dell’espletata CTU, che l’area su cui erano stati realizzati i manufatti fosse di proprietà dei soli convenuti e non comune all’attore, e che generiche fossero le doglianze di violazione del neminem laedere avanzate dal Ciampini in memoria ex art. 183 c.p.c., mentre inammissibili erano le domande ulteriormente formulate in comparsa conclusionale. La Corte di Bologna ribadiva che l’appellante ancora non indicasse la fonte dell’asserito diritto di uso comune sul cortile e che, lamentando il pregiudizio subito alla possibilità di parcheggiarvi come alle facoltà di riceverne luce ed aria, neppure specificava quale diritto reale vantasse sull’area.

Non hanno svolto attività difensive gli intimati G.G. e G.M..

Ritenuto che il ricorso proposto potesse essere rigettato per manifesta infondatezza, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

Il ricorrente ha presentato memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2.

Il primo motivo deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e dell’art. 112 c.p.c., perchè l’espletata CTU si era soffermata non sul “rogito notarile”, ma soltanto sui dati catastali. L’esame di questo documento avrebbe consentito di stabilire in merito alla destinazione ad uso comune dell’area. Nè generica era la domanda proposta, giacchè volta all’eliminazione dello stenditoio e del marciapiede.

Il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, degli artt. 112, 113 e 115 c.p.c., e egli artt. 1102, 1104 e 1021 c.c. Si richiama ancora il rogito del 1955 e l’allegato foglio estratto catastale del 16 febbraio 1953, ove la corte era indicata di uso comune.

Entrambi i motivi, da trattare congiuntamente per la loro connessione, rivelano diffusi profili di inammissibilità e sono comunque manifestamente infondati. Le censure contrastano con l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il quale impone che i motivi siano specifici, completi e riferibili alla decisione impugnata, così postulando l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione. I motivi di ricorso proposti dal C., invece, si sostanziano in una diffusa accusa di mera ingiustizia della sentenza impugnata, trascurando che il ricorso per cassazione si caratterizza come un rimedio impugnatorio a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. D’altro canto, le censure neppure si avvedono che la decisione impugnata, come già quella resa dal Tribunale di Ferrara, è fondata su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, mentre il ricorso non si rivolge contro ciascuna di queste.

Inoltre, e venendo al merito della pretesa del C., le censure mosse dal ricorrente sono comunque del tutto sprovviste di decisività, in quanto egli invocava nel presente giudizio la sua qualità di comproprietario, insieme ai convenuti, del cortile esistente tra le unità immobiliari di loro rispettiva titolarità esclusiva, lamentando che gli stessi convenuti vi avessero arbitrariamente costruito un marciapiede e posizionato uno stenditoio. Secondo, allora, l’orientamento di questa Corte, l’attore doveva soggiacere all’onere di offrire la prova rigorosa prescritta in tema di azione di rivendica della proprietà ex art. 948 c.c., avendo agito per ottenere – previo accertamento della comunione – il recupero della piena utilizzazione del cortile, mediante demolizione o rimozione dei manufatti realizzati dai convenuti che pregiudicavano l’utilizzo del bene comune da parte del C., ovvero allo scopo di conseguire un provvedimento che gli consentisse l’esercizio dei poteri spettanti al comunista nell’uso del bene e quindi disponesse la modifica dello stato di fatto (cfr. da ultimo Cass. 18 gennaio 2017, n. 1210; Cass. 11 maggio 2016, n. 9656; Cass. 24 febbraio 2004, n. 3648).

Si è anche in passato negata ogni attenuazione dell’onere probatorio del titolo del preteso dominio della proprietà, rispetto all’azione di rivendica, per chi proponga un’azione di accertamento della proprietà di un bene (Cass. 22 gennaio 2000, n. 696). Quest’ultima più rigorosa interpretazione trova ora corroborazione pure negli argomenti posti da Cass. sez. un. 28 marzo 2014, n. 7305, nel senso di non ammettere alcuna elusione dall’onere della probatio diabolica ogni qual volta sia proposta un’azione, quale appare pure quella di accertamento, che trovi il proprio fondamento comunque nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione.

Dunque, C.B. non ha offerto, secondo l’apprezzamento di fatto svolto dai giudici di merito, e non sindacabile in sede di legittimità, prova del suo diritto di comproprietà, nè di altro diritto reale che lo legittimasse a dolersi della condotta tenuta da M. e G.G.; nè ha provato che gli stessi intimati avessero valicato dai limiti della loro proprietà della corte arrecando al ricorrente un pregiudizio patrimoniale.

Sono inammissibili poi le censure di motivazione non corretta, in quanto il vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ammette, quale vizio specifico denunciabile per cassazione, l’omesso esame di un “fatto storico”, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia, tale non essendo, ad esempio, per quanto sopra precisato, il rogito notarile o l’estratto catastale del 16 febbraio 1953, dei quali il ricorrente nemmeno trascrive il contenuto, agli effetti dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6). Alla stregua dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve, quindi, indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U, 7 aprile 2014, n. 8053).

A dispetto di quanto assumono le censure svolte dal C., non integra allora, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo l’omesso esame di argomentazioni difensive, o di elementi istruttori, non essendo comunque necessario che il giudice del merito dia conto minuzioso in motivazione di ogni osservazione e di ogni allegazione delle parti, ovvero di ogni risultanza probatoria, ed essendo, piuttosto, sufficiente che esponga le ragioni che lo hanno condotto alla soluzione adottata, mostrando di avere valutato ogni elemento rilevante per la soluzione stessa. L’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 -, riduce, quindi, l’area del sindacato di legittimità intorno ai soli “fatti”, e cioè ai dati materiali, agli episodi fenomenici rilevanti, ed alle loro ricadute in termini di diritto, aventi portata idonea a determinare direttamente l’esito del giudizio (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5133 del 05/03/2014).

Il ricorso va perciò rigettato. Non deve provvedersi in ordine alle spese del giudizio di cassazione in quanto non hanno svolto attività difensive gli intimati G.G. e G.M..

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Sesta civile – 2 della Corte suprema di cassazione, il 10 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2017

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