Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14291 del 08/06/2017

Cassazione civile, sez. II, 08/06/2017, (ud. 06/04/2017, dep.08/06/2017),  n. 14291

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8721-2013 proposto da:

LISICA SRL, (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

LUCREZIO CARO, 62, presso lo studio dell’avvocato SEBASTIANO

RIBAUDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANILO

CONTI;

– ricorrente –

contro

F. DI F.G. & C SNC, elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’avvocato PAOLO

PANARITI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ALBERTO CASALINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 193/2012 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 13/02/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/04/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Lisica s.r.l. ha proposto ricorso, articolato in due motivi, avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di BRESCIA n. 193/2012, depositata il 13/02/2012, che aveva accolto l’appello della F. s.n.c. di F.G. & c. avverso la sentenza del 28/10/2005 pronunciata dal Tribunale di Bergamo, ed aveva perciò condannato la Lisica s.r.l. a restituire all’appellante la somma di Euro 149.884,87, pagata in forza della provvisoria esecutività delle pronuncia di primo grado.

Resiste con controricorso la Ferrarin s.n.c. di F.G. & c.;

Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1.

La causa era iniziata con citazione del 01/10/2002 della Lisica s.r.l., la quale aveva domandato la condanna della F. s.n.c. di F.G. & c. al pagamento del saldo di prezzo della vendita immobiliare stipulata con atto del 14/10/1998, relativa ad un negozio compreso nel complesso di immobili adibiti ad uso commerciale di via (OMISSIS). Il saldo, pari a Lire 246.000.000, era stato affidato dalle parti ad un depositario, con l’incarico di consegnarlo alla venditrice “quando sarà aperto al pubblico il Supermercato Famila insistente nel Parco Commerciale”, ovvero di versarlo alla F. s.n.c. “qualora per qualsiasi ragione il Supermercato Famila non venisse aperto al pubblico entro il 31.12.1999”.

Il Tribunale di Bergamo aveva ritenuto che l’evento (apertura del Supermercato Famila nel Parco Commerciale entro il 31/12/1999) si fosse verificato, e perciò aveva condannato la F. s.n.c. a pagare alla Lisica s.r.l. l’importo di Euro 127.058,40, oltre interessi.

La Corte d’Appello, viceversa, ha rilevato come dall’istruttoria testimoniale (testi C., B. e Bo.) fosse emerso che il supermercato aperto nel centro commerciale di via (OMISSIS), non era contraddistinto dalle insegne (OMISSIS). Per contro, l’atto di deposito del 14 ottobre 1999 aveva individuato come condizione sospensiva per la consegna alla Lisica della somma di Lire 246.000.000 proprio l’apertura del supermercato Famila, ovvero di un esercizio pubblico percepibile dai consumatori come appartenente a tale catena, e perciò recante la relativa insegna e dotato degli standard propri dei negozi recanti quel segno distintivo. Priva di rilievo, secondo la Corte di Brescia, era la circostanza che il supermercato comunque aperto nel dicembre 1999 fosse riconducibile alla Commerciale Brendolan s.r.l., proprietaria anche del marchio (OMISSIS). Dunque, concludeva la Corte d’Appello, la condizione non poteva dirsi avverata.

Il primo motivo di ricorso della Lisica s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e l’insufficiente e contraddittoria motivazione. La ricorrente pone in evidenza che nell’atto di deposito del 14.10.1998 il riferimento fatto dalla parti al “Supermercato Famila” non significasse “Supermercato con insegna (OMISSIS)”. La prima censura definisce poi illogica l’integrazione delle espressioni letterali pattizie operata dalla Corte d’appello.

Il secondo motivo di ricorso denuncia l’omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo, con riguardo a cinque elementi probatori: testimonianza C., testimonianza Rossi, testimonianza Bo., lettera del depositario datata 08/01/2001, successiva vendita dell’immobile effettuata dalla F. s.n.c. nel dicembre 2001 al prezzo di Lire 3.439.500.000.

I due motivi di ricorso, che per le loro connessione possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.

Per unanime interpretazione di questa Corte, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio si traduce in un’indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di omesso esame di fatto decisivo e controverso, ovvero di violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. Il sindacato di legittimità in tema di interpretazione di un contratto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione, appunto, delle norme di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., non può comunque sollecitarsi con motivi di ricorso, quali quelli qui spiegati, che si limitano a contrapporre una diversa interpretazione, più gradita dalla ricorrente, rispetto a quella sostenuta nel provvedimento gravato. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (così indicativamente Cass. Sez. 3, 20/11/2009, n. 24539; Cass. Sez. 1, 22/02/2007, n. 4178).

Ora, interpretare una clausola contrattuale secondo cui il saldo di prezzo sarebbe stato corrisposto quando fosse stato “aperto al pubblico il Supermercato Famila”, nel senso che, per dirsi avverata la condizione, sarebbe occorsa l’apertura di un esercizio commerciale percepibile dal pubblico come “(OMISSIS)” per la presenza della relativa insegna, non è certo contrario al tenore letterale delle parole, in quanto l’insegna è il caratteristico segno, nominativo (come nella specie) o emblematico, distintivo di un determinato locale nel quale si esercita un’attività imprenditoriale, che contraddistingue lo stabilimento di un’azienda e costituisce il punto di incontro tra imprenditore e clienti. Di tal che, è del tutto logica l’interpretazione sostenuta dalla Corte d’Appello, per cui si sarebbe potuto ritenere “aperto al pubblico il Supermercato Famila” al 31/12/1999 soltanto ove fosse stata dimostrata l’apertura di uno stabilimento commerciale connotato da un’insegna di esercizio “(OMISSIS)”.

Non hanno poi fondamento le censure riferite a vizi della motivazione, le quali, in realtà, non deducono il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, ma invocano un diverso apprezzamento dei fatti e delle prove in senso opposto a quello svolto dai giudici dell’appello, trascurando che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (pur nella formulazione antecedente al D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella L. n. 134 del 2012, qui “ratione temporis” applicabile) non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

Conseguono il rigetto del ricorso e la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di cassazione in favore della controricorrente, nell’ammontare liquidato in dispositivo. Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2017

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