Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14288 del 13/07/2016


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Cassazione civile sez. trib., 13/07/2016, (ud. 13/06/2016, dep. 13/07/2016), n.14288

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. IZZO Fausto – Consigliere –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –

Dott. CATENA Rossella – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 738/2011 proposto da:

P.N., elettivamente domiciliato in ROMA VIA OVIDIO

26, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA MANCINI, che lo

rappresenta e difende giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI RIETI, in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE SEDE CENTRALE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 37/2010 della COMM. TRIB. REG. di ROMA,

depositata il 26/02/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/06/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE;

udito per il ricorrente l’Avvocato MANCINI che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato PUCCIARIELLO che ha

chiesto l’inammissibilità;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’inammissibilità e il

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La CTR di Roma, con sentenza 26 febbraio 2010, in accoglimento del gravame dell’Agenzia delle Entrate avverso l’impugnata sentenza, ha rigettato il ricorso di P.N., titolare di un’attività commerciale di ristorazione, avverso l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), con cui l’Ufficio aveva rettificato il suo reddito imponibile, per l’anno d’imposta 2003, da Euro 22.433,00 a Euro 51.360,00, a seguito di una verifica fiscale che aveva rilevato anomalie e incongruenze tra i valori dichiarati e quelli emersi in base alle caratteristiche dell’attività svolta, che giustificavano la ricostruzione indiretta del reddito, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1. La CTR ha rilevato l’esistenza di un comportamento non razionale e antieconomico del contribuente, il quale aveva effettuato prelevamenti rilevanti dal conto corrente intestato alla ditta, senza che risultassero fatture in contropartita, allo scopo di occultare corrispettivi in nero; ha ritenuto coerente l’accertamento di una differenza tra i coperti dichiarati nell’anno (n. 2112) e quelli reali (n. 3717), sulla base delle ricevute e fatture e delle dichiarazioni delle parti; quindi, ha proceduto alla ricostruzione indiretta dei ricavi e dell’importo evaso, tenendo conto dell’importo di Euro 7.596,00, costituente oggetto di versamento spontaneo da parte del contribuente, come attestato dall’Ufficio.

Avverso questa sentenza il P. ricorre per cassazione, sulla base di tre motivi, cui si oppone l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo denuncia omessa pronuncia (violazione dell’art. 112 c.p.c.) in ordine al mancato riconoscimento della riduzione del reddito imponibile, già ammessa dall’Ufficio, per l’importo di Euro 7.596,00, per il quale il contribuente si era adeguato agli studi di settore.

Il motivo è inammissibile, poichè non coglie la ratio decidendi, avendo la sentenza impugnata tenuto conto dell’importo versato dal contribuente, riducendo l’entità dell’accertamento.

Nel secondo motivo, il ricorrente denuncia omessa e insufficiente motivazione, con riguardo alla fondatezza delle presunzioni utilizzate per sostenere il giudizio di antieconomicità espresso dall’Ufficio, ai fini dell’applicazione del procedimento di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), non avendo il giudice di merito tenuto conto delle deduzioni difensive con le quali, a giustificazione dei redditi dichiarati, aveva evidenziato che si trattava di un’impresa familiare svolta all’interno di una struttura associativa sportiva, la cui attività non era assimilabile a un normale pubblico esercizio di ristorazione e non era redditizia, come dimostrato dal fatto che dopo pochi anni l’aveva cessata.

Il motivo è inammissibile, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, avendo la sentenza impugnata deciso la causa in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte. Infatti, i parametri o studi di settore previsti dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, commi da 181 a 187, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, Integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico – induttivo, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 39, comma 1, lett. d, che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase amministrativa e, soprattutto, in quella contenziosa, incombe l’onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto di accertamento (v. Cass. n. 3415/2015). A questo principio la sentenza impugnata si è attenuta, avendo ritenuto che, essendovi una inversione dell’onere della prova, nel caso concreto il contribuente non aveva dimostrato la inapplicabilità degli studi di settori: è una valutazione di fatto incensurabile in questa sede. Inoltre, il ricorrente, nel criticare l’esito della valutazione probatoria, svolta dai giudici di merito, pretende una rivalutazione del giudizio di fatto che non può essere compiuta da questa Corte in sede di legittimità.

Infine, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, sotto il profilo dell’inapplicabilità della normativa in tema di accertamento induttivo del reddito: è un motivo solo abbozzato ma non sviluppato, mancando qualsiasi indicazione delle ragioni in fatto e diritto della censura. Esso è quindi inammissibile.

Il ricorso è inammissibile. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.000,00, oltre SPAD. Così deciso in Roma, il 13 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2016

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