Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14279 del 14/06/2010

Cassazione civile sez. II, 14/06/2010, (ud. 12/11/2009, dep. 14/06/2010), n.14279

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5773-2008 proposto da:

D.T.I., B.F., B.V., nella loro

qualità di eredi e successori a titolo universale del Sig. B.

G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE MAZZINI 113,

presso lo studio dell’avvocato COCCOLA CLAUDIO MARCO, che li

rappresenta e difende, giusta procura alle liti in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

R.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PO 24, presso

lo studio dell’avvocato GENTILI AURELIO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato SICCHIERO GIANLUCA, giusta procura a margine

del controricorso;

– controricorrente –

e contro

P.M., M.M.P.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1362/2007 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

del 13/3/07, depositata il 17/10/2007;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/11/2009 dal Consigliere Relatore Dott. PPOLISTO PARZIALE. E’

presente il P.G. in persona del Dott. PIERFELICE PRATTS che nulla

osserva rispetto alla relazione scritta.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

D.T.I., B.F., B.V. impugnano la sentenza n. 1362/2007 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, del 13/3/07, depositata il 17/10/2007.

Resiste con controricorso R.P., mentre gli altri intimati non hanno svolto attività in questa sede.

Attivatasi procedura ex art. 375 c.p.c., il consigliere relatore delegato ha depositato relazione con la quale ritiene che il ricorso possa essere dichiarato inammissibile per mancanza o inidoneità dei quesiti di cui all’art. 366 bis c.p.c.. La relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai difensori delle parti.

Parte ricorrente ha depositato memoria con cui chiede di essere rimessa in termini per la rinotifica del ricorso.

All’udienza fissata per la camera di consiglio, il Procuratore Generale ha concluso concordando con le conclusioni del consigliere relatore.

Il ricorso va dichiarato inammissibile.

Occorre osservare al riguardo che il ricorso, tenuto conto delle sopra indicate date di pronunzia e pubblicazione della sentenza impugnata, è soggetto “ratione temporis” (vedi D.Lgs. n. 40 del 2006, n. 40, art. 27, comma 2) alle nuove disposizioni regolanti il processo di cassazione, tra cui segnatamente per quel che rileva, l’art. 366 bis c.p.c. (inserito dall’art. 6, citato D.Lgs.) a termini del quale nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 l’illustrazione di ciascun motivo “si deve concludere a pena di inammissibilità con la formulazione di un quesito di diritto” e nel caso di cui al 5 con la “chiara indicazione del fatto controverso”.

Nella specie, i motivi sono da considerare inammissibili già per la loro formulazione, dacchè, come questa Corte ha ripetutamente rilevato, nell’ambito del singolo motivo non possono essere contestualmente dedotte censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi della motivazione, ciò costituendo una negazione della regola di chiarezza posta dall’art. 366 bis c.p.c. per la deduzione dei vizi tanto di violazione di legge (del che meglio in seguito) quanto di motivazione, al qual riguardo prescrivendovisi che ciascun motivo debba contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Cumulando, infatti, nella medesima argomentazione critica, il vizio di violazione di legge con quello di motivazione, si omette tale chiara indicazione, che dovrebbe comunque concludersi con un momento di sintesi equipollente al quesito di diritto, rimettendo al giudice di legittimità il compito d’enucleare, dalla mescolanza delle argomentazioni, la parte concernente il vizio di motivazione, il quale deve, invece, avere un’autonoma collocazione ed in ordine al quale la mancanza, l’insufficienza, la contraddittorietà della motivazione, debbono avere separata trattazione e distinta sintesi interrogativa (Cass. SS.UU. 17.4.09 n. 9153, 4.2.09 n. 2683 in motivaz., 30.10.08 n. 26014, Cass. 11.4.08 n. 9470, 29.2.08 n. 5471, 23.7.08 n. 20355).

Motivi che sono, peraltro, da considerare inammissibili anche per la mancanza dei quesiti sulle questioni di diritto e per l’inidoneità su quelle relative alla motivazione.

In ordine ai quali motivi devesi rilevare che, in difformità da quanto prescritto dall’art. 366 bis c.p.c.: le censure per violazione di legge non si concludono con la formulazione del quesito di diritto; le censure per vizio di motivazione non contengono la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria nè le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, nè, comunque, contengono il necessario momento di sintesi corrispondente al quesito di diritto.

Una formulazione appropriata del quesito di diritto, aderente alla sua funzione, richiede che la parte, rispetto a ciascun punto della sentenza investito da un motivo di ricorso, dopo avere riassunto di quel punto gli aspetti di fatto rilevanti ed averne indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe, invece, deciso.

Non può ritenersi che il quesito di diritto o la chiara indicazione del fatto controverso e delle ragioni d’inidoneità della motivazione siano ravvisabili anche quando nella esposizione del motivo si rinvenga effettivamente per induzione la loro deduzione.

Osta a tale interpretazione dell’art. 366-bis c.p.c. il rilievo che il dettato normativo impone che l’esposizione del motivo si debba “concludere” con il quesito o con la detta “chiara indicazione”.

Ciò, se non significa che il quesito debba topograficamente essere inserito alla fine della esposizione di ciascun motivo, potendo esserlo anche all’inizio, per il fatto che siffatta sua articolazione implica necessariamente che esso si intenda formalmente ripetuto alla fine dell’esposizione, sì da adempiere comunque l’onere di conclusione, comporta necessariamente che il quesito debba svolgere una propria funzione di individuazione della questione di diritto posta alla Corte, sicchè e necessario che tale individuazione sia assolta da una parte specifica del ricorso, a ciò deputata attraverso espressioni puntuali che siano idonee ad evidenziare alla Corte la questione ed esclude, invece, che la questione possa risultare da un’operazione d’individuazione delle implicazioni della esposizione del motivo di ricorso affidata al lettore di tale esposizione e non rivelata direttamente dal ricorso stesso.

In sostanza, se il legislatore avesse voluto prevedere soltanto che il quesito si evincesse dall’esposizione del motivo, non avrebbe previsto che quest’ultima si concludesse con la formulazione del quesito, che implica palesemente un quid che non può coincidere con detta esposizione; avrebbe detto, dunque, che l’esposizione del motivo deve proporre un quesito di diritto, lasciando così alla Corte di cassazione l’opera di individuazione del medesimo, cioè, in definitiva, la valutazione della idoneità dell’esposizione a prospettare il quesito.

La conclusività nel senso della presenza nel motivo d’una parte specificamente destinata all’onere d’indicazione, è da ritenere operante anche nell’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel qual caso essa deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente destinata, di modo che non è possibile ritenere rispettata la prescrizione normativa allorquando solo la completa lettura della complessiva illustrazione del motivo riveli – all’esito di un’attività d’interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da parte del ricorrente deputata all’osservanza del requisito dell’art. 366-bis – che il motivo stesso concerne un determinato fatto controverso riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione e quali sono le ragioni per cui la motivazione in conseguenza è inidonea sorreggere la decisione.

D’altra parte, anche indipendentemente dal disposto dell’art. 366 bis c.p.c., per costante insegnamento di questa Corte il motivo di ricorso per cassazione con il quale alla sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 dev’essere inteso a far valere, a pena d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4 in difetto di loro specifica indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, invece, essere inteso a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’ apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe – com’è, appunto, per quello di cui trattasi – in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.

Il ricorso va, quindi, dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio nei confronti dell’intimato costituito, R. P., liquidate in complessivi 2.500,00 Euro per onorari e 200,00 per spese, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2010

 

 

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