Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14278 del 08/06/2017


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Cassazione civile, sez. III, 08/06/2017, (ud. 28/04/2017, dep.08/06/2017),  n. 14278

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCARANO L. Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20186-2015 da:

F.M., S.A., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA CIVININI 105 INT 3, presso lo studio dell’avvocato RENATO MELE,

rappresentati e difesi dall’avvocato VINCENZO VETERE giusta procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

ARSSA GESTIONE LIQUIDATORIA in persona del Commissario liquidatore

vicario e legale rappresentante pro tempore Ing. A.I.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MUGGIA 33, presso lo studio

dell’avvocato GIUSEPPE COSCO rappresentata e difesa dall’avvocato

FRANCO PITTELLI giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 208/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 05/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/04/2017 dal Consigliere Dott. GRAZIOSI CHIARA.

Fatto

RILEVATO

Con sentenza del 14 febbraio-5 marzo 2015, a seguito di appello di A.R.S.S.A. Gestione Liquidatoria, la Corte d’appello di Catanzaro ha riformato la sentenza del 28 gennaio 2014 del Tribunale di Castrovillari, sezione specializzata agraria nella parte in cui aveva dichiarato la risoluzione, per inadempimento degli affittuari S.A. e M.F. – appellati e impugnanti con appello incidentale condizionato – dell’obbligazione di pagare i canoni, di un contratto d’affitto agrario stipulato tra l’appellante e i suddetti in data 29 dicembre 2004, ordinando conseguentemente il rilascio del fondo e condannando gli appellati a pagare il canone delle annate 2005-2006 e 2006-2007, per il resto confermando la pronuncia.

Hanno presentato ricorso S.A. e M.F. sulla base di quattro motivi, tutti proposti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si difende con controricorso A.R.S.S.A. Gestione Liquidatoria.

Diritto

CONSIDERATO

1. Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c..

Gli attuali ricorrenti avevano eccepito l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c., eccezione che la corte territoriale avrebbe erroneamente respinto, in quanto l’appello non avrebbe assolto l’onere di specificare i motivi non avendoli coniugati “con espressa censura delle argomentazioni” fondanti la decisione di primo grado. Nell’atto d’appello non sarebbero state indicate con chiarezza le statuizioni impugnate attraverso le censure mosse alla sentenza di primo grado, nè adeguatamente contrapposte le argomentazioni dell’appellante a quelle di tale sentenza, denunciandosi soltanto violazione di legge, senza però argomentare sulla rilevanza dell’errore di diritto nel caso concreto.

Il motivo non appare meritevole di accoglimento: esso, in sostanza, ripropone l’eccezione che viene con congrua completezza e in piena chiarezza confutata dal giudice d’appello (motivazione della sentenza impugnata, pagine 6-7). D’altronde, non si può non rilevare che dalla complessiva struttura della motivazione della sentenza di secondo grado emerge, ad una lettura che sia improntata tanto alla logica quanto alla buona fede, che il gravame era stato a sua volta ben strutturato ed era quindi pienamente comprensibile in termini di specificità.

2. Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., art. 112 c.p.c., art. 342 c.p.c., n. 1, nonchè del principio dell’effetto devolutivo dell’impugnazione.

La corte territoriale ha rigettato l’eccezione di giudicato interno proposta dagli attuali ricorrenti, secondo cui non sarebbe stato appellato il capo della sentenza che aveva respinto la domanda di risoluzione del contratto per non essersi la concedente avvalsa di clausola risolutiva espressa. Avrebbe errato il giudice d’appello nel ritenere che il giudicato interno non sussistesse, poichè quanto alla declaratoria di improponibilità della domanda ex art. 1456 c.c., pronunciata dal Tribunale l’appellante aveva impugnato contrapponendo soltanto la validità della clausola risolutiva espressa.

Anche questa censura tenta di riproporre quanto già ben affrontato e adeguatamente confutato dal giudice d’appello (motivazione della sentenza impugnata pagine 7-8), senza tener conto delle argomentazioni da esso dispiegate ma confinandosi in una assertiva denuncia di erroneità delle stesse. La corte territoriale, pure sotto questo profilo, rapportandosi correttamente alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, non è incorsa in alcuna violazione di legge, bensì ha fornito una accurata e logica interpretazione della volontà di impugnazione effettivamente manifestata nel gravame dall’appellante, in conformità proprio con l’insegnamento nomofilattico relativo al capo impugnabile e alla sua ontologicamente doverosa autonomia (cfr., al riguardo, oltre all’arresto che il giudice d’appello ha richiamato – Cass. sez. 1, 23 marzo 2012, n. 4732 -, ex multis Cass. sez. L, 23 settembre 2016 n. 18713, Cass. sez. 3, 2 marzo 2010 n. 4934, Cass. sez. L, 23 febbraio 2009 n. 4363, Cass. sez. 1, 3 dicembre 2008 n. 28739, Cass. sez. 3, 29 aprile 2006 n. 10043, Cass. sez. 3, 16 gennaio 2006 n. 726 e Cass. sez. L, 7 marzo 1995 n. 2621). La censura pertanto deve essere disattesa.

3.1 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 e 1456 c.c., nonchè violazione dell’art. 112 c.p.c..

Viene fatto riferimento al settore motivazionale della sentenza impugnata (pagina 8 della motivazione) concernente la manifestazione da parte dell’appellante della volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa – l’art. 9 del contratto -, per sostenere la violazione, da parte del giudice d’appello, dell’art. 1456 c.c., perchè al riguardo sarebbero occorse specifica domanda e dichiarazione di volersene avvalere, argomentando altresì che nel ricorso di primo grado controparte avrebbe invece proposto domanda di risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c.. Nelle conclusioni del ricorso di primo grado, poi, si sarebbe chiesto di “accertare e dichiarare la risoluzione del contratto” – e conseguentemente di condannare gli affittuari al pagamento dei canoni, al rilascio dell’immobile e al risarcimento dei danni -, il che integrerebbe appunto domanda ex art. 1453 c.c.. Viene quindi estrapolata una parte di un periodo che sarebbe rinvenibile a pagina 5 dell’atto d’appello e in cui si sarebbe affermata la ricorrenza di “tutti gli elementi previsti dall’art. 1453 c.c. e ss.”, vista anche la gravità dell’inadempimento per mancato pagamento di più annualità e del 10% dei contributi pubblici; e si richiamano altresì le conclusioni di controparte nel giudizio d’appello, ovvero “dichiarare la risoluzione del contratto di fitto rustico stipulato… in data 29/12/2004”, deducendo che sarebbe in tal modo “dimostrata” la proposizione di domanda ex art. 1453 c.c., cioè di un’azione di risoluzione ontologicamente diversa da quella ai sensi dell’art. 1456 c.c..

Il giudice d’appello avrebbe “fatto un atomistico riferimento” a una parte del ricorso di primo grado e non avrebbe tenuto conto di ciò che in esso porterebbe a ritenere che l’azione risolutoria si rapportasse all’art. 1453 c.c., e non all’art. 1456 c.c.: pertanto avrebbe violato l’art. 112 c.p.c., dichiarando risoluzione su una base diversa da quella scelta dall’appellante.

3.2 Anche questo motivo risulta infondato.

Nelle pagine 8 s. della motivazione, invero, il giudice d’appello ha dato atto che il Tribunale aveva “ritenuto che la parte non avesse manifestato la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa di cui all’art. 9 del contratto di affitto agrario… Invero, una volta stabilita la validità della clausola risolutiva espressa, il fatto che la stessa sia stata azionata con la domanda contenuta nell’atto introduttivo del giudizio rendeva non necessario il ricorso ad una preliminare diffida per come evidenziato dall’appellante”, ben potendosi equiparare a tale diffida la citazione o altro atto processuale equivalente: per cui nel caso in esame “in mancanza di precedenti dichiarazioni dalle quali evincere l’intenzione dell’A.R.S.S.A. di avvalersi della clausola in parola per addivenire alla risoluzione del contratto, il Tribunale avrebbe dovuto valorizzare proprio la domanda contenuta nel ricorso introduttivo”, ove tra l’altro parte attrice, “evidenziata la mancata corresponsione del canone ai sensi dell’art. 9, faceva riferimento all’art. 1456 c.c., ed alla risoluzione automatica del contratto su semplice richiesta del locatore”. Quindi – prosegue la corte territoriale -, in riforma della decisione di primo grado, “quanto all’inadempimento degli appellati all’obbligo del pagamento del canone nei termini e nei tempi di cui all’art. 9 del contratto” (inadempimento non contestato dagli appellati) “deve ritenersi che la domanda contenuta nel ricorso introduttivo valga come dichiarazione del creditore di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa… Tanto basta per ritenere sussistenti i presupposti necessari per l’applicazione della clausola risolutiva espressa e per ritenere quindi risolto il contratto”.

3.3 E’ evidente che questa parte della motivazione della sentenza impugnata è dedicata a spiegare le ragioni della riforma della sentenza di primo grado laddove questa aveva dichiarato improponibile ai sensi degli L. 203 del 1982, artt. 5 e 46, quella che già il Tribunale stesso aveva qualificato “la domanda volta ad ottenere la dichiarazione di avvenuta risoluzione del contratto per mancato pagamento del canone” in quanto “avrebbe dovuto essere preceduta dalla contestazione dell’inadempienza e dal previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione”. Ciò non significa, tuttavia, che abbia errato la corte territoriale nel ritenere proposta una domanda ex art. 1456 c.c., anzichè, come il motivo in esame prospetta, ex art. 1453 c.c., e comunque non abbia correttamente evinto il fondamento della qualificazione della domanda risolutoria ai sensi dell’art. 1456 c.c..

Infatti, il passo della motivazione della sentenza impugnata appena trascritto e al quale fa riferimento la censura dei ricorrenti include – a ben guardare, nella imprescindibile contestualizzazione di quanto il giudice esterna nei singoli settori rispetto alla complessiva struttura motivazionale – altresì un implicito rinvio, in ordine ai presupposti della questione ivi espressamente trattata e quindi anche in ordine alla qualificazione ex art. 1456 c.c., a un settore antecedente della motivazione stessa, ovvero alla pagina 3. Qui, traendolo direttamente dalla descrizione del fatto processuale operata dal Tribunale, viene evidenziato che nel ricorso introduttivo l’A.R.S.S.A. aveva fatto espresso riferimento all’art. 9 del contratto – il quale prevedeva “un canone annuo di fitto pari a Euro 9.046,40 da versare entro il 10 novembre di ogni anno, la cui mancata corresponsione, decorso detto termine, avrebbe determinato la risoluzione automatica del contratto ai sensi dell’art. 1456 c.c.” – per addurre poi che non erano state pagate le annate agrarie 2005/2006 e 2006/2007 e che, “stante il perdurante inadempimento della controparte, l’attrice con raccomandate del 22/5/06 aveva comunicato la risoluzione del contratto ed intimato il rilascio dell’immobile”, segnalandosi altresì che “alla stregua delle esposte considerazioni parte attrice concludeva”.

E ciò dimostra l’infondatezza della censura in esame, poichè la valutazione “atomistica” che imputa al giudice d’appello impronta in realtà l’impostazione della censura stessa, che si supporta come si è visto – a parte una brevissima estrapolazione di generica pregnanza dalla pagina 5 dell’atto d’appello – sulle conclusioni del ricorso di primo grado e dell’atto d’appello stesso. Al contrario, dalla sentenza di secondo grado emerge, nelle modalità appena descritte, la corretta valorizzazione del rapporto delle conclusioni con il corpo dell’atto, che non può esserne scisso, ma che, come attesta la definizione semantica, in esse confluisce e si perfeziona: “conclude”, appunto (cfr., proprio a proposito della necessariamente globale identificazione del contenuto di un atto d’appello – il che a fortiori non può non valere pure per un atto introduttivo di primo grado, secondo il generale principio logico della contestualizzazione Cass. sez. 3, 14 luglio 2003 n. 10979: “L’interpretazione dell’effettivo contenuto dell’atto di appello – attività che compete al giudice di merito e non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, ove adeguatamente motivata – deve avvenire non solo in base alla letterale formulazione delle conclusioni, ma tenendo conto delle sostanziali finalità che la parte intende perseguire, che, anche se non riportate nelle conclusioni, possono ricavarsi dai motivi di reclamo avverso la sentenza di primo grado emergenti dal complesso dell’atto”; conformi Cass. sez. L, 22 maggio 1996 n. 4720 e Cass. sez. L, 29 novembre 1993 n. 11811).

2.1 Il quarto motivo denuncia infine, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 16, art. 416 c.p.c., comma 3 e art. 2697 c.c..

La corte territoriale avrebbe rigettato la domanda riconvenzionale – devoluta nell’appello incidentale condizionato proposto dagli attuali ricorrenti – di condanna dell’appellante principale a pagare le migliorie operate dagli affittuari con “argomentazioni” che ad avviso dei ricorrenti “non sono condivisibili” per violazione delle norme richiamate nella rubrica del motivo.

In particolare, la contestazione di controparte che avrebbe comportato il relativo onere probatorio, ritenuto non assolto dagli attuali ricorrenti, avrebbe dovuto riguardare in modo specifico la mancanza di consenso all’esecuzione delle migliorie, ai sensi dell’art. 416 c.p.c., comma 3.

Non sarebbe poi pertinente la giurisprudenza richiamata dalla corte territoriale (Cass. sez. 3, 30 gennaio 2012 n. 1303) perchè riguardante fattispecie diversa: nel caso in esame una clausola contrattuale obbligherebbe ai miglioramenti, ma il contratto non condurrebbe a intendere che ciò costituisca un’integrazione del corrispettivo.

Si fa inoltre riferimento all’art. 9, punto 4, del contratto, per cui, tra l’altro, al momento del rilascio “verranno accertate le rispettive ragioni di credito e di debito delle parti, ed il valore delle eventuali migliorie apportate dagli affittuari dopo la stipula”, da determinare nella “somma minore tra lo speso ed il migliorato”: il riconoscimento del diritto all’indennizzo per migliorie effettuate dopo la stipulazione del contratto senza “espresso riferimento al preventivo consenso del concedente” porterebbe “a ravvisare nella clausola il consenso dell’A.R.S.S.A. all’esecuzione dei miglioramenti”.

4.2 Deve anzitutto rilevarsi che il giudice d’appello ha rilevato (motivazione, pagina 12) che, nel contratto de quo, all’art. 12, comma 3, le parti avevano pattuito che “eventuali migliorie addizioni o trasformazioni agli immobili locati dovranno essere pattuite di volta in volta e di comune accordo tra le parti e ciò in deroga agli L. 203 del 1982, artt. 16, 17, 18 e 19”, deducendo che “tale previsione contrattuale, più restrittiva della disciplina legale,” imponeva agli attuali ricorrenti “l’onere di fornire la relativa prova, non già quindi quanto al mero consenso ma bensì di un intervenuto accordo, la cui mancanza porta al rigetto della domanda riconvenzionale spiegata”. Si tratta di una evidentemente autonoma ratio decidendi che supporta appunto il rigetto della domanda riconvenzionale cui fa riferimento il motivo in esame: il quale, peraltro, al riguardo tace, incorrendo pertanto nella inammissibilità per difetto di interesse.

Meramente ad abundantiam, pertanto, si aggiunge quanto segue.

La necessità di adempiere all’onere della prova del consenso dell’effettuazione di migliorie da parte degli attuali ricorrenti è stata correttamente affermata dal giudice d’appello (motivazione, pagina 11), seguendo l’insegnamento di questa Suprema Corte sulla irrilevanza dell’eventuale mancata specifica contestazione al riguardo, trattandosi di fatto costitutivo del diritto all’indennizzo per le migliorie in un rapporto di affitto agrario (la corte territoriale richiama con esattezza l’insegnamento in tal senso di Cass. sez. 3, 20 gennaio 2006, n. 1113; è conforme, tra gli arresti massimati, Cass. sez. 3, 4 giugno 2002 n. 8072).

Quanto poi all’argomento degli appellati che le migliorie fossero state imposte contrattualmente, il giudice d’appello fornisce una specifica confutazione, richiamando una giurisprudenza di legittimità realmente pertinente: Cass. sez. 3, 30 gennaio 2012 n. 1303, infatti, insegna che ai fini del riconoscimento del diritto dell’affittuario all’indennità per le migliorie apportate al fondo rustico occorre che queste siano state eseguite “per fatto o patto successivi al perfezionamento del contratto di affitto e non in esecuzione di un patto anteriore o coevo rispetto ad esso”, non potendosi d’altronde non riconoscere che, altrimenti, l’effettuazione delle migliorie viene attratta e assorbita dal sinallagma contrattuale.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna – in solido, per il comune interesse processuale – dei ricorrenti alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

PQM

 

Rigetta il ricorso e condanna solidalmente i ricorrenti a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 4.100,00 oltre a Euro 200,00 per esborsi e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2017

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