Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14260 del 08/07/2020

Cassazione civile sez. III, 08/07/2020, (ud. 24/02/2020, dep. 08/07/2020), n.14260

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 19009-2017 R.G. proposto da:

ICS CONSORZIO ITALIANO SOLIDARIETA’ UFFICIO RIFUGIATI ONLUS, in

persona del legale rappresentante, S.G.,

rappresentato e difeso dall’Avv. Andrea DIROMA, con domicilio eletto

in Roma presso lo Studio dell’Avv. Paolo SCIPINOTTI, via Orazio n.

30;

– ricorrente –

contro

A.A.;

– resistente –

e contro

AZIENDA SANITARIA UNIVERSITARIA INTEGRATA TRIESTE, in persona del

Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Enzo

Fogliani e dall’Avv. Alfredo Antonini, con domicilio eletto in Roma

presso lo Studio dell’Avv. Fogliani, via Prisciano n. 42;

– controricorrente –

e contro

P.M., rappresentata e difesa dall’Avv. Nicola Cannone, con

domicilio eletto in Roma presso lo studio del Prof. Avv. Mario

Cannata, via della Mercede 11;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 21/2017 del Tribunale di TRIESTE, depositata

il 18/01/2017.

Udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del sostituto

Procuratore Generale Dott. MISTRI Corrado, che ha chiesto la

declaratoria di inammissibilità e in subordine di rigetto del

ricorso.

Uditi gli Avv.ti Andrea DIROMA e Francesco CORVASCE, rispettivamente,

per ICS e P.M.;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 24 febbraio

2020 dal Consigliere Dott. Marilena Gorgoni.

Fatto

FATTI DI CAUSA

I.C.S. – Consorzio Italiano di solidarietà – Ufficio Rifugiati – Onlus – ricorre per la cassazione della sentenza n. 21/2017 del Tribunale di Trieste, depositata il 18 gennaio 2017 articolando due motivi.

Resiste con controricorso P.M..

P.M. evocava in giudizio dinanzi al Giudice di Pace di Trieste A.A., l’Azienda Sanitaria universitaria integrata di Trieste e l’I.C.S. per ottenerne la condanna solidale, rispettivamente, ex artt. 2043 e 2047 c.c., al risarcimento del danno consistente nello schiacciamento del tetto della propria auto, provocato dalla caduta su di esso di A.A. che, affetto da tempo da disturbi psichiatrici ed in cura presso il centro di salute mentale di (OMISSIS), nel tentativo di suicidarsi, si gettava dalla finestra del secondo piano di uno stabile sede dell’I.C.S., ove era ospitato in quanto rifugiato politico.

Costituitasi in giudizio, l’Azienda sanitaria chiedeva il rigetto della domanda attorea perchè non vi era prova che A.A. fosse incapace di intendere e di volere, adduceva la diligenza dei propri operatori che, insieme con quelli dell’I.C.S., avevano permesso che A.A. raggiungesse un buon equilibrio psichico e sociale, negava la propria responsabilità, attesa l’impossibilità di impedire il fatto, tenuto conto che la caduta era avvenuta mentre A.A. si trovava presso la sede dell’I.C.S..

L’I.C.S. contestava la fondatezza della domanda attorea e, in subordine, chiedeva di essere manlevato dall’Azienda sanitaria.

Il Giudice di Pace accoglieva integralmente la domanda di P.M., con sentenza n. 362 del 30 aprile 2013, la quale, impugnata, in via principale, dall’Azienda sanitaria universitaria e, in via incidentale, dall’I.C.S., veniva confermata dal Tribunale di Trieste, con la pronuncia n. 362/2013, oggetto dell’odierna impugnazione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il consorzio ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, pur oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dal fatto che il giorno stesso del tentativo di suicidio l’Azienda Ospedaliera, su richiesta di una sua operatrice, avesse sottoposto a visita psichiatrica A.A. e ne avesse disposto il congedo, ritenendo assente ogni segno di disturbo.

Pertanto, il Tribunale, ritenendolo consapevole che A.A. fosse incapace, sarebbe incorso in errore, non avendo tenuto conto che l’accoglienza presso la Comunità di rifugiati non implicava l’adozione di particolari cautele, che gli operatori del centro di accoglienza non avevano la competenza per valutare la pericolosità dei soggetti accolti e che l’Azienda sanitaria aveva dato rassicurazioni errate circa la non pericolosità di A.A., come emerso dalla relazione peritale.

Il motivo è inammissibile.

La disposizione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è stata oggetto di modifiche plurime con finalità delimitativa del ricorso al vizio logico alla motivazione in facto, da circoscrivere al controllo sulla decisione in fatto della sentenza di merito strettamente funzionale alla tutela del valore costituzionale della motivazione.

In particolare, ai fini che qui interessano, il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, recante Misure urgenti per la crescita del Paese (c.d. decreto sviluppo), ha proceduto alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, facendo riferimento all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ed ha introdotto due ipotesi in cui non è possibile invocare il vizio in oggetto, definite, rispettivamente, dal quarto e dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, comma introdotto, quest’ultimo, dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. a): ipotesi accomunabili nel riferimento alla minore impugnabilità della c.d. doppia conforme.

Delle due, a rilevare nel caso di specie è quella che riguarda la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado, perchè quando la sentenza di appello sia conforme in facto (fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata) a quella di prime cure non è deducibile il vizio di cui all’art. 360, n. 5.

Nella specie la decisione del Tribunale, nel confermare integralmente la sentenza del Giudice di Pace, ha condiviso la valutazione sui fatti compiuta dal giudice di prime cure, perciò, per le ragioni esposte, il motivo deve essere dichiarato inammissibile.

Al fine di evitare tale conclusione, parte ricorrente avrebbe dovuto, confrontando le ragioni di fatto poste a fondamento della decisione di primo grado con quelle poste a base della sentenza di rigetto del gravame, dimostrarne la diversità: il che nel caso di specie non risulta avvenuto.

2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza gravata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2047 c.c..

Il Tribunale, secondo l’argomentazione difensiva proposta, avrebbe erroneamente ritenuto ricorrente a suo carico un obbligo di sorveglianza di persona incapace, omettendo di considerare che l’assistenza dei rifugiati in strutture di accoglienza ordinaria non prevedeva che le medesime si dotassero di presidi, quali sbarre alle finestre, vetri antisfondamento, nè di personale specializzato nella sorveglianza di soggetti con disturbi comportamentali, nè polizze assicurative per danni a terzi.

Occorre partire dalle seguenti premesse:

– all’epoca del fatto, 14 novembre 2009, il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, dei rifugiati e delle persone titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari o per protezione temporanea era disciplinato dal D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 140, il quale aveva dato attuazione alla Direttiva 2003/9/CE, recante norme minime relativamente ai richiedenti asilo negli Stati Membri. Tale sistema, ai fini dell’accoglimento della richiesta di accoglienza e per quanto qui di interesse, prevedeva che si avesse riguardo per le “persone portatrici di esigenze particolari”, affinchè ricevessero servizi speciali di accoglienza in grado di garantire misure assistenziali particolari ed un adeguato supporto psicologico (art. 8).

In più, con decreto del Ministero dell’interno del 27 giugno 2007, art. 1, comma 2, era stato stabilito che dovevano ritenersi compresi nella categoria dei vulnerabili i soggetti che necessitassero di assistenza sanitaria e domiciliare specialistica e/o prolungata.

Funzionale alla prestazione di accoglienza si rivelava l’individuazione di una struttura che tenesse conto delle caratteristiche della persona, e, quindi, nel caso di specie, della sua vulnerabilità, e che fosse idonea sia quanto ai requisiti generali previsti in materia di urbanistica, edilizia, prevenzione incendi, igiene e sicurezza, sia quanto a quelli specifici necessari per garantire l’assistenza di categorie di persone che richiedevano particolare protezione e assistenza lungo tutto il periodo di accoglienza, giacchè era specificamente previsto che si impiegassero operatori con una formazione adeguata e specifica, con competenze e capacità idonee ed in numero adeguato (come risulta ed è confermato dal decreto del Ministero dell’Interno 21 novembre 2008 di approvazione dello schema di capitolato d’appalto per il funzionamento e la gestione dei CSPA – centri di primo soccorso ed assistenza – dei CDA – centri di accoglienza – dei CARA – centri di accoglienza per i richiedenti asilo – e dei CIE – centri di identificazione ed espulsione -).

Sulla scorta di tali premesse risultano del tutto inconferenti le censure -ribadite durante la pubblica udienza – rivolte alla sentenza impugnata per avere:

a) posto “a carico di chi gestisce l’accoglienza nell’ambito del sistema SPRAR, degli oneri capaci di mettere in severa difficoltà i gestori medesimi”;

b) reso “il sistema di accoglienza talmente oneroso che nessuno potrebbe più assumersene la gestione”.

L’esternalizzazione dell’attività di accoglienza, cioè la possibilità che essa sia resa anzichè dallo Stato da organizzazioni privatistiche si ispira al principio della sussidiarietà, sicchè deve ritenersi che gli enti collettivi privati che perseguano fini di carattere generale siano elementi di una nozione ampia di organizzazione pubblica, per cui la loro attività concorre con quella pubblica alla prestazione di servizi di interesse generale, dando attuazione ai principi di solidarietà e di partecipazione.

Deve essere altresì sottolineato:

– che l’esternalizzazione non comporta una deroga alla normativa applicabile al settore di attività in cui l’ente privato opera;

– che l’erogazione di servizi sociali comporta l’impiego di risorse pubbliche e che perciò devono essere garantite l’economicità, l’efficacia e la trasparenza dell’azione amministrativa, oltre che la parità di trattamento tra gli operatori del settore;

– che, in particolare, l’accoglienza nelle cosiddette residenze sociali di transizione rientranti nel progetto SPRAR (Sistema di Protezione per richiedenti asilo e rifugiati istituito con la L. 30 luglio 2002, n. 189), destinate ad ospitare cittadini richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, veniva gestita mediante la partecipazione dei Comuni ai bandi finanziati annualmente dal Ministero dell’Interno mediante il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (FNPSA), cui potevano accedere gli Enti Locali che prestavano servizi finalizzati all’accoglienza dei richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione umanitaria (R.A.R.U.). Gli enti locali potevano partecipare in partenariato con i soggetti del terzo settore che intervengono in qualità di “enti attuatori”;

– che tale attività era disciplinata dal Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (oggi abrogato dal D.Lgs. n. 50 del 2016), rientrando la gestione dell’accoglienza, tra cui quella in ambito SPRAR, nel novero dei servizi sociali che, nella vigenza del D.Lgs. n. 163 del 2006, facevano parte dei servizi di cui all’Allegato IIB e, dunque, erano esclusi dall’ambito di applicazione integrale dell’allora vigente Codice dei contratti pubblici (cfr. Delib. Anac n. 25 del 2012, Delib. Anac n. 7 del 2014; Delib. Anac n. 32 del 2016); tale esclusione non comportava comunque la conseguenza che essi potessero ritenersi estranei alla disciplina pubblicistica, considerato che del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 27, stabiliva che “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione del codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità”.

Tanto induce a convenire con quanto ritenuto dal Tribunale nella sentenza impugnata e cioè che l’accettazione presso la propria comunità alloggio di un soggetto non solo vulnerabile – come emergeva dalla documentazione medica – che continuava a rivelarsi tale – com’era dimostrato dai plurimi interventi delle forze dell’ordine e del 118, dai numerosi trattamenti sanitari obbligatori cui era stato sottoposto – ma che, per giunta, proprio nel corso del 2009 aveva manifestato una riacutizzazione del disturbo schizofrenico da cui era affetto e per il quale era in cura sin dal 2003, implicava da parte dell’I.C.S. l’assunzione di un obbligo di sorveglianza.

Questo è il dato da cui partire e da cui ha preso le mosse la decisione impugnata che, infatti, ha richiamato le finalità istituzionali dell’I.C.S.: “la tutela dei diritti civili e l’accoglienza degli stranieri in condizioni di svantaggio fisico, psichico, economico o sociale o familiare, con particolare attenzione ai richiedenti asilo ed a titolari di protezione internazionale; le attività consistono, tra l’altro, nell’organizzazione di attività di assistenza e accoglienza”. Il Tribunale ha aggiunto che “l’assistenza e l’accoglienza scadrebbero al rango di una sine cura, a discapito, o nel disinteresse verso la tutela dell’incolumità del soggetto accolto nella struttura e, indirettamente, nei confronti di coloro, siano essi altri ospiti della struttura o soggetti terzi, che vengano a contatto con l’incapace” (p. 5).

Nondimeno, le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale non sono corrette.

Queste le ragioni.

Nel caso di specie non ricorrevano i presupposti per esigere dall’ICS un obbligo di sorveglianza con i contenuti e l’estensione postulati dalla sentenza impugnata, pur essendo stati ritenuti ricorrenti:

a) l’incapacità naturale di A.A.. L’art. 2047 c.c., richiede la ricorrenza di un fatto illecito che obbligherebbe il relativo autore al risarcimento del danno se non fosse considerato incapace di intendere e di volere. Considerando che A.A. è stato reputato dal giudice a quo incapace di intendere e di volere e che tale conclusione è il risultato di un accertamento di fatto (Cass. 08/02/2012, n. 1770) in questa sede non sindacabile (cfr. anche quanto argomentato con riferimento al primo motivo di ricorso), deve ritenersi che il requisito dell’incapacità di intendere e di volere fosse ricorrente nel caso di specie.

b) il verificarsi di un fatto illecito. Anche a prescindere dalle diatribe in ordine alla sussistenza di un comportamento colpevole, dipendenti dall’accezione della colpa – se criterio di valutazione del comportamento o se comportamento riprovevole di chi non abbia fatto uso delle proprie capacità e facoltà per impedire il verificarsi dell’evento dannoso – e dalla non coincidenza di imputabilità e colpa, superate dal fatto che il giudice a quo ha ritenuto incapace di intendere e di volere e non imputabile A.A., deve partirsi dal presupposto che il danno di cui è stato chiesto il risarcimento era quello conseguente ad un tentativo di suicidio.

Ebbene il suicidio, quand’anche lo si consideri in sè un atto antigiuridico e non un fatto illecito, lo diventa, illecito appunto, quando esso provochi un danno ingiusto a terzi. Non deve, infatti, sovrapporsi l’antigiuridicità – antigiuridico è l’atto vietato, in quanto oggettivamente contra legem, e dunque contrastato dall’ordinamento giuridico che lo guarda nella sua oggettività come un disvalore; sul se il suicidio meriti la definizione di comportamento antigiuridico, indipendentemente dall’assenza di sanzioni a carico del suicida, il dibattito è aperto, ma ai fini della vicenda per cui è causa è inconferente – con l’illiceità – cioè con l’atto che non solo sia antigiuridico, ma che comporti la lesione non iure di un diritto altrui che provochi un danno ingiusto.

c) la derivazione causale dell’evento dannoso dalla condotta omessa, atteso che i danni all’auto riportati dalla richiedente erano stati cagionati da un comportamento illecito che il soggetto non imputabile aveva posto in essere sottraendosi alla vigilanza del centro di accoglienza.

Premesso che il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva e che l’evento dannoso è una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire – stante che l’omissione di un certo comportamento rileva quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento – nel caso di specie deve escludersi che a carico dell’ICS vi fosse l’obbligo specifico o generico di tenere la condotta asseritamente omessa.

Se è vero che il rifugiato versava in condizioni di vulnerabilità note alla cooperativa di accoglienza e se è vero che era sorto un dovere di sorveglianza a carico di quest’ultima – da intendersi alla stregua di un munus e di una funzione liberamente accettati e come tali riconoscibili all’esterno, sì da assumere rilevanza erga omnes (Cass. 16/06/2005, n. 12965), giacchè il principio di affidamento implica che un soggetto, salvo che sia un derelictus, viene a trovarsi nella sfera di custodia e di vigilanza di altro soggetto che sia in grado di seguirne e controllarne le azioni affinchè non si verifichino effetti pregiudizievoli (Cass. 01/06/1994, n. 5306) – per il fatto che il centro lo avesse accolto presso di sè, doveva essere individuato il limite della condotta doverosa ed esigibile in concreto.

Un conto è infatti l’obbligo di sorveglianza/vigilanza che comporti la sottoposizione del rifugiato in quanto soggetto vulnerabile a particolare attenzione, comprendente, ad esempio, l’inserimento in un percorso di inserimento e recupero psico-sociale, l’erogazione di un supporto psicologico, modellato sulle sue condizioni, il dovere di avviso delle autorità di pubblica sicurezza a tutela dell’incolumità pubblica ove essa potesse essere messa in pericolo dall’incapace (cfr. Cass. 20/06/2008, n. 16803 a proposito degli obblighi di garanzia dell’incolumità pubblica demandati all’autorità di pubblica sicurezza e comunque non posti a carico dell’eventuale sorvegliante) e di sollecitazione ad intervenire ed garantirgli l’assistenza terapeutica necessaria allertando il servizio sanitario nazionale – come è puntualmente avvenuto, allorchè l’ICS, acquisita consapevolezza della riacutizzazione dei fenomeni di schizofrenia, a conoscenza della tendenza di A.A. ad interrompere la terapia, anche quella contenitiva degli atti di autolesionismo, aveva chiesto per lui la visita psichiatrica che era stata eseguita proprio la mattina cui risalgono i fatti – altro è, invece, il più pregnante obbligo di intervento che sottende il dovere di impedimento dell’evento dannoso. In altri termini anche l’assunzione dell’accoglienza del rifugiato di cui erano note le condizioni di salute e lo stato di vulnerabilità e quindi il fatto che si fosse instaurata una relazione con la fonte di pericolo e che vi fosse una innegabile esigenza solidaristica di tutela, avrebbe dovuto misurarsi con il quantum di diligenza richiesto in concreto all’ICS al fine di adottare una condotta precauzionale diversa, cioè di osservazione costante di A.A., al fine prevenire il danno: diligenza da vagliare, ex art. 1176 c.c., comma 2, operante anche in ambito extra contrattuale, in ragione dello statuto dell’attività esercitata.

Il giudice a quo non ha tenuto conto che l’estensione ed il contenuto dell’obbligo di vigilanza variano in funzione delle circostanze del caso concreto e, in particolare, che la comunità alloggio non era una struttura terapeutica di ricovero, che non poteva imporre ad A.A. la terapia farmacologica, che non poteva limitarne la libertà personale, che non era obbligata a dotare l’edificio di presidi – quali lo sbarramento delle finestre al fine di prevenire il suicidio per precipitazione – che avrebbero inesorabilmente trasformato l’ICS in una struttura reclusiva, che non era tenuta ad assumere obblighi di bonifica ambientale diversi da quelli esigibili da una struttura a carattere prevalentemente residenziale.

In altri termini, il contenuto dell’obbligo di vigilanza e di sorveglianza andava individuato in concreto in relazione a quelle prestazioni di bisogno non strettamente terapeutico e di sorveglianza esigibili da una struttura residenziale aperta, erogante servizi ai rifugiati, anche quelli in condizioni di vulnerabilità, all’interno del complesso sistema dello SPRAR.

La conclusione da trarne è che per affermare la responsabilità dell’ICS per i danni a terzi cagionati dal comportamento autolesivo di A.A. non bastava la valutazione della materialità fattuale, ma era necessaria la preventiva individuazione dell’obbligo a suo carico, specifico o generico, di tenere la condotta omessa.

La regola è che il fatto che l’evento sia causalmente legato alla condotta non basta, perchè significherebbe sovrapporre il piano della causalità con quello della responsabilità, mentre invece per affermare la responsabilità ex art. 2047 c.c., occorre che l’evento occorso rientri nello spettro di quelli per evitare i quali è stata posta la regola violata – anche se l’evento è causalmente collegato alla condotta – in quanto colpa e nesso di causa costituiscono elementi dell’illecito indipendenti ed autonomi: vi potrà essere la prima senza il secondo o viceversa, senza che dalla presenza dell’uno possa inferirsi alcunchè in merito all’esistenza dell’altro (Cass. 22/10/2014, n. 22331).

Ne consegue che il motivo deve essere accolto; la sentenza viene cassata con riferimento al motivo accolto e la controversia rimessa al Tribunale di Trieste in persona di altro giudice appartenente al medesimo ufficio giudiziario che provvederà anche a regolare le spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo, accoglie il secondo; cassa la decisione in relazione al motivo accolto e rimette la controversia al Tribunale di Trieste in persona di altro Giudice appartenente al medesimo Ufficio giudiziario che provvederà anche a liquidare le spese del presente giudizio di legittimità.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente del Collego, per impedimento del relatore ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 24 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2020

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